Vertigini formali

Vertigini formali

"Tutta la profondità di Hitchcock è nella forma"
(Eric Rohmer)

 

A.H. Le è piaciuto l'effetto di distorsione, quando Stewart guarda nella tromba delle scale del campanile; sa come è stato fatto?
F.T. Ho pensato che fosse una carrellata indietro, combinata con un effetto di zoom in avanti, è così?
A.H. È vero. Già quando stavo girando Rebecca, nella scena in cui Joan Fontaine sveniva, volevo mostrare che provava una sensazione speciale, che tutto le si allontanava prima della caduta. Mi ricordo sempre che una sera, al ballo del Chelsea Art, all'Albert Hall di Londra, mi ero ubriacato terribilmente e avevo avuto questa sensazione; tutto si allontanava molto da me. Ho voluto ottenere questo effetto in Rebecca, ma invano, perché questo è il problema: restando fisso il punto di vista la prospettiva deve allungarsi. Ci ho pensato per quindici anni. Quando me lo sono chiesto di nuovo nella Donna che visse due volte, il problema si è risolto servendosi del Dolly e dello zoom, simultaneamente Ho chiesto: "Quanto mi costerà? - Cinquantamila dollari - Perché? - Perché dobbiamo mettere la macchina da presa in alto sulla scala e costruire un meccanismo per sollevarla, mantenerla nel vuoto, sistemare un contrappeso, ecc.". Allora ho detto: "Non ci sono personaggi in questa scena, è un punto di vista. Perché non costruire una tromba delle scale in modellino, appoggiarla orizzontalmente per terra e fare la nostra ripresa: carrellata-zoom sul piano?". È costato solo diciannovemila dollari.

(François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrice, 1985)




Come molti capolavori della storia del cinema, Vertigo è inseparabile dalle soluzioni tecniche sperimentate: in questo caso il famoso carrello-zoom che vediamo in alcuni brani e che sottolinea, in soggettiva, le vertigini del protagonista. Gli obbiettivi multifocali erano stati introdotti da pochi anni nel cinema, allorché Hitchcock pensò di servirsene per realizzare un suo vecchio sogno, quello di alterare, direttamente in fase di ripresa, le linee prospettiche dell'inquadratura senza modificare la distanza rispetto agli oggetti inquadrati. Quest'idea non era nuova, ci stava lavorando fin dai tempi di Il sospetto: l'aveva immaginata durante una cerimonia, in seguito a una forte ubriacatura che gli aveva fatto perdere i corretti punti di fuga; ma la tecnologia dei primi anni quaranta era ancora acerba per concretizzare il progetto. [...] In Marnie Hitchcock avrebbe utilizzato ancora l'effetto speciale di sua invenzione, per esprimere uno stato di disorientamento associato a un trauma non rimosso, capace di paralizzare momentaneamente.

(Paolo Marocco, Vertigo. La donna che visse due volte, Le Mani, 2003)




Questa vera e propria ossessione per la caduta, intesa quale motore drammatico e, in certi casi, come punizione esemplare rispetto alla colpa originaria, si concretizza formalmente nella puntuale comparsa del motivo 'vertigine' nei suoi film, sia come elemento caratterizzante certe azioni o situazioni, che a livello del disegno compositivo strutturale, là dove la storia acquista la sua forma. Certamente non è un caso se tra le sequenze più ammirevoli del suo cinema figurano quelle finali di Saboteur (I sabotatori,1942), con la resa dei conti (e la conseguente caduta) in cima alla Statua della Libertà, e di North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959) sul bordo del precipizio del monte Rushmore. L'esemplarità di simili sequenze è il risultato di una lunga frequentazione di questo tema da parte di Hitchcock, e dunque dovuto in ugual percentuale all'inventiva tecnico-linguistica che alla sensibilità morale nei suoi confronti. Vertigo - il cui titolo italiano risulta piatto e banale, fuori bersaglio rispetto alla lapidaria messa a fuoco operata da quello originale - è senz'altro un film-manuale, in cui Hitchcock combina una volta per tutte i vari elementi. L'identificazione tra vertigine e colpa che sta all'origine delle peripezie del protagonista si capovolge simmetricamente nella morte-punizione finale: la caduta dall'alto del campanile. La presenza di quest'ultimo è la traduzione visivo-spettacolare del tema portante: Hitchcock, come al solito, vi si dedica con particolare applicazione, alla ricerca dello strumento tecnico che permetta alla sua inventiva visuale di tradursi in immagine compiuta: diciannovemila dollari dell'epoca spesi per la realizzazione di un'unica inquadratura (l'effetto soggettivo di vertigine nell'interno del campanile), come spiega nella fondamentale intervista-libro concessa a François Truffaut. Infine, occorre sottolineare tutta l'importanza di quel vero e proprio 'buco' nel racconto, costituito dal lungo periodo della malattia di Ferguson/Stewart durante il quale Madeleine/Kim Novak acquista la sua nuova identità e il nuovo aspetto fisico, prima che il 'caso' la riporti all'uomo che si era prestata ad ingannare così crudelmente. La presenza centrale di questa malattia non raccontata costituisce il vuoto intorno a cui ruotano i due momenti del film: vi si avvita l'irresistibilità del movimento discendente che porta Ferguson a perdersi negli abissi della sua passione, vera e propria 'picchiata' interiore che gli fa perdere ogni riferimento e autocontrollo, fino alla shock finale, ambiguo momento di illuminazione ma anche di privazione/punizione.

(Adriano Piccardi, "Cineforum", n. 239, novembre 1984)




La morte è raramente una sorpresa, un elemento assolutamente escluso dal gioco che arriva a meravigliare, a colpire, a rompere in forme travolgenti una normalità (l'effetto di sorpresa è soltanto dovuto alla nostra eventuale incapacità di vedere, di cogliere le tracce seminate in precedenza dal regista: la normalità si lacera, certo, ma non attraverso la sorpresa, come dirò tra poco).
Hitchcock l'aveva sempre detto: non gli interessava tanto il fatto in sé quanto tutto ciò che sottilmente ne preparava l'entrée. Ecco perché, paradossalmente, Hitchcock non è un autore sensazionalistico, non affida il suo cinema all'irruzione dell'orribile, anche se a volte ne fa uso. La vera morte per lui non è un mezzo d'impressione ma quasi un concetto filosofico. È la morte a catalizzare errori e difetti dei suoi personaggi. È la morte che irrompendo nella vita di una tipica famiglia americana ne mina i presupposti di tranquillizzante normalità mettendo a nudo nevrosi sopite nel secondo The Man who knew too much. È la morte a svelare la freddezza diabolica sottesa persino ai più confortevoli rapporti d'amicizia in VertIgo. È la morte a dominare gli atti più quotidiani e insospettabili colti da una casuale osservazione casalinga in Rear Window. Essa circola silenziosa e insospettata in mezzo a ciò che più ci è familiare, domina non vista ogni atto di routine, ogni azione che conosciamo fin troppo bene. E non è questa una concezione vera e propria della vita ben più allarmante dei bagni di sangue che, a torto o a ragione, si attribuiscono al cinema del regista?
Come può un tale formidabile elemento catalizzatore essere osservato se non al momento dei suoi effetti? Quale occhio può penetrare il lavorio tacito, la presenza ambigua e allucinante? Nessun occhio di soggetto, beninteso, ma solo l'obiettivo-oggettivo che ce la inquadra in silenzio. Come dicevamo, però, Hitchcock impiega per questa osservazione senza soggetto un movimento di macchina e non uno zoom. Egli, cioè, finge un soggetto o, se preferiamo, ci rende soggetti unici dell'osservazione. Nel sistema del testo filmico l'invisibile non è visto: cortesemente l'autore ci depone in un luogo di esso privilegiando la nostra presenza. Molto si è detto su questo procedimento: esso sarebbe il perno del meccanismo hitchcockiano di suspense, ciò che attiva un phòbos aristotelico nello spettatore, trepidante in merito a quel che avverrà dal momento che egli è l'unico ad avere in mano tutte le fila, tutti i dati della storia.

(Franco La Polla, Hitchcock e la morte, ovvero: i pericoli del proprio letto, in Per Alfred Hitchcock, a cura di Edoardo Bruno, Editori del Grifo, 1981)




Includendo lo spettatore nel film, e il film nell'immagine mentale, Hitchcock dà al cinema una forma compiuta. Tuttavia, alcuni dei più bei film di Hitchcock lasciano apparire il presentimento di una domanda importante. La donna che visse due volte ci comunica una vera e propria vertigine; quanto è vertiginoso, nel cuore stesso dell'eroina, è la relazione della Stessa con la Stessa che passa attraverso tutte le variazioni dei suoi rapporti con gli altri (la donna morta, il marito, l'investigatore). Ma non possiamo dimenticare l'altra vertigine, più comune, quella dell'investigatore incapace di salire la scala del campanile, perché vive in uno strano stato di contemplazione che si comunica a tutto il film e che è raro in Hitchcock.

(Gilles Deleuze, L'immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984)