L'idea del film
A m'arcord
Al so, al so, al so,
Che un om a zinquent’ann
L’ha sempra al méni puloidi
E me a li lév do, trez volti e dé
Ma l’è sultént s’a m vaid al méni sporchi
Che me a m’arcord
Ad quand ch’a s’era burdéll.
Io mi ricordoLo so, lo so, lo so,
Che un uomo a cinquant’anni
Ha sempre le mani pulite
E me le lavo due, tre volte al giorno.
Ma è solamente se mi vedo le mani sporche
Che mi ricordo
Di quando ero ragazzo.
(Tonino Guerra)
Chiacchierando un giorno con Renzo Renzi, che era venuto a trovarmi durante una mia convalescenza a Manziana per propormi di fare un'introduzione a un libro su Rimini, l'idea di un film sul mio paese si precisò in suggestioni più esatte. Si presentò subito anche un titolo, una mezza bestemmia che scritta tutta di seguito nascondeva forse le proprie origini blasfeme, poteva sembrare una parola esotica, uno scioglilingua, una frase magica, da Mille e una Notte: Osciadlamadona. Fui anche tentato da un'altra paroletta un po' più corta: 'Nteblig! La diceva sempre mio nonno, il padre di mio padre, in qualunque occasione, qualunque domanda gli rivolgessero, qualsiasi commento venisse invitato a fare; lo diceva a tutti, uomini e donne, alla pioggia, al vento, ai creditori, ai funerali, ai battesimi, e sembra che andasse sempre bene, che acquistasse di volta in volta il significato giusto. E anche lui alla fine lo chiamavano cosi: “'Nteblig!”
Cercai Tonino Guerra e gli dissi che volevo fare un film così. Tonino è di Santarcangelo, uno dei quartieri più poveri di Rimini, e anche lui aveva da raccontare storie simili alle mie, personaggi che avevano in comune con i miei la stessa follia, la stessa ingenuità, la stessa ignoranza di bambini malcresciuti, ribelli e sottomessi, patetici e ridicoli, sbruffoni e umili.
E in questo modo venne fuori il ritratto di una provincia italiana, una qualunque provincia, negli anni del fascismo.
(Federico Fellini)
Il titolo
Volevo intitolare il film Viva l'Italia, ma il tipo di sarcasmo ingeneroso, snobistico, troppo rozzamente liquidatorio che sembrava suggerirlo rischiava di essere esteso e frainteso con il film. Un altro titolo mi ha tentato per un po' di tempo ed era II borgo, il borgo inteso nel senso di chiusura medievale, la provincia vissuta come isolamento, separazione, tedio, abdicazione, decomposizione, morte.
(Federico Fellini)
Un giorno, al ristorante, mentre scribacchiavo disegnini sul tovagliolo è venuta fuori la parola Amarcord; ecco, mi sono detto, adesso verrà immediatamente identificata nel 'mi ricordo' in dialetto romagnolo, mentre ciò che bisognava accuratamente evitare era una lettura in chiave autobiografica del film. Amarcord: una paroletta bizzarra, un carillon, una capriola fonetica, un suono cabalistico, la marca di un aperitivo, anche, perché no? Qualunque cosa, tranne l'irritante associazione al 'je me souviens'. Una parola che nella sua stravaganza potesse diventare la sintesi, il punto di riferimento, quasi il riverbero sonoro di un sentimento, di uno stato d'animo, di un atteggiamento, di un modo di sentire e di pensare duplice, controverso, contraddittorio, la convivenza di due opposti, la fusione di due estremi, come distacco e nostalgia, giudizio e complicità, rifiuto e adesione, tenerezza ed ironia, fastidio e strazio. Mi sembrava che il film che volevo fare rappresentasse proprio questo: la necessità di una separazione da qualcosa che ti è appartenuta, nella quale sei nato e vissuto, che ti ha condizionato, ammalato, ammaccato, dove tutto si confonde emozionalmente, pericolosamente, un passato che non deve avvelenarci, e che perciò è necessario liberare da ombre, grovigli, vincoli ancora operanti, un passato da conservare come la più limpida nozione di noi stessi, della nostra storia, un passato da assimilare per vivere più consapevoli il presente.
(Federico Fellini)
Nel finale di 8 1/2 il protagonista, cioè Guido alias Federico, si immagina circondato da tutti i personaggi della sua esistenza riuniti sulla pista del circo in un'unica allegra sarabanda. Dieci anni dopo, con Amarcord, il regista realizza il sogno di 8 1/2: l'abbraccio generale, l'accettazione placata di tutti i ricordi compresi quelli angosciosi. Il titolo 'a m'arcord' significa in dialetto romagnolo, 'io mi ricordo'; ed è citazione da una poesia che si legge nel volume pubblicato da Rizzoli, con il trattamento del film: una poesia dialettale che evoca, accanto a Fellini, la figura del suo nuovo collaboratore Tonino Guerra. Tradotta in italiano con il titolo Io mi ricordo. […] Inventata da Fellini scrivendola su un tovagliolo al ristorante, come in un raptus di scrittura automatica, la parola Amarcord diventa una formula magica, di quelle che incantano il regista al punto di fargli credere alla loro pratica utilità. Pronunciato l'incantesimo, ci appare di colpo l'universo felliniano al gran completo: la fanfara dei bersaglieri, gli sposi malinconici e i pervicaci miti di Lo sceicco bianco; I vitelloni ingrigiti e inquartati; i paesaggi metastorici che circondano i borghi di La strada; le eterne prostitute di tutti i film... Con Amarcord, tuttavia, è come se Fellini si fosse svegliato una mattina sentendosi liberato dagli invasori di Giulietta, ma disposto a un viaggio per raggiungerli nel loro ultimo rifugio: che può essere soltanto il paese dell'infanzia.
(Tullio Kezich)