Dal romanzo al mito

Dal romanzo al mito

I maghi del Mago di Oz

È impossibile attribuire i meriti del film a un solo mago: Il mago di Oz, anzi, è un “testo senza autore” (Salman Rushdie). L’unica firma che lo marchia a fuoco è quella della MGM. Alla produzione si divisero Mervyn LeRoy e Arthur Freed (sulla carta assistente), quest’ultimo alla sua prima esperienza in una carriera che lo porterà a capo dei maggiori musical della casa. Non è chiaro a chi per primo venne l’idea, per nulla scontata se si considera che, fino ad allora, Oz al cinema non aveva sfavillato (una casa di produzione messa in piedi da Baum per adattare i suoi romanzi chiuse alla svelta, e la versione del 1925 con Oliver Hardy nel costume dell’Uomo di Latta fece poco clamore).
Di certo un buon impulso all’impresa fu assestato dal successone nel 1937 di Biancaneve e i sette nani. Le illustrazioni di William Wallace Denslow per la prima edizione del romanzo, poi, fornirono più che uno spunto iconico.
Furono quattro i registi che parteciparono al progetto: André de Toth (due settimane per niente), George Cukor (tre giorni, abbastanza per consigliare di togliere a Dorothy l’acconciatura bionda), Victor Fleming (quattro mesi, prima di correre sul set di Via col vento) e King Vidor (dieci giorni per le scene del Kansas). Addirittura undici gli sceneggiatori a vario titolo coinvolti. E la gestazione travagliata del film è confermata dai centotrentasei giorni di riprese, tra infelici incidenti di percorso. Ma a dispetto di un così ricco campionario di mani e cervelli, Il mago di Oz è tutt’altro che dispersivo e qua e là raffazzonato: tira invece dritto verso nuovi personaggi, regni e colori, con lo stesso passo saltabeccante dei suoi eroi, per fermarsi ogni tanto a esercitarsi nel canto o nel vaudeville. In fondo, oltre tanto arcobaleno, c’è una morale poco lampante. “Nessun posto è bello come casa mia”, comprende infine Dorothy. Ma tutto il resto sembra smentire apertamente il desiderio di un Kansas monocromo, dal quale è stato bello svegliarsi per prendere in mano il proprio destino di ragazza, senza adulti inadeguati tra i piedi, con la consapevolezza delle proprie virtù.
Il mago di Oz
fu troppo costoso per ripianare subito i costi, anche se il pubblico accorse e qualche Oscar marginale arrivò (miglior canzone, suono e premio speciale a Judy Garland). La sua enorme risonanza fu però un fenomeno soprattutto televisivo: a partire dal 1956 il film diventerà un appuntamento domestico fisso e, conseguentemente, una “American institution” (A. Harmetz).
Se il mondo di Oz boccheggia nei vari film che l’hanno in seguito rivisitato, si dimostra fertilissimo quando penetra come suggestione o incubo, più o meno latente, in contesti a prima vista lontani: Zardoz (John Boorman, 1974), Alice non abita più qui (Martin Scorsese, 1974), Cuore selvaggio (David Lynch, 1990), fino al magma del romanzo L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon.

(Andrea Meneghelli, Enciclopedia del Cinema Treccani, 2004)






Nonostante il grosso budget, Il mago di Oz fu solo uno dei quasi cinquanta film prodotti dalla MGM nel 1939. I bambini prodigio andavano per la maggiore. Per il ruolo della protagonista furono contattate dapprima Shirley Temple e Deanna Durbin.
Fu l’insistenza del produttore Arthur Freed a determinare la scelta di Judy Garland. Molti erano perplessi per l’ingresso nella produzione di Victor Fleming, che era considerato un regista per maschi. Ma Fleming era anche padre affezionatissimo di due bambine, e questo fattore essenziale si rispecchiò nel film.
Il regista aveva quel piglio infantile che mancava a Richard Thorpe, cui era stata inizialmente affidata la regia. George Cukor trascorse qualche giorno sul set e insistette sul fatto che la ragazzina fosse vera, una normale ragazzina del Kansas. Tutti i registi che seguirono rimasero fedeli al concetto. L’autenticità di Dorothy, il fatto che voglia davvero tornare nel Kansas, tiene insieme il film. Un altro grande regista, King Vidor, diresse la sequenza più famosa, Over the Rainbow, che rischiò di essere scartata in fase di montaggio. Ma ancora una volta intervenne Arthur Freed, argomentando in maniera convincente la necessità della scena nella transizione emotiva dal Kansas al paese delle meraviglie. La situazione di base è stata a volte interpretata in chiave psicoanalitica. Dorothy è un’orfana che parte alla ricerca del padre e della madre e tenta di risolvere il rompicapo della propria vita in un mondo onirico. Un tornado spazza via la sua casa nella grigia fattoria e all’improvviso Dorothy si ritrova in un mondo meraviglioso e multicolore.

(Peter von Bagh, Elämää suuremmat elokuvat II [I film 'bigger than life' II], Otava 1993)





Margaret Hamilton, la Strega malvagia dell'Ovest

Fu nell'ottobre del 1938 che iniziammo le 'prove' preliminari (che continuarono fino a novembre) […]. Ricordo che in quelle prime settimane incontrammo i tre registi. Ognuno di noi – anche Ray Bolger, Bert Lahr e Jack Haley – era preoccupato di perdere la parte con l'arrivo di ogni nuovo regista, ma i colloqui, per quanto ricordo, erano piuttosto piacevoli e, per quello che mi riguarda, incredibilmente brevi. Prima ci fu Richard Thorpe, con cui avevo già lavorato e che mi piaceva. Circa una settimana dopo che Thorpe se ne era andato ci fu presentato George Cukor, che non avevo mai conosciuto. Incontrò ciascuno di noi e continuammo a lavorare. Dopo un certo periodo Cukor se ne andò e alla fine incontrammo Victor Fleming, per il quale avevo lavorato in The Farmer Takes a Wife ai Fox Studio, prima che diventassero la 20th Century Fox. […] Dopo che Fleming se ne andò per dirigere Via col vento, fu King Vidor a concludere Oz. Non riesco a ricordare le riprese con nessuno dei registi eccetto Fleming. Ricordo il senso di inquietudine e quell'impressione ogni volta “Qui non funziona niente!”. […] C'erano delle decisioni da prendere sull'aspetto della strega: prove a colori e in bianco e nero per il design e per le gradazioni di nero […]. Dovevo anche provare varie versioni del mio mento e del naso per trovare i modelli, le forme e le tonalità di verde migliori. E poi ci furono moltissime prove costume e prove senza costume. Le maniche della strega dovevano avere un aspetto medievale? Quanto dovevano essere lunghe – fino al polso o alla mano? Quanto lungo lo strascico dell'abito e del mantello? […]
Poi ci furono le prove della strega, truccata e vestita, sullo sfondo delle varie scenografie che sarebbero state usate nel film. E infine le prove – accurate, infinite – con Dorothy, lo Spaventapasseri e una delle scimmie. […]
Il primo giorno di riprese iniziò alle 4.45 del mattino. […] Al cancello della MGM mi indicarono quello che sarebbe stato il mio parcheggio per i sei mesi successivi. M'incamminai al reparto trucco, presentandomi alle 6.45. Avevamo le nostre sedie particolari e addetti al trucco personali (Jack Dawn aveva creato il nostro trucco). Mi arrampicai sulla sedia 'da dentista' e mi accolse il mio addetto al trucco, Jack Young, responsabile della mia trasformazione giornaliera per tutto il film. Dalle altre sedie mi salutarono i colleghi attori, che sarebbero diventati parte integrante della mia vita nelle successive ventitré settimane. A causa della natura fantastica dell'opera, la sensazione di essere su una nave separata dalla normale vita quotidiana era ancora maggiore rispetto al solito.

(Margaret Hamilton, in Aljean Harmetz, The Making of The Wizard of Oz, Alfred A. Knopf, New York 1981)








Creare il mondo di Oz

“Ben 9200 attori sono stati davanti all'obiettivo del Mago di Oz, 450 persone lavoravano dietro le quinte e 6275 in tutti i rami della produzione […] 3210 costumi sono stati ideati e realizzati, 8428 make-up sono stati disegnati a colori e applicati ai volti degli attori, 68 ambienti fantastici sono stati costruiti... e addirittura 350 luci gigantesche venivano usate in ogni set, producendo elettricità sufficiente a illuminare 550 case di cinque stanze con due lampadine da 60 watt in ciascuna stanza” (dal materiale per la stampa inviato dal direttore pubblicitario della MGM Howard Strickling nel 1939). Nessuna delle stravaganti immagini di Strickling è vera. Ci furono 600 attori che richiesero meno di 1000 costumi. Nel più grande dei 60 set, 80-90 uomini lavoravano dietro le quinte e controllavano le 150 luci. Il totale di make-up ideati è più o meno quello degli attori. E anche se un numero significativo dei dipendenti della MGM cucivano, martellavano, dipingevano, battevano a macchina, suonavano il violino per Il mago di Oz, il loro numero non raggiunse mai 6275.


William Horning era lo scenografo del Mago di Oz: spettava a lui inventare Oz. Il reparto costumi, che aveva un problema simile, scelse di seguire nel modo più fedele possibile le illustrazioni di W.W. Denslow per il libro di Baum. L'Uomo di latta di Jack Haley aveva per cappello lo stesso imbuto rovesciato di quello di Denslow, le stesse file di viti lungo il torace. La testa dello Spaventapasseri di Ray Bolger era legata al corpo con una corda che riprendeva quasi esattamente i disegni di Denslow, e indossava una copia del suo cappello a punta e larghe falde. In molti casi, laddove i disegni non erano dettagliati, il costumista Adrian seguiva il testo di Baum. La Strega Buona del Nord di Billie Burke è piuttosto dissimile dalla “piccola vecchia signora col viso coperto di rughe” del libro ma indossa lo stesso abito cosparso di “stelline che brillavano al sole come diamanti”. E il vestito di Dorothy nel libro e nel film “era a quadretti, con quadri bianchi e blu”.
Horning non poteva avere lo stesso aiuto da Baum e Denslow. La città di Mastichini non c'è nel libro, solo fattorie sparse e campi di grano. C'è una descrizione del Campo dei Papaveri Velenosi ma nessuna illustrazione; e non ci sono immagini né descrizioni del Castello della Strega.
[…] Le idee preliminari di Horning erano tradotte in schizzi da Jack Martin Smith. “Di solito”, spiega Smith, “potevi fare riferimento a un libro o a una città e dire 'Userò questo tipo di architettura'. Per Meet Me in St. Louis, avevo dipinti a olio, incisioni e libri di carpenteria. Così potevi copiare una casa che avrebbe potuto essere a St. Louis nel 1900. Ma tutta Oz doveva essere immaginata e creata”. [...] Schizzo dopo schizzo la Città di Smeraldo venne rifiutata sia da Horning che dal capo del reparto scenografia, Cedric Gibbons. Gibbons condivise il credito per la scenografia e la candidatura all'Oscar per il Mago di Oz con Horning. Gibbons apparve nei crediti di tutti i film della MGM e ottenne undici Oscar tra il 1929 e il 1956. Ma Gibbons e Horning non vinsero per Il mago di Oz. Il film, prevedibilmente, perse in favore di Via col vento. […]
Il problema della Città di Smeraldo fu risolto da Gibbons. Il reparto scenografico aveva una sezione dedicata alle ricerche. Nel caos di libri e riviste su scultura, architettura, design e pittura, Gibbons scovò la Città di Smeraldo. “Trovò una piccola, minuscola fotografia di uno schizzo che era stato fatto in Germania prima della Prima guerra mondiale” spiega Smith. “Guardavamo il disegno – sembravano delle provette rovesciate – e materializzava le nostre idee. Pensavamo che fosse quello giusto perché non era dettagliato. Non sembrava la cattedrale di Reims. Non sembravano le Piramidi. Non sembrava la Tomba di Tutankhamon. Sembrava una cosa strana che non avevamo mai visto prima”.
Una volta che un progetto era approvato da Horning, Gibbons e Mervyn LeRoy, Smith e gli altri disegnatori realizzavano un progetto di lavoro in scala che passava poi al reparto costruzioni […] che comprendeva 500 falegnami, 150 operai, 15 idraulici e 50 imbianchini; 20 artisti di scena che pitturavano gli sfondi di mussola; e i pittori che dipingevano i set.

Alla MGM costò 8.000 dollari ideare, costruire e riprendere un tornato che non funzionò. Il fallimento di quel primo tornado – un cono di gomma alto dieci metri – era alquanto inaspettato. Il campo degli effetti speciali era pieno di problemi che non avevano ancora una soluzione. A. Arnold (Buddy) Gillespie semplicemente strappò il cono e riprovò. Gillespie non aveva mai realizzato un tornado fino ad allora. Però aveva realizzato un terremoto per il film San Francisco due anni prima, e nel 1947 vincerà un Oscar per il suo secondo terremoto (in Il delfino verde). […] “Non sai cosa fare, così inizi a pensare e immaginare. Ero stato un pilota per molti anni e avevo un aeroplano. Le maniche a vento che negli aeroporti ai vecchi tempi mostravano la direzione del vento avevano una forma simile a quella dei tornado e il vento li attraversava. Sono partito da lì. Abbiamo costruito un cono con una gomma sottile. Dovevamo roteare il cono di gomma e farlo girare. Ma i tornado sono detti anche twister e il cono di gomma non si attorcigliava. Fu una cosa piuttosto costosa da buttare. Alla fine costruimmo una sorta di manica a vento gigante con la mussola”.

(Aljean Harmetz, The Making of The Wizard of Oz, Alfred A. Knopf, New York 1981)