Antologia critica

Rebel without a Cause resta la rappresentazione hollywoodiana più emblematica della gioventù moderna (gli italiani e altri europei avevano già compiuto questa ricognizione), non più incarnata dalle presenze stereotipate di Shirley Temple e Mickey Rooney ma da creature fragili, tormentate e disorientate sulla soglia dell'età adulta. Nessun altro film seppe addentrarsi così tanto in questa tematica. Il saggio del dottor Robert Lindner da cui fu tratto il film era sepolto negli archivi della Warner dal 1946 e fu ripescato proprio quando la tematica giovanile si stava facendo scottante. I giovani attori trovarono nel regista un'anima affine che li capiva e che sapeva vedere nell'onore e nella dignità le caratteristiche salienti - già oltre la portata delle persone più anziane - della loro generazione. Il ritratto che Nicholas Ray fece di James Dean (e naturalmente di Natalie Wood e Sal Mineo) era plausibile e trattava con irriverenza i precetti dell'Actors' Studio. Non a caso, contrariamente a Kazan e a Stevens, Ray fu il solo a non lamentarsi del carattere di James Dean.
Il film traeva la propria verosimiglianza dalla ricerca antropologica, sempre cara a Nicholas Ray. Ma non avrebbe potuto conquistare il rango di verità eterna senza il CinemaScope (nel glorioso formato 2.55:1) e il colore (ricordiamo che il film fu girato per dieci giorni in bianco e nero prima che la Warner Bros. decidesse il passaggio al colore): lo testimoniano già i primi sensazionali minuti nella stazione di polizia. La messinscena è fondamentale in questo sottile e improbabile melodramma condensato in ventiquattro ore. I giovani volti di Dean e Wood, prima estranei l'uno all'altra e ora costretti ad affrontare l'ignoto, mettono in campo la tenerezza quale sorprendente antagonista di un mondo troppo crudele e la miracolosa forza dell'innocenza ancora intatta.
Anche i luoghi, come il planetario e la sua notte artificiale seguita da una notte vera e dai suoi lampi di vita familiare, offrono un efficace contrasto con l'ipocrisia del mondo adulto. Ma le parole più eloquenti restano quelle di François Truffaut, che considerava James Dean "un eroe baudelairiano": "In James Dean i giovani d'oggi si ritrovano completamente, e più che per le ragioni che si citano di solito, violenza, sadismo, frenesia, malvagità, pessimismo e crudeltà, per altre infinitamente più semplici e quotidiane: pudore dei sentimenti, fantasia in ogni occasione, purezza morale senza rapporti con la morale corrente ma più rigorosa, gusto inestinguibile dell'adolescente per la competizione, ebbrezza, orgoglio e rimpianto di sentirsi 'fuori' della società, rifiuto e desiderio di integrarsi e infine accettazione - o rifiuto - del mondo come è".

Peter von Bagh, Il Cinema Ritrovato 2014, catalogo del festival, Edizioni Cineteca di Bologna 2014



Deploriamo il fatto che i distributori francesi abbiano pensato bene di affibbiare come titolo, all’ultimo film di Nicholas Ray, questo non-senso, questo mostro grammaticale costituito dall’amalgama (non oso dire l’espressione) La Fureur de Vivre. È brutto, è volgare e inoltre, a rigore, non significa niente. Il titolo americano, invece, è sobrio, giusto; pur non rivelando la chiave dell’opera, chiarisce, come si deve, le intenzioni dell’autore: Rebel Without a Cause, ribelle senza causa, la causa, cioè, per la quale si combatte.
Il lettore dei “Cahiers” sa che consideriamo Nicholas Ray come uno dei più grandi – il più grande, direbbe Rivette, ed io lo seguirò volentieri – di quella nuova generazione di cineasti americani che si è formata dopo la guerra. Malgrado l’apparente modestia del suo discorso, è uno dei pochi ad avere uno stile, una visione del mondo, un senso della poesia personali: è un autore, un grande autore. Scoprire una costante che attraversa tutta un’opera è un’arma a doppio taglio: prova di personalità ma anche, in certi casi, di aridità. Tuttavia tanti e tali sono i condizionamenti che la produzione impone al cineasta, e così numerosi gli 'imprenditori', i 'direttori di produzione' e i buoni 'capomastri', che la presenza di un leitmotiv è, a priori, un indizio positivo. La diversità dei soggetti trattati da Nicholas Ray, la ricchezza di variazioni con cui riveste i suoi tre o quattro grandi temi preferiti potrebbero rendere più arduo individuare la sua originalità rispetto a quella di certi suoi concorrenti. Impossibile attaccare sulla sua morale una comoda etichetta, come su quella di John Huston. Non sono i problemi, alla maniera di un Brooks, che lo interessano, ma gli individui. Nessuna traccia delle sottigliezze psicologiche tanto care a Mankiewicz, né del lirismo folgorante, di quello che, come in Aldrich, vi stordisce al primo impatto. Il suo ritmo è lento, la sua melodia molto spesso monocorde, ma tratteggiata in modo così preciso, con uno svolgimento così avvincente, che non possiamo distrarci un solo istante. Anche i pezzi di bravura, per quanto brillanti, non emergono che in seguito ad un lento crescendo. È un’arte di “rapporti” più che di “esplosioni”.
Non solo lo spirito di questo film è simile a quello dei precedenti, anche le situazioni presentano analogie molto precise. La giovinezza dei protagonisti, il loro ardore ostinato sono gli stessi dei personaggi di I bassifondi di San Francisco e di La donna del bandito. Il tema della violenza l’abbiamo già incontrato in Neve rossa e in Il diritto di uccidere. L’eroismo inutile di James Dean è quello di Mitchum in Il temerario o di Cagney in All’ombra del patibolo. Il personaggio interpretato da Nathalie Wood non è molto diverso, nonostante la differenza di età, dalla Joan Crawford di Johnny Guitar. Anzi, dirò di più: tutte le eroine dei suoi film, senza eccezioni, da Catie O’Donnel a Gloria Granarne, da Susan Hayward a Ida Lupino, da Viveca Lindfords alle due già citate, acquistano, sotto la sua direzione, una certa somiglianza fisica, abbastanza sorprendente. Nicholas Ray è forse il solo poeta tanto della violenza quanto dell’amore: è il fascino particolare di questi due sentimenti che lo ossessiona, più che lo studio della loro genesi e delle loro più o meno immediate ripercussioni. Non il furore, né la crudeltà, ma quella particolare ebbrezza in cui ci immergono un’azione fisica, una situazione, una passione violenta. Non il desiderio, come nella maggior parte dei suoi colleghi americani, ma il misterioso accordo che unisce due esseri umani. A tutto ciò aggiungerci un senso della natura, distinguibile sullo sfondo – in senso proprio e figurato – in perfetto accordo con il suo temperamento, più attento agli aspetti coloristici – anche nei film in bianco e nero – che a quelli plastici.
E poi, nessun regista sa imprimere ai propri personaggi un’aria di famiglia così evidente. Sono segnati dal marchio della stessa fatalità, dello stesso male morale o fisico, ma non si tratta esattamente di tara o di decadenza. Guardate quei volti femminili dalla pelle soave, ma con le palpebre cerchiate e le labbra pesanti, quelle figure di uomini atletici, i Ryan, i Derek, i Mitchum, schiacciate o, piuttosto, come raccolte su se stesse. James Dean spinge ancora più in là questa immagine, crisalide non ancora del tutto liberata dal suo bozzolo. Ripiegamento su se stesso? Solitudine più subita che voluta, angosciosa ricerca d’affetto, d’amore, di amicizia. Parlavo, poco fa, di uno sviluppo lineare: ma non si tratta di una di quelle belle linee rette che sono tipiche di Hawks, di quell’ampio cammino dell'epopea con le sue andature tranquille e i suoi portamenti alteri. Qui tutto è circolare, dai gesti d'amore al moto degli astri, dagli sguardi avvolgenti – più di quanto non siano sfuggenti – agli errabondi inseguimenti, fino a quelle morti che chiudono il cerchio e restituiscono i personaggi alla loro primitiva innocenza. Ecco che cosa manca a questi uomini-bambini: quella sorta di verginità di cui i narratori dei racconti di avventure rivestono di solito i loro personaggi. Né hanno la rassegnata compiacenza o la volontà di abiezione dell'uomo del romanzo moderno. Non sono neanche del tutto colpevoli...
Poeta, dunque, Nicholas Ray lo è senz’altro, ma è sul carattere tragico – e non soltanto lirico – del suo ultimo film che vorrei, ora, mettere l’accento. Innanzi tutto per la sua forma, aspetto superficiale, ma non per questo trascurabile. Rebel Without a Cause è un vero e proprio dramma in cinque atti. Atto primo. Esposizione: due adolescenti e una ragazza sono stati presi dalla polizia durante una retata. Intervento dei genitori. La questione si pone immediatamente sul piano morale e vi resterà per tutto il resto del film: perché questa ribellione? Non ha neanche quella sorta di profondità che caratterizza l’assurdo perseguito in quanto tale. E non è nemmeno il semplice sussulto di giovani animali non ancora completamente domati. È l’onore di questi ragazzi e di questa ragazza che è in gioco, un onore erroneamente concepito, ma che non potrebbe essere diverso, perché l’ambiente e le circostanze non gli concedono un campo d’esercizio più nobile. Certo, il discorso è un po’ appesantito da un eccesso di psicanalisi ingenua. Ma non credo che vada intesa come una spiegazione o come una giustificazione: fa parte dello sfondo di vita americana. Questa è per lo meno la mia opinione a visione ultimata: questa mescolanza di elementi mi ha un po’ infastidito, sul momento, come pure una certa mancanza di pudore, una certa debolezza, direi anzi, addirittura stupidità, nei personaggi. Sono così, è il dramma che lo esige. Perciò lasciamo perdere e passiamo all’atto secondo. Il nostro eroe principale, interpretato da James Dean, ha dunque promesso di comportarsi bene e va a scuola. Sarcasmi dei suoi compagni che conoscono le sue pretese di “duro”. Primo intermezzo lirico con la lezione al planetario, quell’evocazione da apocalisse che riesce appena a velare di inquietudine o di finta indifferenza lo sguardo vuoto dei nostri studentelli. Idea piuttosto banale, sulla carta, ma forte e profonda una volta realizzata, rivestita, come tutto quello che la segue, di gravità e, nello stesso tempo, di derisione. All’uscita nuove provocazioni. Dean cerca di evitarle, ma non sottrarsi è una questione d’onore, e non del suo onore di galletto di provincia, ma, lo sentiamo, dell’onore tout court. Lotta al coltello la cui durezza, unita alla bellezza del paesaggio su cui si staglia, fa dimenticare che non è che un gioco da ragazzi. E non è tutto: la seconda manche deve essere giocata la sera stessa con un esercizio ancora più assurdo e pericoloso.
Sarà l’atto terzo. L’intreccio, fateci caso, ha avuto finora come molla principale la volontà dei personaggi: sarà così fino alla fine. L’eroe abbandona momentaneamente il campo – si rifugia, cioè, in famiglia – per meditare. Poi va al duello. Ancora una bravata, notturna questa volta. Colpo di scena che rimette in moto l’azione: si tratta di far precipitare l’auto in mare e di saltare all’ultimo momento. L’avversario si uccide. Sbandamento. Atto quarto. Dean ha salvato l’onore e ha conquistato l’amore del flirt della vittima, la ragazza del commissariato interpretata da Nathalie Wood. Ritorna a casa, dichiara ai genitori l’intenzione di costituirsi alla polizia. Questi lo dissuadono. Questa viltà lo disgusta. La debolezza del padre non “spiega” solamente la presenza, nel figlio, di questo “complesso” dell’onore e di questa vanagloria morbosa: li giustifica, nel senso morale del termine, li reclama, li esige. Violenza, scene sgradevoli trattate con una rara franchezza. Va al commissariato, ma la polizia non lo vuole ricevere. Nel frattempo i suoi compagni, che temono che lui li tradisca, lo stanno cercando. Il suo unico amico, un brunetto curiosamente chiamato Plato (Sal Mineo), dopo vari incidenti riesce a raggiungerlo: è l’ultimo atto, la notte, in una villa abbandonata che fa pensare a Neve rossa o a Johnny Guitar, Secondo intermezzo lirico: Nathalie Wood ha raggiunto i due ragazzi. Scena d’amore a lume di candela nella stanza vuota; angoscia e pace nella notte; al di là di un certo infantile cinismo, primi turbamenti, primi pudori: bellezza dei baci e delle carezze. Di fronte alla Donna il nostro eroe di poco fa diventa il ragazzino che non era riuscito ad essere con i genitori, ma, nello stesso tempo, scopre le sue responsabilità di uomo. L’erotismo di Ray sarà torbido e confuso quanto si vuole, ma che importa: anche su questo aspetto lo psicanalista avrà il suo da fare. Ma senz’altro non potrà rendersi conto dell’emozione che proviamo, noi spettatori, nel vedere i liceali del pomeriggio prepararsi alla fine a un combattimento fisico e morale degno di questo nome... E noi ci lasciamo andare. Non solo “agli eventi” (che a questo punto precipitano: arrivo dei compagni, lotta con Mineo che, impaurito, spara, irruzione della polizia, inseguimento nella boscaglia); o alla grandiosità teatrale, nel senso positivo del termine, della messa in scena (le auto con i fari accesi che circondano il planetario, le intimazioni, il dialogo nell'ombra durante il quale Dean cerca di riportare il compagno alla ragione), o la tragicità della conclusione (quando un poliziotto spara a Plato non appena questi appare in cima alla scala stringendo nervosamente la pistola che Dean, a sua insaputa, aveva scaricato). Ci lasciamo andare totalmente; abbiamo soppresso la distanza che, prudentemente, mantenevamo ancora tra noi e i personaggi. Le loro ragioni son le nostre, ed anche il loro onore e la loro follia. Sono usciti, per impiegare il linguaggio alla moda, dall'universo dell’inautentico. Hanno acquisito, meritato quella dignità di eroi tragici che all'inizio non potevamo certo assegnare loro.
Quel che mi piace in questo film è che la parola onore, pur uscendo dalla bocca di esseri infantili, fragili, piccolo-borghesi, non per questo brilla meno del suo splendore puro e inalterabile; è che questi ragazzi, come i campioni del rodeo e i fuorilegge della prateria, ne hanno conservato il senso tenace, benché, peraltro, la loro vanità, la loro sciocca ostinazione, la società, la morale o che so io, insomma il destino li condanni. Non sono del tutto colpevoli, ma neanche del tutto innocenti, macchiati, se non altro, della colpa del loro secolo. È compito dei politici e dei filosofi indicare all’umanità orizzonti più limpidi di quelli entro cui questa ha deciso di rinchiudersi, ma la missione del poeta è quella di non prestare fede completamente a questo ottimismo, di estrarre dalla feccia del suo tempo la pietra preziosa, di insegnarci ad amare senza vietarci di giudicare, di mantenere sempre vivo in noi il senso della tragedia. Feci queste riflessioni, un giorno, in un cinema di periferia che proiettava Il diritto di uccidere. Mi ritornano in mente ad ogni visione di un nuovo film di Nicholas Ray, e di questo soprattutto, il suo capolavoro.

Eric Rohmer, Aiax ou le Cid, “Cahiers du cinéma”, n. 59, maggio 1956, pp. 32-36, tr. it. in Il cinema secondo la Nouvelle Vague, a cura di Giovanne Grignaffini, Temi, Trento, 2006




Ci sono film che bisognerebbe vedere quando si ha la stessa età dei protagonisti. Intendo quei film dove i sentimenti sono il cuore del problema, e si ride o si piange perché ci riguardano da vicino. Allora gli attori sullo schermo sembrano chiamati a rappresentarci, a dire di noi quello che non siamo capaci di esprimere da soli.
Ogni generazione ha i suoi film-manifesto, non importa se belli o brutti. E il mito di certi attori nasce di conseguenza, dalla necessità di identificarci con qualcuno che porti alla luce i nostri desideri, soprattutto se ci sembra che non arrivino fino agli altri, che restino lettera morta. I ragazzi degli anni Cinquanta trovarono in James Dean il loro portavoce, e la morte prematura creò il suo mito.
Fece solo tre film da protagonista. Il secondo è anche il migliore di Nicholas Ray, il più famoso senz’altro, con un titolo che divenne un’espressione del dire comune: Gioventù bruciata, caso in cui l’italiano suona più efficace dell’originale, come era accaduto per Ombre rosse (Stagecoach, cioè “La diligenza”) e accadrà per Sentieri selvaggi (The Searchers, “I cercatori”)di John Ford. Mentre il titolo americano Rebel Without a Cause, ribelle senza causa, sembra inventato da un bacchettone che la sa lunga: agitatevi pure, ragazzi pare che voglia ribadire , rivoltatevi contro la famiglia e l’ordine costituito, ma sappiate che non ce la farete e che prima o poi tornerete all’ovile...
Se la sequenza chiave di Gioventù bruciata è quella della sfida tra le due automobili di fronte alla scogliera, con Natalie Wood che dà il via al centro della pista, ce n’è un’altra ancora più significativa, che rivela meglio le intenzioni degli autori: la scena del planetario dove, durante la lezione di astrofisica, si passa improvvisamente dalla contemplazione delle stelle all’esplosione dell’universo, dagli scherzi goliardici al terrore del buio. Quasi un presagio di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968) di Kubrick.
Figli che cercano un padre, padri che non sanno dare ai figli risposte e certezze, la filosofia consolatoria che “è solo questione di età, tanto poi i giovani crescono e tutto passa...”. Niente di più amaro anche per uno che ha vent’anni oggi, come allora Jimmy Dean e il gracile, spaurito Plato di Sal Mineo, forse il personaggio più indifeso del film: bambino che vuole aiuto e per un tratto s’illude di trovarlo. E la cui morte suggella, al di là di un’illusoria happy end, la sconfitta di tutti.

Gianni Amelio, Il vizio del cinema, Einaudi, Torino, 2004, pp. 202-203

 

Ideologicamente Ray è tutt’altro che un autore lineare, e la lettura gauchiste dei suoi film va incontro a imbarazzanti paradossi. I dilemmi dei suoi personaggi sono in ultima istanza psicologici ed esistenziali, e non direttamente sociali. Come non lo sono, peraltro, quelli di Lang, o di Hitchcock. Rispetto ad altri registi coetanei e non, Ray ha però la continua tendenza a 'sporcarsi le mani' con il presente, ad affondare le sue storie in ambienti contemporanei con una scorza sociologica evidente. Roger Tailleur biasimava il Ray autore 'con idee', intuendo che il suo moralismo trovava miglior nerbo se calato nelle strutture di genere e nel cinema 'd’evasione'. Ma se si possono preferire, per la ricchezza e l’ambiguità, i film di Ray che lottano con i generi, li aggiornano, li screziano, un film come Gioventù bruciata rimane in ogni caso imprescindibile. È quello il “presente” da tener sottinteso, che 'spiega' allo spettatore di oggi, retrospettivamente, gli altri film.
Anche in questo caso il personaggio centrale è meno centrale di quanto potrebbe apparire. Il cuore del film è ancora il rapporto padri-figli: non solo quello tra Jim e suo padre, ma soprattutto quello tra Jim e Plato. Gioventù bruciata è ancora una volta la storia di una paternità narcisistica e (dunque) fallimentare. Plato viene quasi tecnicamente ucciso da Jim, che lo disarma a sua insaputa e lo convince ad andare incontro alla polizia. E, soprattutto, è proprio la tensione stilistica del film a chiarirne il senso: il fatto che sia tutto costruito in un continuo gioco dentro/fuori lo sguardo del protagonista. A tratti, dietro la macchina da presa sembra esserci l’omonimo del regista, Ray (il professore comprensivo), altre volte però lo sguardo di Jim pervade l’intera messa in scena, e il film assume il suo punto di vista, come il regista stesso sottolineava nelle interviste (specie per quanto riguarda certi aspetti caricaturali del padre). Lo stile di Ray diventa, con la sua astrazione e il suo uso antirealistico ma vitalista dei segni filmici di un’epoca (il colore e lo schermo panoramico, la recitazione dell’Actors Studio e le cadenze da musical), una specie di resa filmica, visiva, delle inquietudini di una generazione. È per questo che, al di là delle sue incertezze ideologiche, il film ha una natura così dirompente, e diventa davvero simbolo di una generazione e perfino precursore di sensibilità di là da venire. È il mondo interiore di Jim che lo stile del regista riesce a ricreare, in un tesissimo equilibrio di punti di vista che offre una visualizzazione di quella entità nuova che prendeva il nome di 'giovani'.
Infatti, l’adesione di Ray alla generazione dei giovani del dopoguerra non ha la coscienza che avrà, nella fase successiva, quella di Arthur Penn per i ragazzi del Movement. Anche perché con i suoi giovani Ray non può vedere una vicinanza politica o ideale (tutto sommato, nonostante la sua militanza in gruppi artistici radicali, egli rimarrà sostanzialmente un apolitico), ma solo istintiva, vitale. E, in fondo, proiettiva.
E qui siamo al punto decisivo. Il sovrappiù di pathos che l’appassionato vede nel cinema di Ray, e in particolare nel tema centrale del rapporto tra padri e figli, vale anche come metafora della posizione del regista nella storia del cinema americano. O meglio, l’intensità con cui è trattato il decisivo passaggio tra due generazioni è inscindibile dalla figura di Ray, autore in bilico tra vecchio e nuovo, lontano sia dai grandi registi del New Deal, sia dalla nuova leva che si affaccia tra cinema e televisione: Penn, Altman, Frankenheimer...

Emiliano Morreale, Ribelli senza causa, in Nicholas Ray, a cura di Emanuela Martini, Torino Film Festival – Il Castoro, Milano-Torino 2009, pp. 76-79