"Fare arte è pericoloso": un 'flop' targato Universal

Videodrome non era il tipo di film che senti di avere in pugno.
Era sfuggente. Era un film fuori dall’ordinario.
David Cronenberg


Videodrome
attrae fin dal principio, con la forza dei suoi contenuti bizzarri, provocatori e attuali, l’interesse di un importante Studio americano. Con Scanners il regista aveva avuto un certo successo, e nel nuovo film lavorano Debbie Harry e James Woods. Con l’aiuto di Pierre David, finalmente un film di Cronenberg stava per essere spinto dal muscolo distributivo che solo un importante Studio di Hollywood può muovere, sempre che fosse possibile vendere un film così particolare come Videodrome.
Chris Rodley, Il cinema secondo Cronenberg, Pratiche, Parma 1994


A un certo punto, durante la lavorazione, Videodrome diventò un film Universal. [...] Trovo pazzesco il fatto che la Universal abbia partecipato a Videodrome, lo abbia prodotto e distribuito. Avevano approvato il progetto leggendo un soggetto di una pagina, diventando co-investitori; non hanno finanziato l’intero film, quindi tecnicamente non lo posso considerare il mio primo film per gli Studios. Ma Pierre era riuscito a trovare persone ricettive. Guardando indietro mi accorgo di quanto tutto questo fosse straordinario e singolare. In primo luogo, pur essendo uno degli Studios più conservatori, avevano, seppure in parte, finanziato il film. In secondo luogo, non si erano ritirati dal progetto dopo aver visto che tipo di film stesse diventando. Infine, avevano mantenuto la parola data, distribuendolo con una buona dose di entusiasmo. In genere, il sistema distrugge le pellicole come Videodrome prima che arrivino al pubblico. [...]
[Sid Scheinberg] sembrava avere davvero una simpatia per Videodrome anche se, a un certo punto, ho sentito dire che dopo aver finalmente letto la sceneggiatura è corso per i corridoi dicendo: “È troppo tardi per fermare questo film?!”. Dopo averlo visto, la sua reazione è stata leale e solidale.
Abbiamo fatto una proiezione campione a Boston. È stato un disastro. Questo è stato il mio primo impatto col modo in cui si fanno i film a Hollywood: le proiezioni campione ufficiali. [...]
Durante il montaggio sono senza pietà. Non bado a quanto tempo ci vuole per una ripresa, mi interessa solo che funzioni. Le cose mi annoiano subito e nel primo montaggio tendo a tagliare troppe scene. Mi sembra di essere arrivato a quella proiezione con una versione di Videodrome di settantacinque minuti. Era totalmente incomprensibile, anche se qualcuno pensa che sia incomprensibile anche adesso. Io conoscevo la storia: mi ero dimenticato che il pubblico può conoscere solo quello che gli viene detto. Un errore classico.
Quel giorno a Boston era in corso uno sciopero dei mezzi di trasporto, così abbiamo avuto solo metà del pubblico che ci aspettavamo. Ricordo che fui shoccato dalla presenza in sala di donne con bambini di due anni, perché il film era gratuito e non avevano trovato una baby-sitter. Un bambino ha urlato durante tutta la proiezione. Mi resi conto di essere nei guai. Il film era senza musica, non c’era nemmeno una colonna sonora provvisoria – non sapevo che ne esistessero – quindi l’audio era pieno di buchi, il che è davvero fastidioso per chi non sa come si fanno i film. Un disastro su tutti i fronti. Non so se ci fosse una sola scheda con scritto qualcosa di carino. La situazione fondamentalmente si poteva riassumere in due parole: “Sei fottuto”. Ma erano tutti molto gentili e dicevano: “Come possiamo aiutarti a rimediare? Cerchiamo di capire dov’è l’errore”. [...]
Così sono tornato in sala di montaggio pieno di lividi e ho cominciato a rimontare il film. La politica degli Studios comporta che il risultato della proiezione venga comunicato ai grandi capi. Se loro, basandosi sul risultato, si convincono che il film sarà un disastro, operano tagli al budget pubblicitario e riducono il numero delle copie da mettere in circolazione. Non avevo realizzato che il pubblico stava per uccidermi. Fortunatamente la cosa non mi spezzò il cuore. Ho avuto l’opportunità di rimontare il film, e non sono state fatte altre proiezioni campione ufficiali, ma solo piccoli test.
Alla fine sono uscite novecento copie, che non sono molte: mandarne in giro più di mille non sarebbe stata una novità in quel periodo. Ma per un film come questo novecento erano tante. È rimasto nelle sale una settimana, poi è sparito. Avevano investito esattamente ciò che era stato deciso in precedenza, ma il film non ha raggiunto nessuno: non ha raggiunto gli appassionati di horror e non ha soddisfatto quelli tra loro che l’hanno visto. Non era stato come Scanners. Non è nemmeno riuscito a raggiungere un pubblico più sofisticato, che ne avrebbe sopportato la crudezza; e non è nemmeno rimasto fuori abbastanza a lungo da suscitare le reazioni della critica.
[...] Fare arte è pericoloso. Burroughs parla di quanto sia pericolosa la scrittura, so perfettamente ciò che intende. Così vai avanti. Se sei fortunato, quando esce il tuo film, stai già lavorando al successivo. Ed è esattamente ciò che mi è accaduto con Videodrome.
David Cronenberg, in Chris Rodley, Il cinema secondo Cronenberg, Pratiche, Parma 1994


L’azzardo formale di Videodrome, la sua complessità narrativa, la dimensione apertamente filosofica, le sue immagini vivide, forse tutte queste cose contribuiscono – insieme a una forma di distribuzione troppo ottimistica – al fallimento commerciale del film. Fortunatamente, durante la post-produzione di Videodrome, Cronenberg passa molto tempo a preparare il suo film successivo, La zona morta; e quando lo raggiungono le notizie del cattivo esito di Videodrome ai botteghini, ha già cominciato le riprese. Questo può averlo aiutato ad attutire il colpo. Nonostante ciò, il regista considera Videodrome come il suo lavoro più ambizioso e forte fino a quel momento.
Chris Rodley, Il cinema secondo Cronenberg, Pratiche, Parma 1994