Nella città l'inferno

Nella città l'inferno

La sapevo lunga sulle gang di quella città, forse perché a New York ci sono cresciuto. Sapevo che esistevano, e capii che Walter ne stava rendendo una versione ‘estrema’, come puoi notare dall’abbigliamento che scelse per loro. Il costumista arrivava e chiedeva: “Che ne dici di questo?”. E Walter: “Sì, può andare”. Ma vedere un abito o un pezzo di tessuto non rende l’idea: è quando vedi dieci persone vestite nello stesso modo che resti a bocca aperta. È così vivace e pieno di colore. Reale e irreale allo stesso tempo.
Le riprese non crearono molte difficoltà. La gente nelle strade di New York mi sembra addirittura più tesa oggi di allora; forse dipende dall’11 settembre. All’epoca invece si stava piuttosto bene, la polizia ci dava una mano, e potevamo circolare in zone in cui, quand’eri ragazzo, i tuoi genitori ti vietavano di andare: “Qualsiasi cosa succeda, non metterci mai piede”. Invece, all’improvviso, eri proprio in quei luoghi, ma ti trovavi insieme ad altre centoventicinque persone, un bel mucchio di camion e la polizia... Quando fai un film è un po’ come essere in una realtà parallela: vai in posti in cui normalmente non andresti mai, o magari ti ritrovi a camminare in una strada dove di tua iniziativa non ti saresti mai avventurato, e ti sembra la cosa più naturale del mondo.
Neil Canton, in Walter Hill, a cura di Giulia D’Agnolo Vallan, Museo Nazionale del Cinema – Fondazione Maria Adriana Prolo, Torino 2005

I guerrieri corrono attraverso un parco immerso nella più completa oscurità, se si eccettua il verde degli alberi e dell’erba. Quando scendono di corsa in una stazione della metropolitana, attraverso il territorio di una gang chiamata Gli Orfani, le strade sembrano ricoperte di umido velluto nero-verde (dopo circa cinque minuti dal suo inizio, ti accorgi che il film possiede quel carattere folklorico a cui mirava The Wiz (I’m Magic): la città sordida trasformata in città magica, la paura urbana trasformata in mito). […]
Con Walter Hill i film tornano al loro ruolo socialmente conscio di esprimere ‘la rabbia degli spossessati’. Ma questo film non è un melodramma; è uno spettacolo di fantasia che ha trovato il proprio stile nel gusto degli spossessati – nelle insegne al neon, nei graffiti e nel brivido della pacchianeria. The Warriors penetra nello spirito del tribalismo maschile metropolitano e nei sentimenti di ragazzini che sono convinti di essere i proprietari delle strade perché non permettono ad altri ragazzini di avvicinarvisi. In questa visione esistono solo i poliziotti e i ragazzini, e il peggior crimine è essere codardi. La Paramount ha fatto uscire il film in 670 cinema, senza proiezioni anticipate per la stampa, promuovendolo come un exploitation film attraverso una martellante campagna pubblicitaria in TV. La supposizione, probabilmente, è stata che il pubblico di questo film non legge le recensioni. Ma la gente informata non deve lasciarselo sfuggire. The Warriors è il film di un cineasta autentico: ha in termini visivi lo stesso tipo d’impatto che aveva Rock Around the Clock sui titoli del Seme della violenza. È come se The Warriors fosse rock visivo.
Nelle scene iniziali un treno della metropolitana illuminato – mostro dai mille occhi – illustra il sistema nervoso del film. Le stazioni deserte della metropolitana sono luoghi misteriosi, simili ad antri, colmi di terrore, in cui i treni vanno e vengono con rombo di tuono. L’atmosfera del film evoca le stesse sensazioni della Vienna decadente e notturna del Terzo uomo, ma in toni violacei. The Warriors ha un’intensità magnetica. Si svolge dalla notte all’alba, e gran parte dell’azione ha i colori vivaci e brillanti dei pennarelli fluorescenti sullo sfondo dello spaventoso buio newyorkese; le figure si stagliano come un juke-box in un bar scuro. Per tutta la sua durata, questo film barocco possiede una brillantezza psichedelica, che sboccia nella notte. La storia, che ha una struttura classica e ricorda l’Odissea, è in realtà l’Anabasi di Senofonte rivista e corretta in termini moderni e metropolitani, e compressa in modo tale da non avere mai cedimenti, come una roccia.
Pauline Kael, “The New Yorker”, 3 maggio 1979

Hill rispetta, soprattutto a livello di scrittura (la sceneggiatura è stata scritta a quattro mani dal regista e da David Shaber), le tre unità della tragedia greca: luogo, tempo, azione. Il luogo è strettamente delimitato dalle barriere urbanistiche di New York. La ruota del luna park che apre il film e che ricompare, all’alba, in una delle ultime scene, è l’oggetto-segno di un punto di partenza/ritorno, di una circolarità narrativa ellissoidale. È quello il vero nucleo da cui sembrano prendere origine tutte le arterie che conducono nelle varie zone della metropoli. Una New York spogliata anche dei suoi tratti architettonici distintivi, assimilata dalla fotografia notturna di Laszlo – che accentua ancora di più i contorni chiaroscurali di oggetti e corpi (gli stessi Warriors sembrano essere disegnati con tratti quasi scultorei sia nei lineamenti fisici sia nelle espressioni del volto) – a una qualsiasi città/mito del passato. Della città tornano luoghi assolutamente comuni, ordinari: il parco, il cimitero e soprattutto lo spazio in cui si svolge l’incontro di tutte le bande della città identificabile anche con un’arena della Grecia classica o di Roma antica, in cui il raduno diventa rappresentazione/spettacolo e dove viene commesso il sacrificio del messia-Cyrus. È invece nelle sequenze della metropolitana, nelle zone che nascondono la città, che pulsa il cuore di New York. Proprio in quello spazio underground, sono nominati obiettivi da raggiungere (il ritorno dei Warriors a Coney Island), vengono rappresentati visivamente i percorsi (la cartina all’interno del vagone della metropolitana) ed è lì che avvengono alcuni scontri tra i Warriors, le bande rivali e i poliziotti.
Simone Emiliani, Mauro Gervasini, Walter Hill, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2001

Per la scena del conclave delle gang, su nel Bronx, c’erano un sacco di ragazzi, qualcuno arrivò armato (la polizia confiscò alcune armi). Quello sì che fu un momento pericoloso, perché se la situazione fosse sfuggita di mano... Dopo lo sparo, nel film, c’è tutto quel fuggi fuggi, e pensai che sarebbe potuto succedere davvero qualcosa di brutto, con tutti quei ragazzi che si scontravano correndo: bastava un’impennata di testosterone, e magari avrebbero cominciato a spintonarsi. D’altronde appartenevano a gang rivali. Insomma, c’era la sensazione diffusa che potesse sfuggire tutto di mano, cosa che per fortuna non accadde, anche se ho il sospetto che ci siamo andati proprio vicino. Guardando quella scena, ti accorgi che molti erano ragazzi normali, membri di gang, non attori. Diramarono la notizia, e i ragazzi si fecero avanti. Non so cosa si aspettassero. Quelli del casting girarono per le scuole e i quartieri e scritturarono le facce che ritennero più adatte; quelli scelti a loro volta ne parlarono con gli amici, che ne parlarono ad altri amici, e il risultato fu che ci trovammo con parecchi ragazzi. Erano vestiti con ‘divise’ differenti tra loro: appartenevano davvero a delle gang. In un certo quartiere, i nostri Warriors dovettero arrivare vestiti normalmente, e indossare gli abiti di scena solo sul set, perché eravamo nel territorio di una banda. Ricordo che una volta eravamo nell’ascensore del vecchio Gulf & Western, stavamo andando a visionare i giornalieri, e la guardia del corpo entrò nell’ascensore con Frank e Walter: “Oddio, che strano, la guardia del corpo sale con noi. Che succede?”. E lui: “Vorrei solo dare un’occhiata ai giornalieri”. Ci sembrò strano, ma se desiderava vedere il girato, nessun problema. La sera stessa però venne con noi a Riverside Park, e dovunque andassimo c’era anche lui. Alla fine scoprimmo che c’erano state delle minacce, o forse erano girate solo voci poco rassicuranti; insomma, c’era il timore che capitasse qualcosa di spiacevole. Per questo ci era stato assegnato quell’uomo. E tutto andò come se niente fosse.
Neil Canton, in Walter Hill, a cura di Giulia D’Agnolo Vallan, Museo Nazionale del Cinema – Fondazione Maria Adriana Prolo, Torino 2005

“Vivere pericolosamente”: il motto dannunziano pare descrivere esattamente il comportamento delle ‘mute’ di The Warriors, di queste piccole orde metropolitane impegnate nel ‘gioco della guerra’; la loro ragione etica – dalla quale si sviluppa, come è proprio d’ogni comunità civile che non sia ancora massa indistinta, un complesso regolamento d’onore. Ma, se in D’Annunzio il ‘motto’ è pur sempre sintomo d’una insoddisfazione tipicamente romantica (e per ciò stesso assolutamente non tragica), nei ‘guerrieri’ è la semplice condizione dell’esistenza, una constatazione oggettiva. Solo logicamente possiamo inferire, per ciascuno di essi, le ragioni della loro adesione all’orda e al suo spirito; ma nel film questa scelta non esiste. Esiste, invece, il semplice meccanismo dei livelli. Come nella tipica Metropolis fantascientifica i livelli sociali si codificano in livelli urbanistici reali e rigorosamente non comunicanti, così è nella New York di Hill. Giustamente, nessuna connotazione morale possiede – né da un punto di vista né dall’altro – l’incontro in metropolitana tra i Warriors braccati e i quattro della buona società reduci da una festa. Quell’incontro è solo frutto di un errore nella costruzione della città, e deve essere subito interrotto, senza esiti violenti: è solo l’incontro, nei sotterranei della città-foresta, d’un’orda primitiva con un gruppo di elfi.
Ciò che, al tempo del primo King Kong, poteva essere una analogia – il rapporto città/foresta –, o al massimo simbolo culturale, in Walter Hill è la semplice realtà. La città è la foresta. In questo senso, The Warriors realizza la stessa idea, semplice e felice, di Capricorn One: costruire un racconto di fantascienza datato ieri. La città/foresta, della quale le ‘mute’ si contendono il possesso, è percorsa da Enti. Come definirli altrimenti? La metropolitana, i poliziotti, le strade, esistono; esistono come animali o cose potevano esistere per l’uomo del paleolitico: senza ragione alcuna, se non trascendente. La metropolitana viaggia senza che si sappia perché; la si usa, ma non si sa dove passi mentre viaggia; scarica e carica in luoghi che non sono congiunti da una realtà palpabile, ma solo dalle strisce colorate delle piantine sui vagoni, che i ‘guerrieri’ si sforzano di decifrare. I poliziotti sono belve, il cui pericolo sovrasta tutte le orde e le unifica in un’unica necessità di difesa. La foresta è il punto d’arrivo d’ogni mito virile; il modo così limpido ed evident, con cui Hill giunge all’equazione città=foresta, mostra il carattere “genuino” (per dirla con una parola di Furio Jesi) del suo mito: la sua, almeno fino a The Warriors, è dedizione autentica alla figura dell’eroe così come esso può manifestarsi nella città contemporanea; non un’operazione commerciale o una dubbia contaminazione ideologica.
Diego Cassani, “Cinema e Cinema”, n. 27-28, aprile/settembre 1981