La più pura espressione del neorealismo
Per la violenza e la vastità della tragedia che vi si riflette e che non è tragedia di un singolo, ma propria di una società, di una condizione umana; per la persuasività autorevole e insieme struggente delle sue immagini; per l'alta forza di suggestione dei suoi personaggi; per l'eloquenza, mai intaccata dalla retorica, con cui sa consegnare agli spettatori la sua appassionata condanna; questo dolorante film che De Sica ha creato, merita di essere annoverato tra i prodotti più acuti e riusciti della cinematografia italiana. Un film che susciterà – ne sono sicuro – risonanze durevoli e universali.
Così, contro tutte le archeologie e i divertimenti a formula fissa, questo Sciuscià è un film che scuote e che appunto fa discutere, un film impegnato e che obbliga ad impegnarsi. […] La bellezza e la coerenza delle immagini, e l’alta mozione spirituale che le informa […] conferiscono al film un’importanza eccezionale. La quale ci induce con una probabilità in più a puntare in pieno, e con sempre maggior fiducia, in un cinema nostro, in cui si trasfondano le nostre tradizioni di cultura, di pensiero e di poesia, in cui si verifichi la nostra matura coscienza ed esperienza dell’arte, in cui si concreti la nostra umanità e la nostra socialità. […] De Sica ha messo nelle mani degli spettatori una bomba. E non già, si badi, una bomba caricata di gas lacrimogeni, ma di esplosivi ad alto potenziale.
Antonio Pietrangeli, Sciuscià. Un film “esplosivo” di Vittorio De Sica, “Star”, n. 17, 27 aprile 1946.
Nel plauso che noi giovani critici tributammo a De Sica e al suo Sciuscià nell'immediato dopoguerra, si mescolavano due sentimenti e due emozioni: l'ammirazione per l'opera e i suoi valori innovativi, ma anche un sussulto d'orgoglio per aver vinto, noi, una scommessa. Erano passati appena tre-quattro anni – ma che anni! – da quando, sulle colonne di “Cinema” e dei giornali giovanili, si erano manifestati i primi consensi a un attore-regista che, pur profondamente radicato nel cinema più tradizionale, aveva cominciato a corroderne dall'interno (da Teresa Venerdì a I bambini ci guardano) l'involucro paralizzante, e a metterne in crisi i codici più consunti. Il successo mondiale di Sciuscià fu, dunque, la conferma di una grande promessa.
Carlo Lizzani, in Sciuscià di Vittorio De Sica. Letture documenti testimonianze, a cura di Lino Miccichè, Associazione Philip Morris Progetto Cinema-Centro Sperimentale di Cinematografia-Lindau, Torino 1994.
Si ripartiva da zero, eppure – per l'Italia, almeno – l'uscita di Sciuscià costituiva un piccolo evento. Nel nostro microcosmo Sciuscià teneva in certo qual modo il ruolo del capolavoro annunciato. […] Dalla prospettiva della giovane critica, dietro a De Sica e a Visconti, le due ‘grandi speranze’, c'erano solo cineasti bocciati o, tutt'al più, ammessi a esame di riparazione, a prova d'appello. […] Va altresì precisato che il termine ‘neorealismo’ non era stato ancora accolto nel dizionario del cinema, sebbene Umberto Barbaro lo avesse già usato due anni prima, parlando di Ossessione e del Porto delle nebbie; una definizione che, almeno per quest'ultimo, suonava impropria, poiché il film di Marcel Carné era semmai il manifesto del ‘réalisme poétique’. Tuttavia la tendenza era inequivocabile, fin da quando Mario Alicata e Giuseppe De Santis avevano affermato che il film italiano più bello sarà quello dove la cinepresa seguirà “il passo lento e stanco dell'operaio che torna alla sua casa”: il cinema italiano doveva riflettere la realtà; qualsiasi altro proposito era guardato con sospetto. […]
Tutto sommato, il regista che ebbe minori problemi col passaggio dal prima al dopo, fu proprio De Sica. Per De Sica la soluzione di continuità non fu tale da interrompere l'itinerario già imboccato con I bambini ci guardano. Gli bastò accentuare le proprie naturali pulsioni, fare ciò che prima gli sarebbe stato oggettivamente impossibile, ma che già si leggeva iscritto nel suo DNA, già era evidente in alcune proprietà che lo caratterizzavano e lo contraddistinguevano anche dai colleghi a lui più affini: l'attrazione che esercitavano nei suoi confronti i cosiddetti attori presi dalla strada; la curiosa scelta delle intonazioni che imponeva agli attori, professionisti e non, intonazioni che alle volte facevano a pugni con le auree regole della recitazione, ma che lui rendeva originali e inimitabili. In special modo l'attenzione che egli riservava alle storie, alle vicende umane implicitamente iscritte nei corpi e soprattutto nei volti dei suoi interpreti, espresse da costoro senza ricorrere all'esperienza professionale, ma col solo fatto di esistere. […]
Sciuscià non inaugurava la stagione neorealista, onore che nessuno potrà togliere a Roma città aperta. Certamente depurava il nuovo stile di buona parte delle presenze estranee, ancora rinvenibili nel film di Rossellini. Sciuscià assegnava perciò a De Sica una posizione di avanguardia che tre anni dopo, con Ladri di biciclette si sarebbe trasformata in una funzione per così dire centrale.
Callisto Cosulich, La centralità del cinema di De Sica, in Sciuscià di Vittorio De Sica. Letture documenti testimonianze, a cura di Lino Miccichè, Associazione Philip Morris Progetto Cinema-Centro Sperimentale di Cinematografia-Lindau, Torino 1994.
All’affermarsi dell’etica e dell’estetica neorealistiche, e alla loro compenetrazione, De Sica dà subito un contributo rilevantissimo con Sciuscià, un film interamente calato nel clima del dopoguerra e che di questo clima restituisce, in modi originali e persuasivi, la forte drammaticità. Diversamente da altri film neorealistici, anche dello stesso De Sica, in Sciuscià sono del tutto assenti l’ottimismo e la speranza. Si direbbe che De Sica, in apparente contrasto con la propria naturale fiducia nell’uomo e con gli entusiasmi di quel momento, dovuti al recupero della libertà e della prospettiva di un futuro migliore, abbia voluto raffigurare soltanto in chiave negativa una realtà ritenuta affatto ostile, proprio per meglio lasciar capire l’urgenza di un ‘dover essere’, di altre condizioni umane e sociali. Il dramma, appunto umano e sociale, raccontato in Sciuscià si risolve in tragedia, senza possibilità di riscatto, senza residui consolatori. Il tono e l’articolazione narrativa sono, insieme, dolentemente pessimistici, non solo e non tanto perché la morte accidentale di uno dei due piccoli protagonisti conclude la vicenda lasciando l’altro, che l’ha involontariamente provocata, nella disperazione assoluta; ma, soprattutto, perché già prima di questa fine, che avrebbe potuto anche essere diversa senza alterare il senso profondo del film, il peggio era accaduto con la distruzione dell’amicizia degli stessi protagonisti, determinata dal mondo degli adulti e dalle istituzioni (il riformatorio, la polizia, il tribunale) che lo rappresentano. Nei protagonisti, due ragazzi poco più che bambini costretti per sopravvivere a lavorare come lustrascarpe e a imitare i grandi in una impari lotta per la vita che li porta, incolpevoli, in un carcere minorile, dove ancor più rischiano di venire traviati, De Sica raffigura due vittime della miseria, dell’egoismo e dell’ingiustizia. Doppiamente vittime, in quanto devono rinunciare alla loro innocenza e alle gioie della loro età, cui pure tendono con tutta la propria carica vitale, e in quanto non possono evitare le vessazioni, e la corruzione, di un ambiente per loro tanto estraneo quanto avverso. A questo proposito, De Sica non tralascia di mostrare, sia pure solo per accenni, come anche nel dopoguerra continuino a pesare negativamente residui fascisti: questo traspare particolarmente dal comportamento del direttore del riformatorio, interpretabile come un segno di ciò che verrà poi definita “la continuità delle istituzioni”, e che sottintende anche una burocratica disumanità. […]
Le riprese in esterno, con la ‘macchina’ che sembra cogliere la realtà nel suo immediato manifestarsi, e gli attori presi dalla strada, canoni neorealistici per eccellenza, diventano nell’elaborazione formale, oltre il loro statuto di procedure tecniche, elementi essenziali della riuscita artistica. Frutto di un sincero risentimento morale, il film vale anche come testimonianza probante di un particolare momento storico, con le sue immagini di rovine e di caos che fanno da contrappunto esteriore alle devastazioni prodotte negli animi degli ‘sciuscià’ dalle avversità sociali e dalla mancanza di solidarietà.
Bruno Torri, La più pura espressione del neorealismo, in De Sica. Autore, regista, attore, a cura di Lino Micciché, Marsilio, Venezia 1992