L'orrore dentro: favola di una mutazione

L'orrore dentro: favola di una mutazione

Ogni insetto conosce una o più mutazioni e alcune di queste sono straordinarie e incredibili.
Credo che tutto ciò capiti anche agli uomini.
David Cronenberg


Al cinema si ha l’abitudine di definire un’immagine sulla base di un coefficiente di verità: questa immagine è vera o no? Questa immagine è giusta o no? Cronenberg ci invita a porre il problema in maniera differente: questa immagine è sana o virale? È stata forse parassitata da un virus, nel senso in cui il termine è usato nell’informatica? In effetti, nella maggior parte dei film di Cronenberg è presente un programma umano, all’inizio apparentemente sano, che un virus non solo rovina ma, come accade ai computer, distrugge dall’interno, seguendo la stessa logica del linguaggio informatico, così come il virus biologico utilizza il codice genetico del suo ‘ospite’. Un approccio essenzialmente diverso rispetto a quello di altri film dell’orrore o di fantascienza, in quanto la sua forma narrativa è prossima non tanto a un intreccio quanto a una perizia medica, tesa a registrare, talvolta in maniera documentaristico-realista, l’avanzare di una malattia. La realtà sociale, anche se abbozzata, è sempre realista (se non addirittura iperrealista) e i ‘mostri’ non sorgono mai ‘per magia’; al contrario essi sono sempre individui socialmente e storicamente esistenti che, per effetto di un trauma, di una manipolazione medica o di un esperimento scientifico tentato su se stessi, si ritrovano alterati, metamorfizzati, mortalmente colpiti da una mutazione organica. Da ciò consegue la forma generale che assume la sua sceneggiatura-tipo: il protagonista, in seguito a una di quelle operazioni, si ritrova contaminato da un virus che ne altera l’umanità. L’alterazione non è tuttavia sempre negativa; essa può attribuire poteri ‘sovrumani’, paranormali (la telepatia e la telecinesi in Scanners, i poteri di una macchina in Videodrome, l’aumento della potenza sessuale e della forza fisica in La mosca, la possibilità di predire il futuro ne La zona morta); ma può anche far regredire verso l’animalità (la sanguisuga di Rabid – Sete di sangue, la femmina animale di Brood – La covata malefica, l’insetto di La mosca e Il pasto nudo, l’animale in calore de Il demone sotto la pelle).
Il protagonista non recupererà mai la ‘salute’ (la normalità); spesso, tuttavia, nemmeno lo desidera. Piuttosto, approfitta dell’occasione per sfuggire alla sorte comune. E quindi tenta, mosso da una curiosità anch’essa malsana [...] di spingersi più avanti, di portare la mostruosità al limite estremo. Vuole andare ‘fino in fondo’, in un al di là della carne che non ha nulla a che vedere con la cristiana aspirazione a un’estrema purezza e piuttosto si riferisce alle speculazioni scientifiche sull’ottimizzazione delle capacità fisiche e intellettuali.
Serge Grünberg, David Cronenberg, Shake, Milano 1999


Cronenberg ci avverte – e lo fa quando ancora la tendenza generale delle ‘civiltà occidentali’ all’autoreferenzialità sono agli inizi – che le società hanno subito un processo irreversibile di mutazione, per il quale alla stratificazione sociale si è sostituito un andirivieni incessante di prospettive, eterogeneità, indecidibilità, complici, forse, i mezzi di comunicazione. Secondo tale quadro l’horror non è più il quoziente di paura o di istituti repressi di una società, che vengono alla luce e sono formalizzati; ma lo stato costante, generale, quotidiano delle condizioni stesse della vita. La dimensione stessa dell’esistenza quando già tutte le paure, i timori, le perversioni sono venute fuori.
Dunque la domanda che il regista si pone è: cosa succede degli usuali processi interiori umani in questa dimensione?
Il punto di partenza dei requisiti dell’‘horror’ classico era la rappresentazioni di pulsioni venute alla luce in un presunto ordine sociale e civile; queste pulsioni sono rappresentate come mostri, fantasmi, creature aliene. Il punto di partenza di Cronenberg è la messa in scena di processi psichici malati, perversi, distorti, nell’epoca in cui tutte le pulsioni hanno ‘fatto il loro gioco’, quando in pratica la realtà stessa è divenuta terrore, violenza, demenza, paura, mostro e fantasia.
Questa la sua estensione concettuale e visionaria, questo il suo campo di indagine. In Videodrome il presupposto dell’azione è che non esiste più arena sociale e che non esistono più interscambi sociali individuali, ma che esiste una videoarena e che ci sono individui più o meno relazionati in essa, una volta accettata tale nuova realtà.
L’horror non è più fuori, nella messa in scena di una società in trasformazione che rimuove i propri malati, ma dentro ognuno di noi.
Paolo Vergnaglione, David Cronenberg, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995


In Lynch e Cronenberg troviamo spesso deformazioni dell’umano: abbondano metamorfosi, mutazioni o ibridazioni bizzarre, le quali creano una dimensione ‘nauseante’ che raffigura molto bene l’orrore e l’attrazione che il soggetto prova di fronte alla propria decadenza. Da qui le storie da incubo di trasformazione in insetto, metafora dell’alterazione dell’integrità umana (di cui La mosca offre una versione piuttosto ironica). [...] L’orrore in Lynch o Cronenberg non è dunque esteriore – a differenza di storie come quella di Alien – ma sempre interiore, innestato direttamente sul sistema nervoso, come in Videodrome o Eraserhead, dove un tumore o un virus sembrano distruggere il corpo dall’interno. La metamorfosi fisica non è che il riflesso di una dipendenza mentale, fatale sottomissione che annienta la libertà del soggetto. Così il protagonista di Videodrome, manipolatore di immagini, è a sua volta manipolato, e scopre con sgomento le proprie pulsioni segrete: sadismo, voyeurismo.
Agnès Peck, “Positif”, n. 371, gennaio 1992


Cronenberg ha scelto il virus come metafora privilegiata per operare all’interno del genere che predilige, non tanto per rinnovare i quadri di una simile tradizione, quanto piuttosto perché l’approccio virale presenta il vantaggio di mettere da parte tutta la paccottiglia irrazionale che di norma circonda il paranormale. Il genere fantastico, in effetti, presuppone il rispetto di un certo numero di regole, o per meglio dire di una morale. [...] È proprio per rompere con una simile tradizione che Cronenberg ha consapevolmente deciso di esplorare quel suo caratteristico ambito (che, in parte, ha lui stesso inventato e in cui l’orrore è allo stesso tempo interiore, viscerale, giocato cioè sul ripugnante, e medico), un po’ alla maniera di un letterato viaggiatore settecentesco, con l’occhio sperimentale ed enciclopedico del ficcanaso. Strada facendo, il regista ridefinisce una sorta di materialismo estetico attraverso la sua caratteristica sensibilità, le sue ossessioni, il suo senso di ciò che Sade (in ambiti analoghi) definiva giustamente la délicatesse.
Serge Grünberg, David Cronenberg, Shake, Milano 1999