Scimmietta e Cappellone
Fu molto difficile trovare i due ragazzi di Sciuscià. Cappellone e Scimmietta non potevano esserne gli interpreti: troppo brutti, quasi deformi. La lunga ricerca cominciò, centinaia di genitori portavano i bimbi a mano, la stessa penosa processione che si sarebbe poi ripetuta per Ladri di biciclette. Scoprimmo per primo il ragazzo minore, Rinaldo Smordoni; l’altro, Franco Interlenghi, lo trovai davvero per strada. Figlio di modesti lavoratori preferiva la strada a qualunque altro divertimento. Entrambi erano molto dotati di un talento naturale: soprattutto Rinaldo pareva prodigiosamente bravo, ed essendo anche più bello, tutti puntavano su di lui e dicevano che crescendo sarebbe diventato un vero attore. E invece è accaduto il contrario: Interlenghi è diventato attore, l’altro, mi pare, muratore o fornaio.
Vittorio De Sica, Gli anni più belli della mia vita, “Tempo”, n. 50, 16 dicembre 1954.
Quando la sceneggiatura fu terminata, si trattò di scegliere gli interpreti che De Sica voleva fossero ragazzi schietti, senza esperienze filodrammatiche. Cominciò così la sfilata attraverso le stanze di via Po di decine e decine di ragazzi dai dieci ai quindici anni d’ogni condizione sociale. Ragazzi della strada, lerci e sdruciti, operaietti in blusa da meccanico, signorini di buona famiglia, ‘boxerini’ dei Prati, fantinelli delle Capannelle, studenti con i libri sotto il braccio e l’aria tra timida e spaurita di chi si presenta davanti al maestro senza aver imparato la lezione. Ce n’erano di sfrontati e di scontrosi, di brutti e di belli, di linguacciuti (quelli, in genere, della strada), e di silenziosi. Ma in tutti si leggeva l’ansia di entrare nel mondo fatato del cinema. Furono tutti fotografati, elencati in un apposito registro, rimandati con buone parole: che aspettassero d’essere chiamati, che una particina magari soltanto muta ci sarebbe stata per tutti. Sull’uscio salutavano imbarazzati, se n’andavano silenziosi lungo il corridoio buio. La scelta fu lenta e ardua. De Sica non è di facile contentatura e prima di prendere una decisione ci ripensa su, magari una decina di volte, e poi non ne fa niente e ritorna da capo.
Adolfo Franci, De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, Roma 1997.
Un giorno, uscendo dal portone dell’appartamento di mia madre in via Salaria insieme a Vittorio, scorgemmo più o meno all’altezza del Rouge e Noir, dove allora c’era un altro cinema, un ragazzino dall’aria tosta. Colpito dal suo aspetto, Vittorio gli si avvicinò, lo interrogò su questo e su quello per capire se era sveglio, e poi lo convocò per il giorno dopo alla Sala Palatino: era Francesco Interlenghi che, dopo il provino, ottenne il ruolo. A procurargli buona parte degli altri bambini fu invece Luisa Alessandri, la donna intelligente e molto intuitiva che lavorava con lui come aiutoregista. A lei egli deve molto, tra l’altro anche il protagonista di Umberto D. Sul set Vittorio, che nella vita era un uomo mite, poteva diventare cattivissimo se si trattava di ottenere qualcosa di cui gli attori ragazzini non erano capaci. Quando intuiva che con le spiegazioni non ci sarebbe riuscito studiava attentamente il metodo da usare. Per fare piangere il piccolino dei Bambini ci guardano, che avendo tre o quattro anni non capiva nulla, gli diede una serie di pizzicotti sulle cosce.
Maria Mercader, intervista con Matilde Hochkofler, in “Bianco e nero”, 9 dicembre 1975.
Ottobre 1945; avevo tredici anni e stavo per dare gli esami di terza media al Duca degli Abruzzi, che è una scuola vicinissima a dove abitavo io, in via Palestro 3. Ero uno dei ragazzi di via Palestro più curiosi, mi chiamavano Charlottino perché sapevo fare l’imitazione di Charlot, facevo strane imitazioni di personaggi che vedevamo al cinema, a quel cinema Ambasciatori che adesso è diventato un pornocinema e che allora aveva un’uscita da via Palestro, da cui noi entravamo di soppiatto, quando ci riuscivamo, mentre il pubblico usciva. Lì vicino abitava un vecchio generico con dei ciglioni grandi, enormi, che faceva sempre il padrone dell’osteria in tutti i film, e lui ci disse: “Guardate che De Sica cerca dei ragazzi per fare gli sciuscià a via Po 10”, e quando ce lo disse siamo volati, trovando una fila interminabile di ragazzi che aspettavano di essere visti da De Sica. Abbiamo fatto quella fila, De Sica ci ha guardato, mi ha chiesto se sapevo fare a pugni, e io: "Maaah”, e lui: "Avanti un altro”, io mi sono detto: "Mo’ rifaccio la fila, tanto non mi riconoscerà mai in mezzo a quanti siamo”, poiché eravamo davvero tanti per via della fame di allora. Torno davanti a De Sica e lui: "Sai fare a cazzotti?”, io: "Sì”, lui: "Benissimo”, e a un suo aiutante: "Segna questo”.
Quindici-venti giorni dopo, fuori del Duca degli Abruzzi c’era ancora De Sica con i fratelli Misiano, che cercava ragazzi, e mi ha ancora indicato senza ricordarsi di me. Mi hanno risegnato un’altra volta, e ho di nuovo dato il numero di telefono di un amico perché a casa mia il telefono non c’era. Alla convocazione, nuova coda, stessa musica, ma in quell’occasione mi ha notato il produttore, che era Paolo William Tamburella, un italo-americano che ha detto a De Sica: “Quel biondino lì non mi dispiace, perché non lo provi?”. La sera De Sica mi ha trattenuto lì e insieme a Cesare Giulio Viola mi ha fatto un provino ‘orale’; mi ha messo in fondo a un tavolone e mi ha detto di fare due scene, una molto divertente del commissario che diceva a me e a un altro: "Se non parlate vi metto un mese a pane e acqua”, e io, rivolto all’altro ragazzo: "A Giusé, il commissario scherza, un mese a pane e acqua si muore!”. E l’altra drammatica: "Il tuo amico scappa con il cavallo e con gli amici cattivi, e allora tu devi chiamare il direttore del carcere (che era la parte di Emilio Cigoli) che si chiama Staffera, e gli devi dire: ‘Signor Staffera, io lo so dove so’ andati quelli...’. Però così tu fai la spia, per salvare il tuo amico in pratica lo denunci, quindi ti devi commuovere, ci devi pensare molto, devi piangere, e poi devi dire: ‘Vi ci accompagno io’”.
De Sica mimava tutto esattamente, tutta la parte. E sia che era tardi e ero stanco, sia perché di natura ero molto apprensivo, sensibile, ansioso, insomma ho pianto, e De Sica e tutti mi hanno detto che andavo bene e mi hanno fatto delle fotografie, e mi hanno poi fatto il provino e il contratto. Erano però molto indecisi sul personaggio che dovevo fare, se quello più divertente o quello più drammatico, e così ho cominciato il film con un personaggio e poi sono passato a un altro. Per dieci giorni abbiamo girato in due ragazzi la stessa parte, finché non hanno deciso... e hanno mandato via l’altro con delle scuse.
Franco Interlenghi, L’avventurosa storia del cinema italiano, vol. I, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna 2009.
Durante il provino, De Sica tentò di farmi piangere, dicendomi: “Pensa se tua madre stesse male, stesse per morire...”. E io piansi subito, senza bisogno di schiaffi o di ulteriori sollecitazioni. C’erano molti altri bambini che provavano assieme a me, ma io fui immediatamente scelto. Mi chiesero anche chi preferissi come partner tra Franco Interlenghi e un secondo ragazzo e io indicai Franco, perché mi era simpatico. De Sica era un maestro nel dirigerci: era bravissimo. Quando si arrabbiava, si arrabbiava veramente; ma poi dopo, finita di girare la scena, era capace di riunire tutti e di portarci al bar. Una volta superato con successo l’ostacolo delle riprese, De Sica tornava umanissimo. D’altra parte, alle prese con tutti quei ragazzi, alcuni dei veri e propri teppisti...
Rinaldo Smordoni, De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, Roma 1997.
E sono stati poi cinque mesi di lavoro continuo, senza sabati e domeniche, perché si lavorava in condizioni difficili. C’era la corrente solo tre ore al giorno, la pellicola non arrivava, attese interminabili. Otto tipi di pellicola diversi, la macchina c’era e non c’era, giravamo a via Veneto e arrivava la polizia a cacciarci via, non c’erano permessi, c’era solo la vecchia Scalera che era uno studio abbastanza valido. La luce però saltava in continuazione, perché allora la luce c’era per l’uso nelle case ma per l'industria era ancora scarsissima. E poi non arrivava mai la pellicola, e quando c’era era di tipi diversi, difficili da amalgamare.
De Sica aveva una pazienza totale, totale e ossessiva, era capace di stare ore e ore a spiegare per ottenere quello che voleva. Era molto scherzoso, coi bambini, magari attaccava la mattina burbero e diceva: “Ma sei tutto zozzo, vatti a lavare la faccia, non ti vergogni!” e quasi ti faceva piangere, per sbottare poi in una gran risata e allora capivi che era tutto uno scherzo, ma intanto ti aveva emotivamente scaldato, non so se lo faceva apposta. […]
De Sica lavorava quattordici o quindici ore al giorno, ma aveva una vitalità che sapeva trasferire agli altri. Io ero iscritto al primo ginnasio al Cavour e ho perso tutto l’anno. Tredici anni, dopo la guerra, dopo quello che avevo passato anch’io come tutti – la guerra, i bombardamenti, la fame nera, i rifugi... – figurati se mi accorgevo dei disagi, lavoravamo duro ma per me era normale, non mi sembrava fatica!
Guadagnavo duecentocinquanta lire al giorno, che poi sono diventate trecentocinquanta: un sogno! Sessantamila lire alla fine del film! Il capomacchinista però lavorava a mille lire al giorno.
Non c’era nessuna protezione, per noi ragazzi, solo la serietà del regista... Nei ritagli di tempo noi ragazzi, una teppa, giocavamo a zecchinetta, certuni si ammazzavano di botte! Alcuni venivano diritti dal San Michele, il carcere minorile. Misiano strillava: “Stateve bboni, brutti fiji de mignotta, stateve bboni!”.
Franco Interlenghi, L’avventurosa storia del cinema italiano, vol. I, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna 2009.
De Sica aveva una maniera tutta sua di inventare – perché non esiste soltanto la maniera di inventare le battute o la scena, ma esiste, da parte del regista, il modo di farlo con magia per cui l’enfasi o la sottolineatura di una battuta o di un movimento stravolgono tutto, tolgono qualsiasi banalità. Nel dirigere la gente presa dalla strada De Sica era davvero straordinario. Lui era un attore, un attore di tipo tradizionale, cioè capace di fare tutto, e forse proprio per questo non era un grandissimo attore. Però, come attore-regista, interpretava tutto, di un film interpretava tutte le parti, in maniera perfetta, e si faceva capire. Così, ad esempio, a un attore non diceva mai: "Guarda, qui devi fare in questo modo”, no, si metteva al suo posto e gli faceva la scena prima lui. Sempre in napoletano e apparentemente sempre alla stessa maniera per tutti, e invece era profondamente e meravigliosamente diverso a seconda che si trattasse di uno o dell’altro.
Ennio De Concini, L’avventurosa storia del cinema italiano, vol. I, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna 2009.