Rimini e la memoria

Rimini e la memoria

Era da tempo che avevo in animo di fare un film sul mio paese; il paese dove sono nato, intendo. Mi si potrà obiettare che in fin dei conti non ho fatto altro; forse è vero; eppure io continuavo a sentirmi come ingombrato, perfino infastidito, da tutta una serie di personaggi, di situazioni, di atmosfere, di ricordi veri o inventati, che avevano a che fare con il mio paese e così, per liberarmene definitivamente, sono stato costretto a sistemarli in un film. Devo dire che da un po' di tempo in qua, mi capita di fare i film con l'aria di chi svuota un appartamento, mette all'asta i mobili, toglie di mezzo cose e fatti, chi lo sa a che cosa voglio far posto, che cosa è che voglio rendere abitabile? […] Amarcord quindi voleva essere il commiato definitivo da Rimini, da tutto il fatiscente e sempre contagioso teatrino riminese, con gli amici della scuola in testa, e i professori, e il Grand-Hotel d'estate e d'inverno, e la visita del re, e la neve sul mare, e Clark Gable, e i labbroni di Joan Crawford, e Mussolini che nuota al largo di Riccione, mentre attorno a lui, come pinne di squali che girano in cerchio, guizzano i nuotatori della Milizia. Soprattutto Amarcord voleva essere l'addio a una certa stagione della vita, quell'inguaribile adolescenza che rischia di possederci per sempre, e con la quale io non ho ancora capito bene che si deve fare, se portarsela appresso fino alla fine, o archiviarla in qualche modo.
(Federico Fellini)

 

Con Amarcord Fellini ritorna alla sua Rimini, quasi diventata una Miami Beach all'italiana, e per questo se ne sente abbastanza distaccato, anche se la separazione non è stata mai definitiva. Rimini, suo “nutrimento terrestre”, è ormai assurta a dimensione della memoria e proiezione immaginaria, una Rimini popolata di donne dalla sensibilità orgiastica, quasi orientale, tanto che il Gran Hotel diventava, per lui, Istanbul, Bagdad, Hollywood: “archivio sempre reinventato e simbolo vivente”. […] La realtà si trasfigura ai margini del surreale. Procedendo per piccoli eventi che creano una atmosfera unitaria, il Borgo, cioè la Rimini della reminiscenza, diventa una sorta di Piccola città, di Antologia di Spoon River, dive affiorano sull'onda ciclica delle quattro stagioni figure di un universo familiare, mai dimenticato: e sono professori di ginnasio, militanti fascisti messi alla berlina, parente ricordati con affetto anche se talvolta un po' matti. Ma ci sono anche i paesaggi, con un mare inventato, una lirica nevicata, e le magiche 'manine' volanti di primavere, come le nebbie autunnali.
(Mario Verdone)






Com'era prevedibile intorno ad Amarcord si crea a Rimini tutta una scuola di interpreti e chiosatori, ansiosi di dare un nome vero a personaggi e macchiette, e una radice storica a tutte le situazioni. È proprio il tipo di curiosità che Fellini non ama: l'autore insiste che la sua è una provincia metafisica, collocabile con poche varianti in ogni tempo e latitudine. Ha bisogno di restare solo, prima e dopo, con il suo argomento. Teme la suscettibilità e la voracità dei riminesi, teme soprattutto il loro affettuoso cannibalismo. E così il regista ricostruisce a Cinecittà la sua Rimini (non ce n'è una sola immagine vera in tutto il film, girato fra gennaio e giugno 1973) e organizza scenograficamente il capitolo più remoto di un'autobiografia 'in progress'.
(Tullio Kezich)



Mi sembra che lo studio sia il luogo dove le immagini che si sono viste nell'immaginazione possono essere realizzate con un controllo assoluto, esattamente come fa il pittore su una tela con il pennello. […] Nella misura in cui l'espressione cinematografica è veramente un artificio, una finzione, è normale che si abbia la tendenza a realizzare tutti i film in studio. Artificio e finzione raggiungono qui più di precisione, più verosimiglianza, più fedeltà all'immagine fantastica che si ha dentro di sé.
(Federico Fellini)

 

 

Titta e un tipico quedretto di famiglia riminese anni '30

Amarcord è la storia della mia famiglia. Io Titta, e poi mio fratello, mio padre, mia madre, mio nonno. Io non mi ero reso conto che era la storia della mia famiglia, quando lo stava girando. Lui mi diceva: “Vieni a Roma a fare la parte di tuo padre, perché meglio di te Ferruccio non lo può fare nessuno” – ché mio padre lì è riprodotto bene... era un incazzoso... tirava via la tovaglia con tutta la roba sopra. Ha fatto una dedica a mio padre magnifica proprio... in cui dipinge mio padre com’era... il capomastro... Io non avevo capito. Quando, viceversa, il 12 dicembre del 1973 Federico mi telefona e mi dice: “Oh! Vieni giù a Roma che domani sera andiamo al Quirinale per la prima di Amarcord”, là mi sono reso conto che Federico mi aveva fatto sto regalo. Ricordava la nostra vita felice dell’adolescenza, che sono gli anni più belli della vita, dai dieci ai diciotto, ai venti... Di Amarcord posso riportare la critica fatta da mia madre – anche lei era una donna che non la mandava giù più di tanto: “E tu amìg u m’à fat murì prima de’ témp” (Il tuo amico mi ha fatto morire prima del tempo), perché mia madre muore nel film. E mia mamma diceva: “Ma come? Se io sono ancora qui, lui si è permesso di farmi morire?...”. E Federico rideva come un matto.
(Titta Benzi)




La maggior parte della narrazione si concentra su una tipica famiglia dell'epoca, un quadretto domestico piacevole nonostante qualche 'classico' difettuccio e debolezza. Aurelio, il padre (Armando Brancia) è un caposmastro che ha raggiunto un certa stabilità economica nel settore edile, non dimentico del proprio passato di manovale, è anarchico per formazione (la qual cosa non cessa di procurargli fastidi con i fascisti del paese che lo tirano in ballo ogni volta che c'è qualche disordine). Uomo dal modo di fare mite è nondimeno capace di improvvisi e talvolta inspiegabili scoppi d'ira, diretti nei confronti dei figli e fra questi Titta (Bruno Zanin) in particolare, il ragazzo le cui disavventure occupano buona parte del film. La moglie di Aurelio, Miranda (Pupella Maggio), rappresenta l'archetipo della madre italiana in perenne sofferenza, impegnata a difendere Titta quando in realtà meriterebbe di essere punito e a viziare il fratello Lallo (Nandino Orfei) detto 'il pataca' (così viene chiamato senza alcuna cattiveria dagli amici vitelloni). Lallo vive con la sorella senza avere nessuna fonte di reddito, può essere considerato il prototipo classico di quei giovani nullafacenti resi celebri ne I vitelloni. Anche Miranda appare talvolta soggetta a scatti isterici nella perenne diatriba con il marito Aurelio. Il nonno di Titta (Peppino Ianigo) è un simpatico vecchietto con la mente ancora del tutto occupata dalle proprie fantasie sessuali; anche lui vive in famiglia. C'è inoltre un fratello di Aurelio, lo zio Teo, confinato in un manicomio presso il quale si recherà tutta la famiglia in una sequenza importante del film.
La rappresentazione comica degli abitanti di Rimini deve molto al background di Fellini in qualità di vignettista e disegnatore umoristico. I personaggi che via via ci appaiono, sono irrimediabilmente identificati con i due tre tic che li accompagnano. E, visto che l'obiettivo principale di Fellini sembra quello di mettere in luce le cause dell'eterna adolescenza che affligge gli abitanti della cittadina, il gruppo più folto di loro è rappresentato proprio dai ragazzi compagni di scuola di Titta. I ritratti del papa, del re e di Mussolini che troneggiano nelle aule della scuola sembrano, infatti, essere messi lì a bellaposta per perpetuare quello stato di confusione che attanaglia questi eterni ragazzi e che Fellini identifica come proprio dell'era fascista.
(Peter Bondanella)


Non chiamatela autobiografia

Nonostante le diverse ristampe del volume che raccoglie i ricordi di Fellini legati a Rimini, nel quale vengono descritti alcuni dei personaggi che poi ritroviamo in Amarcord (Gradisca, Titta, Giudizio, 'Ronald Coleman', il preside, il prete), il regista si è sempre rifiutato di considerare i propri film come autobiografici insistendo sul fatto che “i miei film della memoria raccontano ricordi completamente inventati. E del resto che differenza fa?” […]
La veridicità storica degli eventi registrati in Amarcord o nelle memorie di Fellini ha poco o nulla a che fare con la loro funzione artistica nel film – come ha sempre inteso sottolineare Fellini in ogni affermazione critica riguardante questa opera. Come Fellini ebbe più volte modo di dichiarare, ricreando il proprio passato attraverso il fittizio prisma del proprio cinema è riuscito a cancellarlo al punto che: “Non so più distinguere quello che è veramente accaduto da ciò che mi sono inventato. Al ricordo vero si sovrappone il ricordo dei fondali dipinti, del mare di plastica, e i personaggi della mia adolescenza riminese vengono come spinti via a gomitate dagli attori o dagli altri personaggi che li hanno interpretati nelle ricostruzioni scenografiche dei miei film”:
(Peter Bondanella)



Non è la memoria che domina i miei film. Dire che i miei film sono autobiografici è una disinvolta fregnaccia. Io la mia vita me la sono inventata. L’ho inventata apposta per lo schermo. Prima di girare il primo film non ho fatto altro che prepararmi a diventare alto e grosso abbastanza e a caricarmi di tutta l’energia necessaria per arrivare un giorno a dire ‘azione!’. Ho vissuto per scoprire e creare un regista: niente altro. E di niente altro ho memoria, pur passando per uno che vive la sua vita espressiva sui grandi magazzini della memoria. Non è vero niente. Nel senso dell’aneddoto, di autobiografico, nei miei film non c’è nulla. C’è invece la testimonianza di una certa stagione che ho vissuto. In tal senso, allora sì, che i miei film sono autobiografici: ma allo stesso modo in cui ogni libro, ogni verso di poeta, ogni colore messo su tela, è autobiografico".
(Federico Fellini)