Immagini virali: nuovi media, nuova carne

Immagini virali: nuovi media, nuova carne

La televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione.
Brian O’Blivion


Videodrome
è a tutti gli effetti il ‘manifesto’ del cinema di Cronenberg: un film paradigmatico, pluristratificato e scioccante. Sconvolgente come un’allucinazione, lucido e denso come un saggio teorico sul mondo mass-mediale in cui ci è dato di vivere. Raramente il cinema ha portato così in profondità la riflessione su se stesso, sul proprio senso, sul suo rapporto con gli altri media e con il corpo degli spettatori. [...] Cronenberg riflette sull’intossicazione iconica derivata dal consumo di immagini televisive e sulle modificazioni fìsiche e antropologiche che la diffusione della tv sta apportando all’apparato percettivo umano. Videodrome ha cioè la forma inquietante di un’interrogazione problematica sulla natura riproduttiva delle immagini e sul rapporto di ambivalente fascinazione e repulsione che l’occhio umano prova di fronte ai propri sogni e ai propri incubi reificati e incessantemente riprodotti sullo schermo della tv.
Gianni Canova, David Cronenberg, Il Castoro, Milano 1993


Naturalmente ha ragione Serge Grünberg a parlare di Max Renn come di un divoratore d’immagini, un drogato, il prototipo dello yuppie nordamericano e anche a tirare in ballo le analisi burroughsiane sulla droga: ma questo è anche lo stesso universo della grande letteratura americana, da Poe ad Henry Miller, da Burroughs a Timoty Leary, la frontiera cioè di quell’America che è altra rispetto al capitalismo internazionale (che nel film è simboleggiato dalla figura di Barry Convex e della sua multinazionale Spectacular Optical) e anche rispetto al cinema hollywoodiano d’assalto, compresi i mostriciattoli di Lucas in Guerre Stellari o i piccoli esserini così graziosi di Spielberg.
Il cinema di Cronenberg invece è anti-grazioso per definizione e segue quella tendenza letteraria ed artistica che annovera i surrealisti come Philip Dick, James Ballard, William Gibson che hanno scritto contro il ‘sogno americano’ e quella facile, dolciastra poetica del lieto fine e naturalmente in questo sono stati spalleggiati da alcuni registi e cineasti ‘radicali’ come David Lynch, John Carpenter, George Romero, Tobe Hooper, Sam Raimi, Wes Craven.
In Videodrome però c’è il più radicale tentativo cinematografico di smascherare il mondo della comunicazione e di farci vedere, lucidamente, come in un sogno da svegli guidato o in una potente visione sciamanica post-moderna, che non possiamo contrastare la tecnologia e lo sviluppo scientifico delle nuove forme di comunicazione, i new media come la Virtual reality. L’unica lezione che ci viene impartita è quella, tipicamente warholiana, di farci noi stessi macchina, videoregistratori come Max Renn o ipercomputers come gli scanners e incistare dentro le macchine e dentro noi stessi programmi bionici, surcodificare i nostri codici genetici e le trasmissioni neuronali in un gioco che ricorda i “cadaveri squisiti” di matrice surrealista e i paesaggi mentali descritti da Max Ernst, riletti da una mente che ha assimilato le strane geografie segrete dei Chants du Maldoror di Lautremont o le geometrie e matematiche impossibili di Lovecraft.
Marcello Pecchioli, Effetto Cronenberg, Pendragon, Bologna 1994


Non è un film apocalittico sui media, beninteso: Cronenberg è lontanissimo dall’assumere posizioni di nichilistico rifiuto nei confronti della modernità tecnologica e mass mediale. Sente però l’imperativo morale di mostrare come i nuovi media esigano una ‘nuova carne’, un nuovo corpo, un nuovo tipo di spettatore [...]. Cronenberg coglie, con almeno dieci anni d’anticipo, la tendenza – divenuta poi evidente in tutto il mondo occidentale – a sussumere il reale sub specie televisiva. E prova – con straordinaria lucidità – a trarne alcune logiche conseguenze. Sul piano del consumo di immagini televisive, certo, ma anche – che è poi quel che più gli interessa – sul piano del cinema, della sua ragion d’essere, e del suo senso. Perché il cinema – suggerisce Videodrome – è cosa altra dalla televisione. Se la televisione è il labirinto dei sensi (quello in cui Max si perde, in sottofinale, alla ricerca di Bianca), il cinema è il nostro possibile filo d’Arianna: l’unico strumento che consente di vedere la televisione da un altro punto di vista, dall’esterno, e quindi di non restare dipendenti dalla sua logica virale.
In questo senso Videodrome è anche un film politico, perché è un film sul consumo di immagini che ci fa provare direttamente (quasi fisicamente) le potenzialità e le aberrazioni insite nel nostro desiderio di consumare tecnologicamente immagini. E perché collettivo (e quindi ‘politico’) è il rapporto di attrazione e repulsione con la ‘nuova carne’ che sentiamo crescere sotto la pelle, e sotto le eterotopie del corpo a cui il cinema di Cronenberg sta a poco a poco cercando, per l’appunto e paradossalmente, di dar corpo.
Gianni Canova, David Cronenberg, Il Castoro, Milano 1993


C’è un discreto disprezzo nel mondo di William Gibson per la pesantezza della carne. “Travel is a meat thing” [Neuromante]. E questo, segnatevelo a margine, è il dogma della telematica. Il viaggio, lo spostamento dei corpi, non è un problema né iniziatico, né salvifico, né niente: è una roba carnacea [...]. Il fatto è che Cronenberg su questo non ci sta. Per lui la carne rimane un bel problema e anche per Max che per mestiere maneggia corpi con freddezza, interi carnai racchiusi in verginali cassette da liberare semplicemente nell’etere, senza quasi toccarli. Anche se poi è proprio la carne a fregarlo, è proprio lo snuff-movie con la sua illusione di dolore reale e di morte reale ad attirarlo per primo. [...] Tutto sommato, Cronenberg della carne non vorrebbe proprio disfarsi o comunque è della telematia che non si fida. Spostare le informazioni e non le persone è una bella idea, ma quando ci prova Brundle in La mosca, c’è sempre qualcosa che si perde o che s’aggiunge nella traduzione. Il problema è che la sua nuova invenzione all’inizio non funziona on la carne, ma solo con cose inanimate. “Non ho insegnato al computer né a impazzire per la carne, né la poesia della bistecca”, dice Brundle.
Gualtiero De Marinis, in La bellezza interiore. Il cinema di David Cronenberg, a cura di Michele Canosa, Le Mani, Genova 1995