Quell'oscuro oggetto del desiderio

Quell'oscuro oggetto del desiderio

Il corpo è una macchina.
William Burroughs


A colpire, nell’opera di Cronenberg, è soprattutto la volontà di prendere le distanze dalla visione tradizionale del corpo proposta dall’arte. Volendo azzardare un confronto con le arti figurative, si potrebbe dire che il corpo che appare nei suoi film è lo stesso delle opere di Bacon o Soutine, mentre il cinema ci ha abituati a una visione ultraclassica, prossima a quella della statuaria antica. [...] La litania, l’ossessione dei personaggi di Cronenberg rappresenta proprio quella ‘nuova carne’ alla quale tutti freneticamente aspirano.
Contrariamente a quanto avviene nel cinema dell’orrore tradizionale, i corpi, sempre minacciati dalla mostruosità, non si trasformano in modo superficiale (i due poli della metamorfosi nel ‘gotico’ sono rappresentati dal mostro di Alien di Ridley Scott, compromesso fra la macchina, il sauro e l’insetto, estraneo, come indica il nome, a ogni umanità, e il protagonista di Elephant Man di David Lynch che, sotto apparenze mostruose e animali, cela un’anima nobilmente umana) ma sono attirati in maniera irresistibile dal superumano, in particolare dal ‘divenire-macchina’ (la cui ultima forma è la macchina da scrivere antropomorfica ed entomorfica di Il pasto nudo). Solo a uno sguardo superficiale la macchina può essere contrapposta all’uomo: essa infatti fin dalle origini (homo faber) fa parte delle sue estensioni.
Serge Grünberg, David Cronenberg, Shake, Milano 1999


L’etichetta di “horror biologico”, che spesso accompagna il mio lavoro, in realtà si riferisce al fato che i miei film sono molto coscienti dell’elemento fisico. Sono molto coscienti dell’esistenza fisica in quanto organismo vivente, a differenza di altri film horror o di fantascienza che sono orientati tecnologicamente, o interessati al sovrannaturale, e in quel senso sono molto distaccati dall’elemento fisico. [...] Un bambino può capire un mostro che salta fuori dall’armadio, ma ci vuole un po’ di più – in realtà per la maggior parte dei bambini non molto di più – per capire che esiste una vita interiore dell’essere umano, che può diventare tanto pericolosa quanto un animale nella foresta. [...] Una delle cose che, nel mio piccolo, ho fatto è stata quella di contribuire a portare il genere horror nel ventesimo secolo.
David Cronenberg, in Chris Rodley, Il cinema secondo Cronenberg, Pratiche, Parma 1994


Occhi sbarrati, di fronte al protagonista che infila la sua testa in una bocca-seno aggettante dal teleschermo. Mai vista prima, al cinema, una figurazione così precisa di quella immagine impossibile inventata da Freud: “una bocca che si bacia”; e occorrerà vedere Prénom Carmen di Jean-Luc Godard per trovare un’inquadratura altrettanto sensuale e disperata.
Michele Canosa, in La bellezza interiore. Il cinema di David Cronenberg, Le Mani, Genova 1995


Quel che importa è che non sono le immagini a importare.
Il dottor O’Blivion lo spiega a un certo punto a Max Renn (James Woods): “Il tono dell’allucinazione dipende dal tono delle visioni registrate sul nastro. Ma è il segnale di Videodrome a produrre il danno. Può arrivare sotto forma di monoscopio, o di qualsiasi cosa”. Essenzialmente non tutti, guardando il segnale di Videodrome, vedono le stesse cose, più spesso vedono quel che vogliono vedere. Ed è inevitabile che Max finisca per vedere uno snuff-movie, e noi con lui. Insomma quel che conta è la portante, non la modulazione; il mezzo e non il messaggio. [...] Poi scopre che la sua TV non è tanto innocente, comincia a pulsare, ansima come se fosse prossima all’orgasmo, ha grandi labbra nelle quali infilare per intero la testa. Scopre pure che le cassette respirano e sono capaci di colpire allo stomaco, ma di nuovo senza nessuna intenzione metaforica, perché è proprio lì che entrano come se lo stomaco fosse il loro lettore privilegiato.
Insomma realizza finalmente che la televisione è tattile (McLuhan). E che “La tattilità non ha più il senso organico del toccare: implica semplicemente la contiguità epidermica dell’occhio e dell’immagine, la fine della distanza estetica dello sguardo” (Baudrillard).
Gualtiero De Marinis, in La bellezza interiore. Il cinema di David Cronenberg, a cura di Michele Canosa, Le Mani, Genova 1995


Lo schermo del televisore diviene un oggetto di desiderio, labbra immense e vertiginose gli ingiungono di rientrare nell’immagine, come un bambino nel ventre della madre. Più avanti si assiste a uno spostamento dei comportamenti sessuali: nel ventre di Max si apre una ferita che inghiotte le videocassette. La problematica del dentro e del fuori (da dove vengono le allucinazioni, dalla televisione o dalla mente di Max, come sembrerebbe indicare il casco da allucinazioni?) è sfruttata fino in fondo, sempre restando all’interno della logica del sadomasochismo. [...] Una struttura tematica pressoché identica caratterizza Videodrome e Shining, due film di due grandi registi. In Shining e Videodrome, si ha a che fare con un creatore ‘in panne’, contaminato in un caso da un luogo, nell’altro da una tecnologia. [...] Il confronto fra i due film (ma Videodrome potrebbe anche essere paragonato a Re per una notte di Martin Scorsese), ci fa meglio cogliere l’originalità dello stile di Cronenberg. In primo luogo la tenacia nel respingere gli elementi irrazionali, l’estrema sobrietà a livello di regia (nessun lirismo dei movimenti di camera, nessun effetto a sorpresa) e, dal punto di vista della sceneggiatura, la grande fedeltà alle stesse ossessioni e allo stesso metodo: restituire alla camera la sua virtù ‘oggettiva’ per meglio destabilizzare lo spettatore, per disturbarlo nelle abitudini di ‘lettura’ di un film e anche comprometterlo nel suo universo chiuso, in un labirinto dal quale è impossibile uscire.
Serge Grünberg, David Cronenberg, Shake, Milano 1999


Cronenberg prende i temi forti di un genere come l’horror e li ricolloca in ambiti aggiornati. Non ultima, recupera la figura del buco, dell’orifizio, del punto di apertura, necessario a ogni corpo per vivere, nutrirsi, scaricarsi, riprodursi (e per essere penetrato). Il buco è luogo di pericolo e di attrazione. [...] In Videodrome, il rapporto avviene tra uno schermo televisivo che si fa buco e bocca e uno spettatore che vi si infila, anch’egli attratto e inorridito. E questo stesso spettatore ed esploratore si ritroverà con un largo, lungo e capiente buco nel ventre, ferita aperta che ingurgita prima una pistola, poi una videocassetta. E alla fine c’è l’immagine di un apparecchio televisivo con lo schermo cavernoso, vuoto, nero, buco a due vie che può inghiottire e risputare fuori viscere e frattaglie.
Bruno Fornara, Buchi tubi passaggi, “Cineforum”, agosto-settembre 2008