Natural born star: Jackie Coogan e gli altri

Jackie è il tipo perfetto del 'beniamino'. Chi lo vede, prova interesse per la sua vita privata. Lo invidia ai genitori, agli amici, alla casa cinematografica. Quanto a me, vorrei essere un monello e giocarmi con Jackie Coogan bottoni di stagno e di corno nelle cunette della strada. Perfino signori compassati pare abbiano provato simili desideri, pur senza manifestarli apertamente.
Jackie è l'unico bambino prodigio immune dalla lieve, ridicola tristezza di questo mestiere. Jackie, infatti, non è un bambino prodigio ammaestrato. Non è neppure un attore - nel senso che reciti una 'parte'. [...] Non è un bambino prodigio, è un prodigio. Che cosa ne sarà di quei bambini, lo sappiamo. Che cosa ne sarà di un prodigio, a nessuno è dato saperlo.

(Joseph Roth, "Frankfurter Zeitung", 19 aprile 1924; tr. it. in L'avventuriera di Montecarlo. Scritti sul cinema (1919-1935), Adelphi, Milano 2015)




Al cinema il bambino ha lo stesso fascino della natura spiata, così come accade con gli animali. Non recita, vive. [...] È un dato di fatto molto evidente - anche se forse non potrò spiegarlo a fondo - che i bambini al cinema giocano un ruolo molto più importante che a teatro. [...] A teatro non si sono mai avuti attori-bambini che fossero artisti così grandi e completi come ad esempio il piccolo Jackie Coogan. [...]
Il mondo del cinema è infatti più infantile. La poesia delle piccole cose, che è la sostanza più autentica del buon cinema, è più visibile dalla prospettiva ravvicinata di piccoli uomini. I bambini conoscono gli angoli segreti della stanza meglio degli adulti, perché possono ancora strisciare sotto il tavolo o il divano. Conoscono meglio i piccoli momenti della vita, perché hanno ancora il tempo per soffermarvisi. I bambini vedono il mondo in primo piano. Gli adulti invece, che inseguono in tutta fretta mete lontane, sorvolano sull'intimità delle piccole esperienze. Le persone che sanno già quello che vogliono, il più delle volte sanno solo questo e nient'altro. Solo i bambini, nei loro giochi, si soffermano sui particolari riflettendo su di essi. Per questo motivo il bambino risulta più a suo agio nell'atmosfera del cinema che non sul palcoscenico del teatro. È proprio quest'atmosfera infantile del cinema a far sì che gli americani possano esprimervisi così bene. Proprio per questo i film americani contengono così spesso una poesia infantile cui noi vecchi europei non potremmo mai dar vita. È la poesia infantile di Mark Twain, che si basa sull'eguaglianza tra bambini e adulti. È la poesia dello splendido film Il monello, in cui Chaplin e Jackie Coogan mettono in scena l'amicizia fra un bambino e un Vagabondo.

(Béla Balázs, L'uomo visibile,1924, Lindau, Torino 2008)




I divi sono un elemento fondamentale del cinema come oggi lo conosciamo. Ma nei primi quindici anni della sua storia, quando il cinema fece il suo trionfale ingresso nei ranghi dell'intrattenimento e subito li conquistò, lo fece senza divi, che allora non esistevano. Le donne, gli uomini, i bambini dello schermo non ebbero nome fino al 1908-1909, quando attori teatrali e famose danzatrici cominciarono ad apparire nelle produzioni Film d'Art o Pathé Frères e le serie comiche divennero successi globali. I creatori di queste serie, André Deed (Cretinetti) e Max Linder, sono stati senza dubbio le prime vere star del cinema.
Se cerchiamo qualcosa che si avvicini all'idea di divo prima di Cretinetti e Max, troviamo tre categorie di, chiamiamoli così, divi 'naturali': a) le celebrities dell'epoca (cantanti, danzatrici, Sarah Bernhardt, certi uomini politici e il Papa); b) poliziotti e pompieri; c) bambini, neonati e cani. Interessante notare come cani, neonati e poliziotti figurino spesso insieme, come una troupe della commedia dell'arte.
Bambini e bebè sono una gioia per gli occhi, e costituiscono la principale attrazione di numerosi primissimi film non-fiction, da Repas de bébé (1895) a Concorso di bellezza tra i bambini di Torino (1909). Nella fiction drammatica delle origini, il neonato viene di solito smarrito o rapito (Rescued by Rover, film inglese del 1905), mentre nelle comiche è usato nei modi più impropri, al pari d'un oggetto inanimato: lasciato cadere a terra o lanciato in aria, come negli esilaranti Mixed Babies (Gran Bretagna, 1905) e Pitou bonne d'enfant (Francia, 1907). Entrambi i registri - il tragico e il comico - sono presenti nelle prime sequenze del Monello di Charlie Chaplin, un cineasta che, nella propria opera, ha metabolizzato e trasfigurato molto cinema delle origini.

(Mariann Lewinsky)




Un'immagine semplice: un bambino cammina dando la mano a un uomo. Non sappiamo se al cinema sia stata inventata da Chaplin, ma nel Monello diventa quasi un mito moderno.
In Italia, i bambini sono stati tra l'altro il simbolo del neorealismo. Il cinema di quegli anni è pieno di bambini, che servono sia a fornire la metafora di un paese sia a costruire uno spostamento dello sguardo. Ladri di biciclette è il film neorealista che si spinge forse più a fondo verso la commedia e verso il melodramma; lontano dal percorso di Rossellini, è già 'un neorealismo che fa ridere e, forse, anche piangere', con esiti poi mai così perfetti. Lo stesso De Sica ammette l'enorme influenza che su di lui ha Chaplin, specie per alcune soluzioni drammaturgiche.
Eppure c'è una differenza di fondo tra la coppia di Chaplin e molte di quelle che verranno, a cominciare da quella di De Sica. E sta nella figura dell'adulto. Charlot è amorale, è lui stesso bambino, è picaro. Lui e Jackie Coogan non hanno, come Maggiorani e Stajola, la responsabilità di un paese da far risorgere. E Chaplin, che per il décor del Monello (e non solo per quello) si ispira alla propria infanzia londinese, non è solo Charlot ma anche il monello.


(Emiliano Morreale)