Dall'antica Grecia alle strade di New York

Dall'antica Grecia alle strade di New York

Il libro di Sol Yurick non mi faceva impazzire, ma mi piacevano le premesse della storia e un particolare che trovavo eccezionale, ovvero il ragazzo che legge il fumetto sugli antichi greci. Ho pensato che il film fosse tutto lì, in quell’immagine, e che la storia avesse una forte componente fumettistica che ero determinato a usare come punto di partenza. Il taglio sociologico, alla Il seme della violenza e affini, era già stato usato da chiunque avesse girato qualcosa su una gang; trovavo interessante, invece, l’idea di non guardare a una banda in termini di problema sociale, ma sotto un altro punto di vista, quello del loro eroismo inteso nell’accezione classica del termine. Non avevo mai visto un film di quel tipo, e sarebbe stata una bella sfida. Inizialmente volevo farlo con un cast tutto composto di neri, ma lo Studio me lo impedì. La cosa all’epoca mi fece andare su tutte le furie; a posteriori, in effetti, credo che questo cast così inspiegabilmente variegato, preso ‘un po’ qua e un po’ là’, sia servito a sottolineare ulteriormente la dimensione fumettistica. Col senno di poi, quella parte in qualche modo mi piace, come mi piaceva l’idea di raccontare una vicenda tratta dalla storia greca, in cui praticamente ogni cosa che accade si basa su ciò che accadde a Senofonte durante la sua marcia.
Walter Hill, in Walter Hill, a cura di Giulia D’Agnolo Vallan, Museo Nazionale del Cinema – Fondazione Maria Adriana Prolo, Torino 2005

The Warriors ha avuto in America un’accoglienza estremamente esagitata, e la stampa, certa stampa, ha avuto delle reazioni semplicemente isteriche. Credo che questo non c’entri nulla con il film. […] Non mi piace molto parlare di queste cose, ma posso solo dirti che io faccio film su uomini duri in situazioni pericolose, e in questi casi la violenza è una necessità, ma mai un modo di vivere. Nei miei film non c’è mai compiacimento nelle scene di violenza. […] bisogna considerare che The Warriors è una parafrasi molto puntuale dell’Anabasi di Senofonte, alla quale ho voluto essere molto fedele nello spirito e nella struttura complessiva, anche se ci sono parecchi cambiamenti nelle singole sequenze. Il capo dei Guerrieri muore all’inizio del film, perché così accade in Senofonte. Anche la sequenza delle Lizards, le ragazze che adescano alcuni dei Guerrieri e tentano di ucciderli (sequenza, nota bene, che secondo alcuni critici americani era la più bella invenzione del film), è in Senofonte, quasi identica. Idem per il finale. Molti mi dicono che avrei dovuto evitare quel finale trionfale, e la mia risposta è che senza quel finale non avrei potuto fare il film: è il finale di Senofonte, con i soldati greci che arrivano al mare e gridano “thalassa, thalassa!”. Non avrei mai potuto concludere il film in maniera diversa.
Walter Hill, intervista a cura di Alberto Crespi, “Segnocinema”, n. 2, dicembre 1981

Ho letto L’Anabasi appena iniziato il progetto. Non voglio dire che il film sia un lavoro accademico, per carità; è solo un tentativo di dar vita a un fumetto. Si basa sull’Anabasi greca, ambientata in un mondo futuristico, quasi fantascientifico. La fantascienza può significare molte cose diverse per diverse persone, e questo fu uno dei problemi con lo Studio. Io sostenevo che doveva essere chiaro che si trattava di un film di fantascienza, ma le risposte erano: “Di che parli? Non ci sono navicelle spaziali”. Molta gente prende la fantascienza piuttosto alla lettera, mentre quelli che in effetti fanno fantascienza sono molto meno intransigenti, perché ne hanno ovviamente una visione più matura.
Quando si dà vita a una fantasia c’è spesso la propensione ad astrarla del tutto. Ho pensato che la sfida sarebbe stata renderla realistica e fantastica allo stesso tempo; volevo combinare quei due elementi, e farne, come ho detto, un fumetto dark. Niente a che vedere con Disney: volevo che fosse contemporaneamente tetro e fantastico. Ma doveva emanare anche un certo realismo. In altre parole, è reale per i personaggi. Il pubblico avrebbe dovuto capire ed essere affascinato dalla storia e dai personaggi, ma allo stesso tempo credere che ciò che accade sia reale per i personaggi nonostante ci si trovi in una dimensione di fantasia. Quella era la strategia: la combinazione di più elementi. Non credo che avrebbe dovuto essere più astratto di così, almeno nei miei piani, e nemmeno ritengo dovesse esserlo di meno. […] Il romanzo è socialmente realistico, un’opera di sinistra. Al tipo che l’ha scritto il film non è piaciuto. Anzi, credo che l’intera faccenda l’abbia anche fatto un po’ arrabbiare. Ma sai com’è quando si adatta un film... Mi dispiace.
Walter Hill, in Walter Hill, a cura di Giulia D’Agnolo Vallan, Museo Nazionale del Cinema – Fondazione Maria Adriana Prolo, Torino 2005.

Se il resoconto di Senofonte è narrativamente assai lineare, quasi geometrico – “da qui essi si aprirono la strada combattendo fino a là” – altrettanto lo è il film di Hill. Come i due film precedenti, The Warriors è strutturato come una serie di violenti confronti presentati in modo stranamente formale, stilizzato. Quel che avrebbe potuto essere un anarchico susseguirsi di mischie tra le cadenti rovine di una città collassata (un’immagine non inverosimile della New York di fine anni Settanta) diventa per Hill un’impresa altamente formale, in cui l’azione è solo lievemente meno stilizzata (anche se assai più letale) delle risse coreografate di Jerome Robbins in West Side Story (da quel che si dice, tra i membri delle gang che saltano e piroettano c’era più di un ballerino professionista). Ma per quanto possa essere fantastica l’azione in primo piano, lo sfondo preserva un realismo rorido e cupo, un contrasto che sottolinea la differenza tra il regno eroico dell’immaginazione dei protagonisti e la fosca realtà delle loro vite. “Abbiamo combattuto tutta la notte per ritornare qui?”, chiede un altro membro della gang, mentre l’aurora dalle rosee dita sorge sui patetici, arrugginiti resti del parco di divertimenti di Coney Island, un tempo leggendario.
Il rifiuto del realismo, nel film, è perfettamente rappresentato dai bizzarri costumi e dalle fantasiose identità delle gang – un gruppo di zombi con occhi infossati e completi da baseball che si definiscono i Baseball Furies, una banda chiamata The Punks che scivola per le stazioni della metropolitana su pattini a rotelle, vestiti, inesplicabilmente, con salopette da agricoltori. […] Si chiameranno anche gang, ma si comportano come tribù, con una cultura autonoma e tutta loro, seppure in miniatura.
Può essere uno dei motivi per cui The Warriors è diventato un cult, persino un testo di riferimento, nel mondo del rap e dell’hip-hop: ai giovani non più in grado di trovar posto nell’America di George Bush, il film offre un modello alternativo di coesione sociale, più grande di una famiglia ma più piccolo di uno stato. Il fiero individualismo dei primi due film di Hill si è evoluto in questo: un non meno fiero, non meno orgoglioso senso di identità di gruppo. “Voi Guerrieri ce la sapete fare”, dice il membro di un’altra gang verso la fine del film, echeggiando una classica battuta di Howard Hawks: “Ce la sapete proprio fare”.
Dave Kehr, in Walter Hill, a cura di Giulia D’Agnolo Vallan, Museo Nazionale del Cinema – Fondazione Maria Adriana Prolo, Torino 2005.

Ciò che colpisce di The Warriors è al tempo stesso la sua classicità e la sua modernità. Classicità e modernità che sono fuori da ogni categoria temporale, perché l’opera di Hill è prima di tutto ‘estranea al Tempo’. Quindi gli aggettivi ‘classico’ e ‘moderno’ non sono rispettivamente sinonimi di ‘antico’ e ‘nuovo’. Tutt’altro. […]
Horror, western, musical, film sulle bande giovanili, thriller urbano, The Warriors è un’autentica miscela esplosiva di cinema puro. Opera classicistica anche a livello formale, con movimenti di macchina ridotti al minimo che danno all’immagine una straordinaria essenzialità e soluzioni di montaggio che fanno uso di espedienti ormai caduti in disuso come la tendina. Il film si mantiene continuamente ‘dentro la tradizione’ e ‘fuori dalla tradizione’. Forse sta in questo non solo la sua modernità ma soprattutto un’indubbia funzione anticipatrice che ha condizionato opere successive ma ha anche formato, più o meno dichiaratamente, il linguaggio di molti cineasti futuri.
Simone Emiliani, Mauro Gervasini, Walter Hill, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2001.