La mia banda suona il rock: musica e musical

La mia banda suona il rock: musica e musical

In The Warriors le scene di lotta sembrano quasi dei balletti...
Sono dei balletti. Io credo che la lotta sia in un certo senso una forma di danza. Le lotte di The Warriors sono state tutte coreografate con cura, ho voluto che assomigliassero a scene di un musical perché non volevo assolutamente essere realistico. The Warriors è senza dubbio costruito come un musical, soprattutto le scene violente hanno un ritmo musicale molto forte. Ma io non volevo che il pubblico, vedendo sangue o roba del genere, provasse fastidio o raccapriccio; volevo anzi che il pubblico si divertisse a quelle scene, che si esaltasse alla vittoria dei Guerrieri.
Le scene di lotta coreografate come balletti mi fanno pensare ad Arancia meccanica di Kubrick. È un paragone possibile?
Non saprei. Non ho mai visto il film di Kubrick.
Un altro termine di paragone molto citato dalla stampa italiana è stato West Side Story.
Ne hanno parlato molto anche in America, ma anche qui devo deluderti. Ho visto West Side Story a teatro, ma non ho mai visto il film che ne è stato tratto. Ti dirò che vado pochissimo al cinema, non sono certo un cinefilo.
Walter Hill, intervista a cura di Alberto Crespi, “Segnocinema”, n. 2, dicembre 1981.

La musica […] è di Barry De Vorzon, con una canzone (In the City) composta da Joe Walsh, chitarrista degli Eagles. E di canzoni, nel film, ce ne sono diverse. C’è Nowhere to Run, annunciata dalla solita disc-jockey Dolly (“Una canzone che va a pennello. Attenti a voi, guerrieri, non sarà facile tornare a Coney. Avete capito, balordi?”) nel primo ‘proclama’ di caccia ai Warriors lanciato attraverso la radio. C’è Last of An Ancient Breed, sempre alla radio, un breve stacchetto. Ci sono Moving Too Slow e Love Is A Fire nell’episodio delle Lizzies, separate dalla sequenza di Swan e Mercy in metropolitana. E c’è, sui titoli di coda, la citata In the City, sempre annunciata dalla DJ (“quei ragazzi non avevano commesso il fattaccio, su nel Bronx. Hanno dovuto combattere tutta la notte solo per salvare la pelle. Bè, ce ne dispiace. Non ci resta altro da fare che metter su una bella canzone...”). E non può essere certo un caso che siano un cantante in Southern Comfort e una disc-jockey in The Warriors ad avere una funzione di ‘commentatori’, di cantori in diretta della vicenda.
La musica che maggiormente caratterizza il film è però il Theme from the Warriors dei titoli di testa che ritorna, con qualche variazione, nel brano Baseball Furies Chase. Nella sequenza delle Furie del Baseball il brano è introdotto con un crescendo di suspense davvero magistrale: quattro dei Guerrieri escono dalla stazione della metro dove si sono appena scontrati con i poliziotti. Ai primi piani di tre di loro, evidentemente spaventati da qualcosa che ancora noi non vediamo, segue il piano medio del capo delle Furie: su questa inquadratura inizia la musica, con un'introduzione di synt ancora molto lenta. Seguono altri quattro primi piani, una panoramica a destra a inquadrare le Furie schierate lungo la piazza, altri due primi piani (il montaggio accelera, come a preparare la sequenza dell’inseguimento) e poi, in panoramica a sinistra, l’inizio della fuga dei Guerrieri, su cui immediatamente attacca il riff di synt che dà il ritmo al pezzo e scandirà tutta la corsa delle due bande. La musica accompagna tutto l’inseguimento, scende di ritmo e volume in occasione degli scontri e del dialogo tra Ajax e il capo delle Furie, sfuma sui Guerrieri che se ne vanno dopo il pestaggio (“ve l’avevo detto che erano dei rammolliti”). Il rapporto corsa/lotta, musica veloce/musica lenta, probabilmente tutto costruito in moviola, è preciso al millesimo di secondo, e la lotta (così come quella con i Punks nel gabinetto del metro, commentata dal brano The Fight) acquista un tono irreale, fiabesco, appunto ‘coreografato’, a cui potrebbero non essere estranee le suggestioni di West Side Story o di Arancia meccanica, se Hill non giurasse di non aver mai visto nessuno dei due film.
Alberto Crespi, Il cinema di Walter Hill, Coop. Ed. Nuova Grafica Cierre, Verona 1985

Che gli equilibri figurativi del cinema americano siano quindi nel pieno di una straordinaria metamorfosi, è esemplificato con insuperata visionarietà dall’incipit del film: un capolavoro di tensione ritmica e montaggio scandito dal tema musicale di Barry De Vorzon.
I membri delle singole bande vengono presentati mentre attraversano i corridoi della metropolitana per recarsi al raduno indetto da Cyrus (Roger Hill). I caratteri di ogni gruppo sono riassunti nei colori e nei motivi delle loro uniformi: segno denotativo che sul corpo di chi le indossa sembra incidere i confini del territorio, zona, quartiere di cui sono emanazione ed espressione. Non si tratta ovviamente di un’inedita combinazione tra immagini e musica, ma semmai della radicalizzazione di un’interazione semantica la cui lezione avrebbe poi fondato il linguaggio dei videoclip dai quali comunque il cinema di Hill si è sempre tenuto a debita distanza. Utilizzando tutti gli elementi a sua disposizione, Hill, lavorando esclusivamente sui colori delle singole bande, sul montaggio alternato e la musica presenta, drammaticamente, i protagonisti del suo film. Questa strategia sposta da subito l’attenzione da presunte psicologie e caratteri a un conflitto nel quale l’unico elemento che conta è il dinamismo dell’interazione di queste informazioni cromatico-sonore (senza contare che così facendo gli imperativi territoriali, di cui sono portatori i Warriors e tutti gli altri membri delle gang, entrano immediatamente in funzione come potenziali elementi di conflitto che attendono solo di essere scatenati). Non a caso ogni qual volta le labbra della DJ (Lynne Thigpen) si avvicinano al microfono della radio per dare indicazioni e informazioni sui Warriors, un nuovo brano musicale sembra quasi evocare dal nulla nuovi colori e forme che, come per incanto, si concretizzano in corpi che spuntano ai vari angoli delle fermate della metropolitana sparse per la città, pronti a dar battaglia ai Guerrieri.
Quello di Hill è chiaramente un procedimento spogliato di qualsiasi verosimiglianza psicologica. Il suo è un cinema della forma pura. La musica s’incarna in un montaggio millimetrico che della velocità e della violenza esalta i gesti del corpo e ogni tensione tra questo e l’ambiente ostile nel quale è calato. Ed è il suo essere emanazione della classicità hollywoodiana a fornire al cinema di Hill (e ai corpi che lo popolano) una densità materica che fatalmente mancherà ai suoi innumerevoli epigoni. Hill sa bene che i Warriors una volta sono stati sangue e carne di un cinema ormai destinato al crepuscolo, ma giocando con essi come simulacri e custodi di tutte le storie di cui sono stati portatori (non a caso la loro origine risiede nell’Anabasi di Senofonte) tenta l’estremo esorcismo di riportare in vita un mondo estinto. E curiosamente, rivedendo il film a distanza di anni, ciò che sorprende, come se non l’avessimo mai notato prima, “sono proprio le pause, continue, lunghissime, il senso disperato dell’attesa” che fa assomigliare il film a uno dei groove ‘bucati’ di Timbaland strutturati intorno a tensioni ritmiche implose che all’improvviso subiscono repentine accelerazioni. Lavorando in moviola con i fotogrammi come Dr. Dre, D.J. Premier o Timbaland lavorerebbero con i breakbeat, Walter Hill compone un impressionante tessuto sonoro-visivo la cui influenza si sarebbe esercitata in maniera persuasiva attraverso il successivo ventennio di cinema americano.
Giona A Nazzaro, Action! Forme di transgenere cinematografico, Le Mani, Recco 2002

Dove il montaggio ‘musicale’ raggiunge vette di virtuosismo è nei titoli di testa di The Warriors, che consideriamo fra i più belli mai girati. Il modo in cui Hill riesce a fornire tutte le informazioni necessarie all’attacco del film (il comizio di Cyrus nel Bronx, la tregua fra le bande, la caratterizzazione dei nove Guerrieri) con un montaggio giocato su ritmi parossistici, dando nel contempo l’immagine di una New York notturna, insieme fiabesca e violenta, ha dell’incredibile. La musica parte con un dolce suono di synt sulle immagini della ruota di Coney Island e del treno, tace sul breve discorso del capo dei Guerrieri, riprende sulla panoramica a destra che segue i nove che salgono sul treno. Da questo momento in poi cinque saranno i diversi materiali su cui verrà giocato il montaggio: 1) i Guerrieri sul treno, durante il viaggio (immagini mute); 2) i medesimi Guerrieri che parlano, ad uno ad uno, della serata (le uniche inquadrature con dialogo); 3) le varie stazioni della metro, riprese con carrelli/soggettive del treno, in corrispondenza delle quali compaiono i titoli come ‘ad emergere’ dal fondo della galleria; 4) le immagini delle altre bande che convergono al Bronx; 5) delle inquadrature ricorrenti, molto ravvicinate, in cui scorrono i finestrini del treno in corsa, e in occasione delle quali la musica viene coperta dal rumore del treno. Questi materiali vengono mescolati nel modo più vario. In particolare, le inquadrature della mappa di New York che lo sguardo di Rembrandt percorre da Coney al Bronx, attraverso Brooklyn e Manhattan, creano un gioco di rimandi (legati dalle dissolvenze incrociate) con le varie ‘stazioni’ che il treno percorre. Inizialmente, Hill punta molto sulle varie bande per dare il senso della coralità della situazione, nel finale si concentra invece sui dialoghi per trasmettere il senso dell’attesa e della curiosità. La musica finisce dopo la battuta di Ajax (“voglio fare una scommessa: mi gioco quello che vuoi che non ci troviamo un cane”), sull’attacco della panoramica a sinistra che introduce la folla presente al raduno. La sequenza appena descritta andrebbe cronometrata inquadratura per inquadratura, per capire come il ritmo del montaggio (di David Holden, e bisogna davvero citarlo) sia completamente studiato in funzione del ritmo musicale. Non è la velocità che conta, ma la capacità di adeguare la forza espressiva del ritmo alle necessità della comunicazione. In fondo, è la chiave di tutto il cinema di Hill: lavorare prima di tutto in funzione dello spettatore, senza però precludersi la possibilità di sperimentare, sia sul piano narrativo (e in questo senso il cinema di Hill è un vero e proprio laboratorio di miti, di topoi, di archetipi) sia su quello linguistico. In un certo senso, la scommessa di Hill sembra questa: essere sempre più veloce e raffinato restando, nel contempo, comprensibile. Del resto la struttura di base dei suoi film è spesso la scommessa contro il tempo: dobbiamo tornare a Coney Island in una notte, dobbiamo acchiappare l’assassino in 48 ore, dobbiamo spendere 30 milioni di dollari in 30 giorni. Non sarebbe affascinante scoprire che anche l’autore, all’interno del suo cinema, ha scelto di vincere in the nick of time, mettendo in gioco il proprio stile sino all’ultimo secondo disponibile?
Alberto Crespi, Il cinema di Walter Hill, Coop. Ed. Nuova Grafica Cierre, Verona 1985