Antologia critica

Antologia critica

Max è un imprenditore televisivo, uno che ritiene che il suo lavoro sia dare alla gente quello che vuole, per quanto sordido e squallido possa essere. Nell’universo di Cronenberg, che spesso è molto ingegnoso e inventivo, questo non fa di Max un cattivo. Ne fa un uomo senza scrupoli, e quindi esposto alle diaboliche macchinazioni degli altri. In Videodrome queste abbondano. Così come non manca la giustizia divina. Max è infine trasformato nella personificazione vivente di quello sfruttamento sessuale, mediale, violento che ha contribuito a diffondere.
Descrivere questa trasformazione in dettaglio sarebbe svelare troppo dei segreti più sorprendenti e impressionanti di Videodrome. Rick Baker, autore degli effetti speciali, ha creato alcuni trucchi divertenti quanto raccapriccianti, anche se il gore alla fine diventa dominante. Lui e Cronenberg soddisfano perfettamente tutti i requisiti del film horror e in più ricercano uno stile ironico, satirico, che in parte ottengono. [...] Cronenberg, che ha diretto anche Scanners, sta sviluppando un vero talento per questo genere di cose; un esempio dell’innovatività di Videodrome sta nel fatto che sembri vagamente futuristico anche se all’apparenza è ambientato nel presente.
La scelta migliore di Cronenberg è senza dubbio l’aver ingaggiato James Woods, che conferisce un eroismo ambiguo al genere horror.
Janet Maslin, “New York Times”, 4 febbraio 1983


Videodrome sembra essere l’unico film finora prodotto negli anni Ottanta ad avere un senso chiaro di quello che comporta la sua decade, l’unico che affondi i denti nella carne del suo tempo. È incentrato sul pubblico: il suo bisogno di evasione, la sua amara mancanza di soddisfazione, il suo flirtare nichilistico col dolore per provare che può ancora sentire qualcosa, l’estremo spiazzamento che tutto questo comporta.
Tim Lucas, “Cinefantastique”, aprile-maggio 1983


Una volta contaminato, Renn è assalito dalle immagini, che sono forse la realtà. L’individuo può ridursi a immagine [...]. L’inventore del procedimento allucinatorio ne è l’esempio più sorprendente. Brian O’Blivion – pseudonimo esplicito: il signor Oblio – ispirato da McLuhan (e anche da Warhol, ha detto Cronenberg) è stato vittima della propria invenzione. Non restano di lui che alcune centinaia di cassette allineate su degli scaffali in uno spazio bianco circondato da vetri, come una cappella funeraria [...]. Non c’è più l’uomo, non resta che l’immagine. Ma, al cinema, l’immagine è la realtà. Cronenberg riprende i motivi orrorifici che ha utilizzato in tutti i suoi primi film. Essere non più il motore di un intreccio ma la materia stessa del film moltiplica la loro potenza. Il demone sotto la pelle mostrava il corpo umano abitato da corpi estranei. Rabid –Sete di sangue insisteva sulla penetrazione. È il soggetto di una scena che diventerà classica grazie ai trucchi di Rick Baker. [...]. L’oggetto ha una vita organica: uno schermo televisivo si tende, si deforma come latex; e ancora: un apparecchio televisivo ha, letteralmente, l’intestino. [...] La natura del film diventa il suo stesso soggetto.
Alain Garsault, “Positif”, n. 281-282, luglio-agosto 1984


Max Renn (un allucinato James Woods) rispecchia fedelmente il personaggio, l’uomo di Cronenberg: un uomo comune al quale accade di sentire qualcosa ‘dentro’, un intruso. È il tema dell’alieno biologico, già tratteggiato da Cronenberg in film come Il demone sotto la pelle, Rabid sete di sangue, Brood la covata malefica, Scanners. L’uomo di Cronenberg, in definitiva, è un personaggio che viene a trovarsi in una vicenda impossibile, sprofondato negli orrori biologici più deliranti e barocchi.
Come quando il braccio di Max si trasforma diventando un arto bio-meccanico. Max giunge alla perfetta simbiosi sognata da ogni fanatico video-dipendente: la simbolica fusione con l’apparecchio televisivo. La televisione è vista in Videodrome come pericolo canceroso, intestino, venereo.
Riccardo F. Esposito, “Segnocinema”, novembre 1984


Finito il tempo delle morality plays hammeriane, già a loro volta remake dei classici Universal degli anni Trenta, con i loro eroi faustiani, protagonisti-simbolo (del prodotto Hammer, del genere horror e di un certo modo di concepirlo, ma anche di qualcosa di più che un superficiale brivido di spavento) prigionieri del loro ruolo tanto da far confondere l’attore con il personaggio interpretato [...], l’horror film ha preso ormai una strada diversa.
Non più protagonisti eccezionali, inseriti in vicende altrettanto eccezionali, che erano un po’ l’assoluto Altro da sé rispetto allo spettatore, ma anche un po’ il suo Alter Ego, nascosto e inconfessabile, diventato tuttavia alla lunga prevedibile e, nella sua prevedibilità, involontariamente rassicurante.
La distanza che si creava fra spettatore e vicenda rappresentata, distanza spaziale (il solito castello semi-abbandonato), spesso anche temporale, ben compendiata nelle figure dei protagonisti, spesso nobili e comunque estranei ad ogni contesto sociale borghese, ha lasciato il posto ad una approssimazione sempre più accentuata a situazioni, ambienti ed accadimenti più vicini all’esperienza quotidiana dello spettatore.
[...] In Videodrome, la ‘distanza’ è praticamente annullata, la ‘con-fusione’, totale, coinvolge nella stessa misura lo spettatore (tramite la sua perfetta controfigura presente sullo schermo), inteso come fruitore passivo, e l’oggetto della fruizione in una metamorfosi lenta ma inesorabile che è anche un sogno, o più probabilmente un incubo, dal quale è impossibile svegliarsi.
Il protagonista, Max Renn (un ottimo James Wood) è un uomo comune, con gli stessi desideri dello spettatore: spaventarsi, stupirsi, emozionarsi di fronte ad immagini sempre nuove ed inedite. E infatti proprietario di una piccola TV specializzata in ‘x’ movie che spesso si limita a rubare immagini da altre TV per poi ritrasmetterle al proprio pubblico. Questo, almeno, fino a quando non scoprirà Videodrome, un programma mai visto prima e molto ‘forte’: allora i confini fra Corpo e Mente, Materia e Pensiero (dualismo questo da sempre presente nell’opera di Cronenberg), come fra io narrato ed io narrante, cominceranno a sfaldarsi.
Ma quando il pericolo rappresentato da Videodrome, morbo canceroso lanciato per l’etere a colpire il cervello dell’ignaro videodipendente, ha cominciato a fare il suo effetto? Quando comincia l’allucinazione? (e dove finisce la realtà?) Max Renn è incapace di distinguere la realtà dall’allucinazione: per lo spettatore tutto è reale (e tutto finzione del reale).
Marco Marinelli, “Cineforum”, settembre 1986


Videodrome costruisce sugli effetti speciali, ma non meno sulla struttura narrativa, come nel modo di girare, che non presenta alcuna frattura, ma si dà come struttura unitaria, una dimensione percettiva che annulla la linea di divisione tra realtà e allucinazione. Nel momento in cui realtà e allucinazione si fondono, vengono a sparire o a cambiare di personalità i personaggi, che all’interno del racconto costituiscono il ‘reale’. Così l’universo del protagonista si popola di figure ambigue (in quanto alla loro esistenza o in quanto alle loro caratteristiche).
Il film appare così diviso in due parti. Una iniziale in cui è ancora possibile riconoscere una narrazione, che individua realtà e sogno, un’altra che è un viaggio ad occhi aperti in cui la percezione dell’irreale diventa reale e la realtà si carica dei nostri incubi e delle nostre paure, avvolgendoci in una dimensione a perdita negli abissi del nostro inconscio. Il film opera a livello profondo e viscerale, negandosi una catarsi in qualsiasi ‘spiegazione’ razionale. Entra letteralmente dalla pancia aperta a disturbare con forza le nostre percezioni, riuscendo a condurci in un orrido, quanto inspiegabile (ma forse sarebbe proprio interessante tradurre quel delirio) precipizio in cui non è tanto ciò che si vede a far inorridire quanto la perdita del senso di realtà, o di ‘finzione’, un dispiegamento di assoluta irrazionalità nella struttura filmica quasi come se la materia avesse preso la mano al regista, là dove probabilmente tutti i suoi cedimenti sono millimetricamente calcolati. Questo non enunciare ma far vedere fino in fondo quella che è la chiave della follia o il pericolo dell’uso di ogni genere di immaginario, se da un lato può essere ingenuo dall’altro è condotto tanto approfonditamente da impedirne la liquidazione. E se è vero che tutto questo per Cronenberg è un pretesto per un gioco di strategie tra il moralistico e il perverso, tra l’ironia e il messaggio, è anche vero che si dà alla visione con una forza tale da generare realmente malessere, crisi, ripensamenti.
Edoardo Bruno, Silvana Cielo, “Filmcritica”, n. 368, ottobre 1986