Antologia critica

Antologia critica

L’azione fisica è così stilizzata che ha un sapore da cartone animato, come Yojimbo e i migliori film di kung-fu. I combattimenti sono viscerali in modo esilarante e talmente contrappuntistici, alla maniera delle arti marziali-danze-orientali, da non suscitare pensieri dolorosi o cruenti. Il regista, Walter Hill, è un fantasista, di una specie molto violenta e tuttavia astratta; ogni battaglia è diversa – dal punto di vista spaziale e cinetico – e supera quella che la precede. Illuminato con uno stile diverso, questo film avrebbe potuto non essere altro che pulp romantico: è il colore in sé ad essere violento. Il tono violaceo del brivido da pochi soldi è profondo e intenso quanto quello usato dai direttori di fotografia quando il Technicolor era ancora il Technicolor, e irradia un caldo bagliore contro l’oscurità. Lavorando su una storia ritualistica, in collaborazione con il direttore di fotografia Andrew Laszlo […], Hill mantiene una grande intensità poetica per tutta la durata del film. […] Hill ha il dono di saper tradurre lo spettacolo in azione. La sua messa in scena del raduno nel parco e della trasformazione di quest’ultimo in una sommossa, con le gang che sciamano in tutte le direzioni, ricorda le scene babilonesi di Intolerance di D.W. Griffith; anche il nome che dà al capo dei Riffs, Cyrus (che non è lo stesso nome usato da Yurick nel libro, ma risale a Senofonte), potrebbe essere un omaggio a Ciro il Grande di Griffith, che conquistò Babilonia. I combattimenti coreografici di Hill hanno certamente più di un debito nei confronti di Peckinpah, per conto del quale scrisse The Getaway, alcuni dei corpi che si schiantano e cadono sembrano quasi variazioni sulle rapide sequenze di combattimento a bordo della fantasmatica flotta in The Killer Elite di Peckinpah. Walter Hill è uno dei rari registi americani che funzionano meglio in scene astratte, stilizzate, che non in quelle parlate; in The Warriors esiste quasi una frattura formale tra le due. Nelle scene d’azione la macchina da presa non si muove così da includere quello che dicono i personaggi; al contrario, quando qualcuno parla le parole vengono tagliate – i dialoghi fanno l’effetto di inserti.
Pauline Kael, “The New Yorker”, 3 maggio 1979

Hill usa metropolitane, jukebox, costumi spettacolari e inquietanti e strade deserte per creare uno stile visivo essenziale eppure stravagante, un piccolo mondo oscuro in cui tutto appare curiosamente nuovo. Grazie all’uso frequente di tendine e ralenti, non si rischia mai di dimenticare che al timone c'è qualcuno che sa il fatto suo. Hill, che è stato sceneggiatore prima di dirigere il suo film d’esordio, Hard Times, con Charles Bronson, può diventare esasperante nella sua fedeltà alle convenzioni di genere – lo scorso anno, si è impegnato così tanto per fare un film noir con The Driver da aver inventato il film grigio. Questa volta, Hill non ha affatto rinunciato alle sue pretese, ma è molto più attento alle esigenze della storia, tratta da un romanzo di Sol Yurick. Se non fosse per tutte quelle pause significative, The Warriors potrebbe sembrare un film d'avventura rapido e asciutto, una sorta di versione futuristica dello schema cowboy contro indiani.
Janet Maslin, “The New York Times”, 10 febbraio 1979

Uscito nel febbraio del 1979, The Warriors è la terza regia di Walter Hill e il suo primo concreto successo commerciale (anche se il vero successo stile ‘blockbuster hollywoodiano’ gli sarebbe arrivato solo tre mesi dopo con Alien, il film con casa-stregata-nello-spazio di cui Hill è co-sceneggiatore e co-produttore). Forse non è un caso che The Warriors sia anche il film che rompe con lo spirito minimalista, d’influenza europea, dei due primi lavori di Hill, l’asciutto Hard Times (1975) e il persino più essenziale The Driver (1978). Deviando dall’asprezza bressoniana, The Warriors si sposta in territorio gotico e manierista, sebbene la sua fonte sia in realtà classica – l’Anabasi di Senofonte, cronaca in prosa della ritirata di diecimila mercenari greci attraverso l’ostile terra di Persia, rielaborata nel romanzo di Sol Yurick e ambientata in una New York notturna e misteriosamente sottopopolata. Nelle mani di Hill, la città risulta un patchwork di piccoli feudi, ognuno dominato da un feroce clan locale – un mondo più medievale che moderno.
I personaggi di Hill, naturalmente, non sono mitici guerrieri, ma membri di una gang originaria delle profondità di Brooklyn (Coney Island, dove la città incontra il mare), che sono stati attirati sulle pericolose sommità del Bronx dall’appello di un leader carismatico, Cyrus (Koger Hill), per dar vita a un’alleanza tra le gang cittadine. Cyrus, come Ciro, il ribelle suo omonimo dell’Anabasi, vuole soppiantare il vecchio ordine corrotto con un nuovo sistema che metterà il potere nelle mani delle giovani gang – che, come dice nel suo discorso, superano in numero le forze dell’ordine. Questi piani grandiosi vanno in frantumi quando Cyrus viene ucciso da Luther (David Patrick Kelly, in una performance felicemente bizzarra), lo sghignazzante, squilibrato leader di una gang minore che poi ammetterà che l’unica ragione del suo gesto era: “Mi piace fare quel genere di cose”.
Dave Kehr, in Walter Hill, a cura di Giulia D’Agnolo Vallan, Museo Nazionale del Cinema – Fondazione Maria Adriana Prolo, Torino 2005

Il viaggio funge da struttura per inanellare una serie di scene d’azione vivide e ben montate. Ognuna rappresenta l’incontro con una gang di cui i Warriors invadono il territorio sulla via del ritorno a casa, e ognuna è una sequenza ordinata e autonoma, separabile da tutte le altre. In una certa misura, tutti i film di Hill sono strutturati in questo modo, ma nessuno lo è in maniera più rigorosa di The Warriors: la frammentazione e la divisione sono i temi stessi del film, per questo Hill divide il racconto in frammenti. E la struttura episodica ha anche l'effetto di rafforzare l’immagine dei Warriors come gruppo con una vera e propria identità – sono infatti le uniche vere costanti visive e narrative nelle varie scene che compongono il film. Hill, dopo tutto, è interessato all'unità dei Warriors quanto alla frammentazione della città, e proprio la coesione della banda è ciò che rende The Warriors il suo film più ottimista. Visivamente, i Warriors sono meno connotati delle altre gang: non appartengono a un unico gruppo etnico, non hanno un'uniforme, non sono una gang grande e potente: ciò che li lega è l'amicizia, la reciproca lealtà e Coney Island, le cui strade sono davvero la loro ‘casa’ dopo il viaggio notturno dal Bronx.
Terrence Rafferty, “Film Quarterly”, vol. 36, n. 1, autunno 1982

Non posso fare a meno di affiancare e di paragonare The Warriors di Walter Hill a Un mercoledì da leoni di John Milius. Ambedue i film sono fondati su segni comuni, su un codice iconico ‘evidente’, riconducibile a quella che è l'eredità, le tracce, il calco della tradizione classica hollywoodiana. […]
Il cinema di Walter Hill, pur nutrendo e riconoscendo le proprie innegabili radici cinematografiche, riesce ad espandersi verso spazi che sono il meraviglioso riflesso della modernità e dell’invenzione. Un’unità di tempo: la durata di una notte. Un’unità di luogo: l'immensa rete sotterranea della metropolitana di New York.
Il film percorre senza incertezze quest'unità spazio-temporale, il cinema stesso si rigenera nel buio del tunnel, nella penombra degli ingressi, nelle stazioni deserte, come nelle luci folgoranti di treni psichedelici.
D'altra parte, l'unità conquistata e subito perduta, rilancia ancora l'eterna lotta fra il ‘bene’ e il ‘male’, fra i ‘buoni’ e i ‘cattivi’, fra la ragione come misura di ordine morale e la non-ragione come follia imprevedibile e madre di sperpero vitale.
Quest'ideologia che governa il film è una codificazione di ordine morale di tipo classico. La stessa unità di spazio-tempo concentra il film in una dimensione diegetica che connota gli spazi-tempi, i percorsi e i viaggi di tutto un clima hollywoodiano.
[…] Gli stessi protagonisti del film, i ‘guerrieri’, sono l’incarnazione della ragione, della morale, della lealtà (una morale aderente ai tempi, il cui colore non può più certo avere i segni di quella patriarcale di un Ford o cattolica di un Hitchcock, ma che tuttavia mantiene di queste, forza e rigore, assumendo queste in un equivalente segno iconico) intese come valore che vuole e deve sopravvivere. […]
Per raggiungere veramente questo film di Walter Hill non si può che immergersi, come i suoi ‘guerrieri’ ma soprattutto con essi, nel labirinto della notte e delle luci abbaglianti, là dove l'acquisito e il certo vengono contaminati dal nascente, da una germinazione cinematografica che il regista ha voluto circondata dalla ragione per non vedersela, forse, esplodere in viso. […]
La notte del cinema americano ha trovato in Hill il regista capace di rifletterla lavorando su questi lampi di luce, attraversando archi policromatici e intermittenze accecanti che sono l’essenza del suo film.
Michelangelo Buffa, “Filmcritica”, n. 299, ottobre 1979

Con The Warriors, il cinema d’azione americano entra in una fase di incandescenza formale che si situa a ridosso degli ultimi barlumi del cinema classico americano (e in particolare della tradizione western) e di un’ansia di rinnovamento che si coagulerà in film aperti nei cui percorsi narrativi Walter Hill significherà l’ultima forma di esilio possibile dalla propria tradizione.
Regista dall’apprendistato altisonante (sceneggiatore per Sam Peckinpah – Getaway –, John Huston – L’agente speciale Mackintosh), assistente regista per Norman Jewison (Il caso Thomas Crown), per Peter Yates (il seminale Bullitt) e persino Woody Allen (Prendi i soldi e scappa), produttore e sceneggiatore (non accreditato) di Alien, Walter Hill si pone emblematicamente al crocevia del cinema americano dove s’intrecciano tradizione e modernità senza apparente soluzione di continuità. […] Nel 1979, dirigendo e producendo contemporaneamente Alien e The Warriors, Hill si pone ai due estremi della rivoluzione formale che investirà in pieno il cinema d’azione americano. Se The Warriors, innestandosi sugli ultimi residui dell’estetica blaxploitation (basta osservare come sono presentati i membri della gang afroamericana dei Gramercy Riffs), radicalizza l’idea di un cinema urbano, notturno, che discende direttamente dalla tradizione del noir, ciò nonostante condivide con il coevo Alien un’esacerbazione cinetica che di lì a poco avrebbe dato il via alla generazione dei cosiddetti dynamovie.
Film polistratificato, ibridazione tra il noir urbano, la blaxploitation e il classico juvenile delinquency movie, The Warriors distilla da ognuno di questi elementi il proprio precipitato iconico (un’anticipazione della futura icasticità ipertestuale dell’action movie) organizzandoli in una danza funky che si situa esattamente tra West Side Story e Foxy Brown. Della blaxploitation il film possiede ovviamente l’urgenza (e la riconoscibilità) di una seduzione segnica (la coolness dei protagonisti) che il precedente film di Hill, Driver l’imprendibile, aveva ridotto a un’opacità essenziale e discreta, mentre del musical conserva la stilizzazione della violenza e un’insuperata eleganza della messinscena che solo John Woo (e Tsui Hark) hanno osato sfidare (e rinnovare) con successo.
Giona A Nazzaro, Action! Forme di transgenere cinematografico, Le Mani, Recco 2000

Il cuore del cinema di Hill è tutto contenuto nella scia malinconica che lo separa da subito, fin dal trittico Hard Times, The Driver, The Warriors, dall’onda neo e post hollywoodiana.
Sorprendentemente lontano questo primo Hill dalla sgrammaticatura ‘graffiata’ degli esordi di De Palma, di Altman, di Scorsese, o dal visivo diffuso dei Lucas-Coppola-Spielberg, ma anche dallo slancio epico e pittorico di Milius... Certo, non meno lontano da Peckinpah allora, ma è l’intransigenza della memoria a unirli, oltre che la sceneggiatura di The Getaway […]. Forse più vicino a un Arthur Penn (quello di Night Moves) per capacità di sondare l’astrazione dell’ombra che fluttua nella notte, ma quanto Penn è più romanticamente concettuale e contaminato, tanto Hill ricerca nel ritmo il vuoto del senso.
Nessuno zoom, nessuna scorticatura: il cinema di Hill è da subito un cono di luce siderale, che tuttavia fissa le sue idee con esattezza e passione e le filma con un’ingenuità saggia e inflessibile. Non c’è pugile d’asfalto e di cantine urbane, non ci sono hangar di lamiera e sangue, non c’è pilota curvo sulla strada, non c’è guerriero della notte, che non trasformi la propria indomita corsa in un fermo immagine opaco, sospeso, che sa già di addio (a questi livelli e in questa direzione in quegli anni si ricorda solo l’esordio di Cimino con Una calibro 20 per lo specialista). Un addio che tuttavia non smarrisce mai il passo tagliente, fisico, violento dell’azione (in questo Hill ha un unico maestro in Aldrich, e bisognerà prima o poi studiare l’influenza di film come L'imperatore del nord, da Hard Times su su fino al Friedkin di The Hunted – La preda).
[…] Con Hill si prolunga la storia parallela di tutto il cinema Usa, quella dei rivoluzionari tout court e quella dei grandi artigiani sabotatori. Da un lato Corman, dall’altro Delmer Daves (per dirne uno, ma non a caso, visto l’omaggio che Hill gli farà con Johnny il bello e forse già con Hard Times, dove Charles Bronson ha la stessa asciuttezza del suo esordio con Daves in Drum Beat). Fire passage e dark passage: il primo brucia, ma le sue ceneri si riattizzano ovunque; il secondo è una soggettiva cieca che pre-vede l’oscurità, il fallimento, e torna cenere (Hill da più parti è ritenuto un semplice shooter...).
L’unico motivo allora per cui The Warriors mantiene un’aura cult e generazionale riguarda la sua capacità di sintetizzare in un unico tunnel di luce questa doppia corsia, precisando ciò che già balenava nell’immagine amara e malinconica, eppure così genialmente astratta, di Hard Times e The Driver: un flusso continuo che però cerca in se stesso la traccia irregolare, la durezza dello spigolo, il fantasma che slitta. Una lentezza liquida tesa sempre al piano sequenza. Un respiro silenzioso che grida memoria e ricordo. Una rabbia e una severità senza l’iperrealismo elettrico di un Siegel, ma con il fondo molle e scivoloso della notte, e con il medesimo senso del nero e della morte. Un cuore d’ombra.
Lorenzo Esposito, in Walter Hill, a cura di Giulia D’Agnolo Vallan, Museo Nazionale del Cinema – Fondazione Maria Adriana Prolo, Torino 2005.