Antologia critica

Antologia critica

Pare che l'esoterismo di Vertigo abbia scoraggiato l'America. In compenso la critica francese sembra fargli un'accoglienza delle più calorose. Ecco Hitchcock messo dai nostri colleghi nel posto in cui noi l'avevamo da sempre collocato. Ed eccoci, nello stesso tempo, privati del delizioso compito di provvedere alla sua difesa. [...]
Vertigo
mi appare come il terzo elemento di un trittico i cui primi due erano costituiti da Finestra sul cortile e L'uomo che sapeva troppo. Questi tre film sono dei film di architettura. Prima di tutto per l'abbondanza che incontriamo, in tutti e tre, di motivi architettonici, nel senso proprio del termine. In Vertigo tutta la prima mezz'ora è anzi una sorta di documentario sull'arredo urbano di San Francisco. Il motivo di fondo ci è dato da un certo numero di abitazioni stile '900 sulle quali l'obiettivo della macchina da presa ama indugiare, così come in passato aveva indugiato, in Caccia al ladro, sui luoghi della Costa Azzurra. La loro ragion d'essere immediata, pratica, è che creano un senso di smarrimento nel tempo. Simbolizzano quel passato verso il quale si rivolgono tanto gli sguardi del detective quanto quelli della folle presunta.
Ritroveremo, nel corso del film, un'altra architettura, più antica, quella di un monastero spagnolo del XVIII secolo, legato, questa volta, molto direttamente, attraverso la torre che lo sormonta, al tema principale della storia, la vertigine. Ed eccoci condotti un gradino più su nell'analogia con i due film citati. In ciascuno di essi i protagonisti sono vittime di una paralisi relativa allo spostamento di un determinato elemento. In Finestra sul cortile, si tratta, per il reporter, della forzata immobilità; l'elemento è dunque lo spazio. Ne L'uomo che sapeva troppo, il medico e sua moglie, conformemente al titolo, conoscono troppo l'avvenire, ma nello stesso tempo, troppo poco: la loro paralisi è l'ignoranza, il suo campo d'esercizio non è più lo spazio, ma il tempo. Nel film qui in questione, il detective, ancora interpretato da James Stewart (che, portando il busto, lancia una strizzata d'occhio al fotografo di Finestra sul cortile) è vittima, anche lui, di una paralisi, e cioè le vertigini. L'elemento, questa volta, è costituito dal tempo, ma non più quello del presentimento, orientato verso l'avvenire. Diretto al contrario verso il passato: il tempo della reminiscenza. [...]
Naturalmente ci sono altri accostamenti da fare oltre a quello che ho suggerito con i due film interpretati da James Stewart. Mi si conceda di proporne ancora uno, questa volta con Strangers on a Train. Sappiamo quanto quel film dovesse, non solo in rigore, ma in lirismo alla presenza ossessiva di un doppio motivo geometrico, quello della retta e quello del cerchio. Qui la figura - i titoli di testa di Saul Bass ce la disegnano - è quella della spirale o, più esattamente, dell'elicoide. Retta e cerchio si congiungono attraverso l'intervento di una terza dimensione: la profondità. A dire la verità, non troveremo che due spirali materialmente rappresentate in tutto il film, quella della ciocca di capelli che scende sulla nuca di Madeleine, copia di quella di Carlotta Valdès, e non dimentichiamo che è questa che suscita il desiderio nel detective, e poi quella della scala che sale alla torre. Per il resto, l'elica sarà ideale [...]. Idee e forme seguono lo stesso percorso, ed è perché la forma è pura, bella, rigorosa, straordinariamente ricca e libera, che si può dire che i film di Hitchcock, e Vertigo in testa, hanno come oggetti - oltre a quelli con i quali riescono ad avvincere i nostri sensi - le Idee, nel senso nobile, platonico, del termine.

(Eric Rohmer, "Cahiers du cinéma", n. 93, 1959, in Il gusto della bellezza, a cura di Cristina Bragaglia, Pratiche editrice, 1991)




Questo singolare record di regia non si spiega solamente con un fenomeno di abilità meccanica. La suggestione opera e vi prende perché Hitchcock è riuscito a immergere tutto il suo racconto in un'atmosfera di vago e inespresso, a tenere i casi e i personaggi su un margine oscillante tra il possibile e l'assurdo. È un film sapiente e complesso, articolato su piani diversi, psicopatia, intrigo, sentimento, spiritismo, passione, delitto, superbamente inquadrato nel paesaggio di San Francisco, che con i suoi boschi millenari e solenni come cattedrali, con i suoi panorami d'azzurro e d'oro, con lo stesso saliscendi delle sue strade, fatte a montagne russe, diventa la cornice ideale per una vicenda piena di meandri, di esaltazione e di mistero.

(Filippo Sacchi, "Epoca", 25 gennaio 1959)




Hitchcock è ritornato a un tema assai più congeniale alla sua comprovatissima vocazione per l'assurdo ingegnoso, per il brivido artificiale sapientemente organizzato e centellinato con il dispiego compiaciuto di una funambolesca bravura tecnica. Si può anzi dire che La donna che visse due volte ha tutti i caratteri di una 'mostra personale', di un riepilogo condensato dei temi, dei trucchi, delle manie, dei virtuosismi e dei vizi del regista inglese. [...] I dubbi con cui Hitchcock solletica lo spettatore (può una donna morire e rinascere due volte, la seconda a pochi mesi di distanza dal suo spettacolare suicidio? e si tratta poi della stessa persona?) sono essenziali ai fini del suspense [...]. Quel che importa ad Hitchcock non sono i fatti, né i sentimenti, né i problemi reali: egli mira soltanto allo spettacolo, non naturalmente nell'accezione demilliana del termine, bensì - secondo il suo stile - intendendolo come creazione di un'atmosfera intensamente suggestiva in cui l'impossibile assuma sembianza di realtà e dove si addensi l'ombra incombente del dubbio e del sospetto, dell'angoscia, della follia e della morte, quasi ad altalenare lo spettatore sull'orlo di un abisso (e Vertigine in questo senso è un titolo programmatico), salvo poi a ritrarlo con la puntuale tempestività dei risvolti umoristici o della beffarda e banale spiegazione che annuncia la fine dello scherzo.
Su questo piano - dai limiti ben precisi - Hitchcock è imbattibile. Tutto gli serve come ingrediente, a cominciare dalla psicanalisi di cui anche questo film è largamente intriso. Si veda poi l'impiego del paesaggio arioso e solare in funzione contrappuntistica alla cupa vicenda (che il bianco e nero avrebbe reso insieme più tetra e più realistica; e meno divertente); e si noti appunto lo stupendo uso del colore che concorre sempre a determinare un'atmosfera, a fissare emozioni e stati d'animo (per tacere della sequenza del sogno, basti ricordare lo straordinario risalto dell'abito verde di Kim Novak sullo sfondo rosso sangue del night-club che invade tutto l'ambiente in misura ossessiva). Ma quante altre cose sarebbero da citare: il cimitero, il museo, il fascino degli elementi architettonici che rammentano continuamente le lontane origini spagnolesche di San Francisco in un'intenzionale allusione allo scambio fra passato e presente, al dissolversi di ogni dato reale in un angoscioso relativismo.

(Giulio Cattivelli, "Cinema Nuovo", n. 137, gennaio-febbraio 1959)




I due protagonisti del film sono posseduti da complessi ossessivi: l'uomo è malato di acrofobia, cioè teme le altezze e non può nemmeno salire su una sedia, e la donna è dominata, sino a tramutarsi in automa, dal criminale che fu suo primo amante. La psicanalisi, come sempre in Hitchcock, si fa la parte del leone, in questa pellicola, che ha due o tre elementi cattivanti: l'interpretazione ottima di James Stewart e di Kim Novak, dagli accentuati lineamenti slavi; la sapiente dosatura degli effetti di ansia cupa e tormentosa; e la bellezza dei paesaggi nella baia californiana dominata dalle vecchie architetture iberiche. Non c'è nulla di credibile, in tutto ciò che accade; l'angoscia artificiosa, ma pur sempre angoscia, è il frutto di un astuto e quasi divertito gioco di inganni; Hitchcock imbroglia, ma quale accorto prestigiatore e quanti piccioni nel suo cappello a cilindro.

(Arturo Lanocita, "Corriere della Sera", 25 dicembre 1958)




Madeleine dice a Scottie: "Non si dovrebbe vivere soli... è sbagliato". Ma Judy vive da sola. Più tardi Madeleine sul mare comunica al poliziotto i frammenti della sua memoria smarrita: "Una stanza... siedo là da sola... sempre sola". È la stanza del McKittrick Hotel o la stanza dell'Empire?
C'è un momento in cui scorgiamo Madeleine senza che Scottie possa vederla. Lei lo guarda dall'interno della sua auto, mentre lui va a chiudere la porta del suo appartamento, prima che si dirigano alla foresta delle sequoie. La donna l'osserva teneramente, tristemente come attratta dalla sua persona. Sta davvero recitando?
Quando Ferguson tra gli alberi cerca di farsi dire da lei perché si è gettata nella baia, essa sembra presa dalla paura e ripete "Per favore non chiedermi, per favore non fare domande". Di nuovo, è Judy che sta fingendo di essere una donna sull'orlo di una crisi di nervi? Oppure è Judy innamorata e terrorizzata dalla situazione in cui si trova?
E che dire della paura della morte? Quando Madeleine afferma: "Non voglio morire - c'è qualcuno in me che vuole che io muoia", ella potrebbe parlare non solo per Judy, ma per tutti noi. Ella non è soltanto Judy che simula di essere Madeleine posseduta da Carlotta. Quando pensiamo all'ultimo terzo del film, Judy non è una ragazza capace di essere esplicita e forse consapevole di tali paure: non ne ha l'intelligenza, la consapevolezza critica o (malgrado la sua capacità di soffrire) la profondità. Judy può liberarsi delle sue paure solo se è Madeleine.
In un certo senso è Madeleine a essere più reale delle due donne; dal momento che in lei trovano espressione tutti quei tipi di potenzialità che in Judy sono completamente nascosti. Tutto doveva far pensare che fosse Carlotta a possedere Madeleine, ma in realtà Madeleine ha preso possesso di Judy.

(Robin Wood, Hitchcock's Films, Zimmer-Barnes, 1965)




Come Poe, Hitchcock assume un approccio semiscientifico alla sua opera; come Poe, la sua specialità è l'orrore e l'irrazionale; come Poe, è un esteta che si rivolge a un pubblico popolare di massa. In effetti, tutte le qualità hitchcockiane fin qui elencate possono spiegarsi nei termini della posizione mediana del regista fra Ottocento e Novecento, una posizione che rivela determinati collegamenti fra Europa e America, Poe e Hollywood, estetismo e modernismo. Si potrebbe esprimere quanto appena detto anche così: l'opera di Hitchcock tende a indicarci le sue radici nel surrealismo dei primi romantici e nei primi film di Griffith, anche quando ci rivela il versante oscuro dell'arte novecentesca. In conclusione, perciò, si potrebbe affermare che Hitchcock è centrale alla storia complessiva del noir, o a quella che in epoca vittoriana si chiamava 'letteratura di sensazione'. Da un punto di vista strettamente generico egli appare invece in qualche modo tangenziale se lo consideri in rapporto agli esempi hollywoodiani del film noir dei decenni 1940 e 1950.

(James Naremore, Hitchcock at Margins of Noir, in Alfred Hitchcock. Centenary Essays, a cura di Richard Allen e Sam Ishii-Gonzales, British Film Institute, 1999)




Molte definizioni sono riduttive e vaghe: quella di Hitchcock quale 'mago del brivido' suona indecente. Basterebbe La donna che visse due volte a spiazzarci... Intanto ha un ritmo solenne, come mai è accaduto in un thriller. La scansione delle inquadrature, i tempi del montaggio obbediscono non alle azioni ma ai segreti dei personaggi; la cosiddetta suspense si sviluppa negando l'effetto- sorpresa. E il film, mentre svela a tre quarti dalla fine la chiave della vicenda, ci dice che a Hitchcock interessa qualcos'altro. Dopo averci catturati con una trama inverosimile, il maestro si rifiuta di portarla fino in fondo secondo i canoni, e ci costringe a seguirlo nel labirinto di un'ossessione personale. [...] Allora sappiamo che Vertigo non è solo un film di morti. È anche - o soltanto - un film di vivi che non possono amare. E ci fa venire davvero i sudori freddi (sueurs froids, come da titolo francese). Ma non perché c'è una porta che scricchiola o una mano che agita un coltello. Perché ci insinua un sospetto: forse il solo amore eterno di cui siamo capaci è quello per chi non ci appartiene più. L'amore che non muore è l'amore per un fantasma.

(Gianni Amelio, Il vizio del cinema, Einaudi, 2004)