I bambini ci guardano

I bambini ci guardano

Il film è un segnale d’allarme. I ragazzi della strada, vittime innocenti di questa terribile guerra, saranno perduti per sempre se noi, uomini, continueremo ad essere indifferenti, pigri ed egoisti di fronte a questa immensa miseria.
Il film Sciuscià non è soltanto un monito ai sistemi carcerari adottati per la delinquenza minorile; dovete vedere in quei carcerieri tutti noi, gli uomini che inseguendo le nostre passioni abbandoniamo a se stessa l’infanzia. Che si provveda subito alla organizzazione di istituti di rieducazione. Si tolgano le sbarre, si dia del buon vitto, un letto per dormire e non un giaciglio da bestie, si allontanino dai ragazzi che hanno errato per mancata educazione, per fatalità, per necessità, per fame i delinquenti costituzionali e a tutta questa tragica giovinezza si dia luce, speranza, amore.
La sciagura che si è abbattuta su di noi sia da noi stessi combattuta. Ci pensino gli uomini del governo, ci pensi tutto il popolo italiano. E, se il film Sciuscià porterà una sua piccola pietra alla ricostruzione morale del paese, io e i miei collaboratori potremmo essere fieri di aver contribuito ad essa.
Vittorio De Sica annuncia alla radio l’uscita di Sciuscià nei cinema di Milano e Roma, 27 aprile 1946.


L’infanzia e l’adolescenza, dunque vittime non solo materiali ma morali della guerra. Travolte inevitabilmente dai frantumi di un’intera cultura e società, trascinate avanti tempo in una dura lotta per l’esistenza. Nessuno nel film sembrerebbe salvarsi. Ma anche se coinvolti nei traffici più loschi dai grandi che dovrebbero proteggerli (i due ragazzini sono praticamente abbandonati a se stessi, utilizzati nella vendita illecita di coperte americane sottratte a una chiromante e indi scaricati), anche se inevitabilmente a contatto col crimine e il malaffare, gli ‘sciuscià’ non mutano in una loro verità interiore garantita in parte dalla giovane età e quasi preservata nello stato di deiezione e abbandono in cui vivono.
Attraverso la pietà per la loro condizione, De Sica e Zavattini colgono la “luminosa innocenza” (per dirla con Henri Agel, Vittorio De Sica, Éditions universitaires, Parigi, 1955) che resiste nel vivo delle loro nature. Innocenza disegnata in quella bella amicizia adolescenziale che gli adulti provvederanno a cancellare (si pensi al piano espressionistico delle mani disgiunte) mutandola in un’amicizia tragica e in quel gesto finale che Pasquale compie, quasi angelo giustiziere che colpendo Giuseppe spinge l’azione verso il drammatico explicit. Il mito proto romantico e rousseauiano dell’infanzia contaminata dalla società che attraversa la cultura europea, arriva dunque a lambire anche Sciuscià. Per questo l’amicizia dei due ragazzi si traduce in una ‘purezza inumana’, anch’essa di matrice culturale ma anch’essa molto vera.
Gualtiero De Santi, Vittorio De Sica, Il Castoro, Milano 2003.


Al centro dell’idea di De Sica vi sono due elementi fondamentali: a) i bambini sono consapevoli della loro condizione; b) questa consapevolezza, purtroppo, appartiene solo a loro, non anche agli adulti che sono i responsabili della loro sofferenza, ne ignorano la reale condizione o, quanto meno, non se ne curano. Da queste due constatazioni ne discende una terza, che fa da sfondo a tutta la storia: tra il mondo degli adulti e quello dei bambini esiste una totale incomunicabilità.
Dal punto di vista rappresentativo questi elementi sono carichi di conseguenze importanti, infatti nel momento in cui si attribuisce ai bambini questa consapevolezza di sé, questa alterità rispetto agli adulti, essi diventano soggetti autonomi, soggetti che hanno un loro punto di vista, una loro storia, ma soprattutto un’immagine viva che reclama di essere rappresentata. Solitamente i bambini quando non sono considerati come soggetti, compaiono soltanto come elementi di contorno della rappresentazione, come particolari appartenenti allo sfondo, spesso raffigurati ai margini della scena, sempre insieme a qualche adulto. Nel momento in cui si attribuisce loro dignità di soggetti diventano finalmente dei protagonisti.
Luciano Cecconi, I bambini al cinema. Le rappresentazioni dell’infanzia nella storia del cinema, Franco Angeli, Milano 2006.


Quando apparvero all’orizzonte i bambini di De Sica e del neorealismo, sembrò che la concezione dell’infanzia sullo schermo fosse cambiata; e senza dubbio Sciuscià (che era stato preceduto in tempo di guerra I bambini ci guardano), il piccolo Enzo Stajola di Ladri di biciclette, lo scugnizzo di Rossellini nell’episodio napoletano di Paisà, il tragico fanciullo suicida di Germania anno zero, il fratellino su cui si chiudeva La terra trema di Visconti, distavano anni luce dagli esemplari hollywoodiani. Non erano bambini-divi e non lo sarebbero mai diventati; erano bambini ‘presi dalla strada’, come si diceva, e si elogiava De Sica, come più tardi Comencini, per la particolare sensibilità dimostrata nel farli recitare.
Ugo Casiraghi, Davide Turconi, Infanzia nel cinema. Bambini e ragazzi sugli schermi del mondo da Lumière a Ferreri, Ferrara 1980.


Ne I bambini ci guardano (1943), film con il quale inizia la collaborazione tra il regista e Cesare Zavattini, dalla commedia si passa al dramma, la condizione dell’infanzia conquista uno spazio e un’autonomia maggiori, anche se la sofferenza è limitata a una dimensione privata, al dramma di una famiglia che si disintegra. Con Sciuscià il passaggio è completo, De Sica lascia alle sue spalle la commedia (vi ritornerà soltanto molto tempo dopo) e mette l’infanzia al centro non solo dello schermo ma anche di una grande rappresentazione sociale, la Roma disastrata del 1945.
L’infanzia conserverà una posizione di rilievo nei film successivi, in Ladri di biciclette (1948) e, anche se in forme diverse, in Miracolo a Milano (1951). In quegli stessi anni Roberto Rossellini, con la sua trilogia della guerra, porterà questo sentimento tragico dell’infanzia al limite estremo: l’ultimo film della trilogia, Germania anno zero, si conclude con il suicidio di un bambino.
L’identificazione dei temi dell’infanzia con questo periodo storico è talmente forte che oggi è difficile rievocare un’immagine in bianco e nero che descriva le rovine della guerra, la fatica della ricostruzione postbellica, la desolazione delle periferie urbane, la sofferenza delle famiglie povere, la miseria degli abbigliamenti fatti di stracci, l’angoscia della perdita, senza pensare ad un bambino sofferente, un bambino del neorealismo. Come Giuseppe e Pasquale in Sciuscià, Bruno in Ladri di biciclette, Totò in Miracolo a Milano, Marcello e Romoletto in Roma città aperta, Pasquale nell’episodio napoletano di Paisà, Edmund in Germania anno zero. Bambini coi pantaloni corti, ma anche bambine come Nannarella, la bambina dalle gambe esili e dalla giacca lacera che va a trovare Giuseppe mentre è al lavoro, che segue, come una moglie fedele e rassegnata, il cellulare che porta i due sciuscià al carcere minorile, che si scioglie in un pianto disperato quando la giuria legge il verdetto che li condanna. Nannarella è la vera famiglia di Giuseppe, il suo sostegno, la sua confidente; Nannarella è lì a sottolineare, ancora una volta, che i bambini sono costretti a bastare a se stessi, anche affettivamente, e che il loro mondo è drammaticamente separato da quello degli adulti.
Luciano Cecconi, I bambini al cinema. Le rappresentazioni dell’infanzia nella storia del cinema, Franco Angeli, Milano 2006.


In Sciuscià la fanciullezza diventa innanzitutto il luogo dell'innocenza ferita. Senza perdere di vista il documento sociale, il regista punta lo sguardo sulla capacità di sognare e di amare che tiene vivi i bambini in mezzo alla barbarie morale della società, di famiglie inesistenti o colpevoli, di adulti assenti o sinistramente carnefici.
Come dice Bazin, “l'infanzia degli sciuscià ha ancora il potere di trasformare la propria miseria in sogno”. Il cavallo bianco di Giuseppe e Pasquale, che sembra tratto di peso dalle favole, costituisce un eccezionale strumento di difesa contro l'ostilità del mondo esterno e insieme un potente mezzo di trasformazione fantastica della realtà. Il bianco non è solo il colore delle fiabe ma anche quello dell'innocenza, della bellezza d'animo. Sulla groppa del candido destriero i due protagonisti di Sciuscià attraversano il degrado che li assedia come a volo d'uccello.
“I bambini – scrive De Sica nel ’45 – solamente essi, sentono che la vita che fanno non è quella che dovrebbero fare. C'è tanto da sperare per loro!”. Solo l'infanzia non accetta le regole ingiuste della società, perché conserva una misura di inerme autenticità, che rappresenta anche la sua sovvertitrice carica poetica. Lo sguardo infantile, ancora puro come l'anima che lo sprigiona, è uno sguardo naturalmente impietoso, che scopre e accusa il mondo degli adulti. Mentre, d'altro canto, suona del tutto fuori posto, quasi sardonica, la reprimenda – contro la società che abbandona a se stessa l'infanzia – pronunciata, in qualità di rappresentante del mondo adulto, dall'avvocato difensore di Giuseppe. È molto significativo che De Sica affidi le uniche parole di denuncia sociale diretta del film a questa figura bieca, corrotta e corruttrice, spinta solo dall'interesse, e tenacemente risoluta a nascondere la storia del cavallo bianco, ovvero i valori dell'amicizia e del sogno, che tiene uniti i ragazzi.
L'opposizione adulti/bambini vista come dialettica di male/bene, di carnefice/vittima, è categorica in questo film, come mai nella filmografia desichiana, nonostante le molte sfumature tracciate dal regista soprattutto nel dipingere il microcosmo carcerario. Non ci sono sostanzialmente adulti che si salvano: chi è ancora capace di provare sentimenti umani di pietà, come Bartoli, è condannato dalla propria debolezza, dalla propria impotenza ad agire. L'infanzia innocente costretta al ruolo di vittima diventa così il “simbolo commemorativo” di tutta “un'umanità mancata”. Come se nella morte dei bambini si manifestasse infine la morte di ogni umanesimo.
Stefania Parigi, I bambini di De Sica, in Sciuscià di Vittorio De Sica. Letture documenti testimonianze, a cura di Lino Miccichè, Associazione Philip Morris Progetto Cinema-Centro Sperimentale di Cinematografia-Lindau, Torino 1994.