'Il monello' 1921/1972

1921. La promessa

21 gennaio 1921. Migliaia di persone si accalcano davanti alla Carnegie Hall di New York per la prima del Monello. L'intero isolato e chiuso al traffico. Nei giorni successivi il film viene presentato nei cinema di tutta la nazione, dove resterà in cartellone per mesi. A marzo, il Kinema Theatre di Los Angeles proietta Il monello quattro volte al giorno, dalle due del pomeriggio alle nove e un quarto di sera, accompagnato e sincronizzato dal vivo da un'orchestra sulla base di una selezione fatta da Chaplin di brani di musica classica e contemporanea. Il monello è come una promessa inviata ai cineasti del futuro: che il cinema avrebbe moltiplicato le sue possibilità e i suoi orizzonti, che si sarebbe calato nella condizione umana senza preoccuparsi dei generi; che avrebbe raccontato sentimenti primordiali come l'abbandono o la paura della solitudine, ma che avrebbe ugualmente saputo restituire lo sguardo leggero e l'esuberanza dell'infanzia. Al suo primo lungometraggio Chaplin sembra aver sintetizzato l'esperienza del cinema delle origini completando la creazione di un universo, di un sentire, oltre che di un personaggio. Il monello aveva dimostrato che era possibile annullare il divario tra il cinema popolare e il cinema d'autore: da quel momento si sarebbe parlato di arte.



1972. Il ritorno

La sera del 4 aprile 1972 una folla straripante accoglieva Charlie Chaplin all'entrata del Lincoln Centre di New York per una serata in suo onore. Chaplin mancava da vent'anni, da quando cioè gli inquisitori maccartisti l'avevano tacciato di filocomunismo e spinto all'esilio forzato. Ora l'America faceva ammenda e di lì a qualche giorno l'avrebbe consacrato con un Oscar alla carriera. Al suo ingresso, i 2800 spettatori paganti della Philharmonic Hall lo salutarono con una commossa ovazione che scemo solo a proiezione iniziata. Il film era Il monello, che come Chaplin amava ricordare era stato l'unico tra tutti ad aver ricevuto critiche unanimemente positive.
Era anche la première di una nuova versione del film sfrondato di alcune scene che Chaplin riteneva datate e troppo melodrammatiche - l'immagine della croce, la chiesa e il tentato suicidio della madre (Edna Purviance), così come i brani in cui lei e il padre del bambino (Carl Miller) si rincontrano a una festa. Per la prima volta, questa edizione presentava anche una nuova partitura, frutto della collaborazione tra Chaplin, ormai ottantaduenne, ed Eric James.
La storia del cinema si racconta spesso attraverso le vicende censorie, le divergenze tra autori e produttori e le operazioni di revisione non autorizzata che portano un film ad esistere in versioni diverse. Nel caso di Chaplin (qualcuno, in epoca non sospetta, aveva predetto che i suoi film avrebbero avuto pii vite di un gatto) fu lui stesso a rimettere mano alla sua opera, una revisione che, eccezioni a parte, si svolse in un periodo compreso tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta.
Nel corso dei due decenni trascorsi al 'Manoir De Ban', la dimora svizzera nei pressi di Vevey in cui si era ritirato con la sua famiglia, Chaplin era tornato al montaggio, sacrificando scene che riteneva ormai superflue e alterando la velocità di proiezione. Benché questi interventi rispondessero a finalità prettamente commerciali, consentendo a Chaplin di rinnovare il copyright e ridistribuire tutti i suoi film realizzati dal 1918 in poi - Vita da cani, Charlot soldato, Il pellegrino, ma anche Il circo, Luci della città, Il grande dittatore - il ritorno della sua opera sul grande schermo non fu solo una questione di incassi né un'operazione nostalgica. Si trattò al contrario di un'autentica riscoperta che sancì la completa riabilitazione morale e artistica di Chaplin, seminò nuove generazioni di spettatori e suscitò un rinnovato interesse critico e, per la prima volta, persino accademico. Come per tutte le grandi opere d'arte, i film di Chaplin potevano esistere solo nel presente. Scriverà Alberto Moravia: "sarebbe stato più facile creare via via delle figure verosimili di diseredati, di disoccupati, di emarginati ribelli anarchici e ottimisti; ma il colpo di genio fu di fare del clown tradizionale del circo, una figura fuori dal tempo e della storia [...] via via un mendicante, un pitocco, un picaro, un disoccupato, un derelitto, un umile pur sempre ribelle e ottimista, per attribuirgli in seguito sentimenti e pensieri propri di situazioni sociali ben precise e attuali". Attraverso Charlot, Chaplin aveva colto l'uomo del Novecento, trovato un nuovo linguaggio per comunicare con le masse. Quando tornarono in sala, si ebbe l'impressione che i suoi film potessero parlare ancora al presente. "Ho fatto male a sopprimere il mio personaggio - confessò Chaplin nel corso di un'intervista rilasciata nel 1959 - c'era ancora posto per lui nell'era dell'atomica".


(Cecilia Cenciarelli)