Harold Pinter, dal teatro al cinema
Amo molto il cinema, l’ho sempre amato. Da ragazzo mi sono successe due cose: mi sono innamorato, naturalmente, e ho scoperto il cinema. Due veri amori: il cinema e le ragazze. E correre, direi. Correre! Ero molto veloce a quei tempi. Ma il cinema era importantissimo per me, e lo è sempre rimasto. Ho amato tutti i miei lavori per il cinema, senza eccezioni. Naturalmente mi rendo conto di essere stato molto fortunato, perché so bene quello che succede di norma agli scrittori che lavorano per l’industria cinematografica. Sono stato fortunato soprattutto per le persone con cui ho lavorato […] Ho lavorato tanto con Losey, e continuo a sentire la sua mancanza. Era un rapporto di lavoro molto bello, molto ricco, e io gli volevo un gran bene.
Harold Pinter in Mel Gussow, Conversazioni con Pinter, Ubulibri, Milano 1995
M’interessa sempre quando trovo una sceneggiatura, un'idea o una situazione per un film in cui è possibile eliminare le parole, ad eccezione di una loro strana utilizzazione, come in Pinter, di cui ho parlato spesso: le parole significano spesso il contrario del loro senso presunto; o ancora quando le parole sono utilizzate solo per il loro effetto sonoro, eccetera. Ma Harold capiva tutto ciò molto rapidamente e sempre meglio, almeno con me. Ha imparato a fornirmi un quadro in cui le parole evocano per me tutta una serie d'immagini, oppure le scatenano, o le precipitano.
Joseph Losey in Michel Ciment, Il libro di Losey. Un dialogo autobiografico, Bulzoni, Roma 1983
In tutti questi anni in cui ho scritto delle sceneggiature – a cominciare dal 1961, quando ho iniziato a lavorare a Il servo – quello che mi ha appassionato di più è stato esattamente questo: come passare da un mezzo di espressione a un altro. Non si tratta di 'registrare' un romanzo. Il problema è, pur restando fedele all’opera originale, alle sue intenzioni, di creare una forma nuova per le idee che vi sono espresse. È un compito non soltanto appassionante, ma essenziale, e in certi casi è più difficile che in altri.
Harold Pinter in Michel Ciment, Entretien avec Harold Pinter, “Positif”, n. 339, 1989
L’incontro con Losey offrì a Pinter l’occasione di lavorare a una forma espressiva che lo affascinava ma che non aveva mai sperimentato e offrì a Losey l’occasione per uscire dal melodramma e adottare uno stile che non era esattamente letterario, ma in cui la parola assumeva un nuovo valore – e questa era di per sé una novità nel cinema inglese, in cui i dialoghi sono spesso letterari, ma di una letterarietà appiattita in modo tale da non contrastare troppo con il naturalismo di fondo dello stile. […] La coincidenza di interessi fornì a entrambi un terreno comune per esplorare una nuova forma d’espressione. Per Pinter significò racconto invece che teatro; per Losey dialogo/discorso piuttosto che azione drammatica.
Geoffrey Nowell-Smith, Pinter e il cinema inglese, in Pinter e il cinema, a cura di Paolo Bertinetti e Gianni Volpi, AIACE, Torino 1984
La collaborazione con Joseph Losey gioca un ruolo particolare, assolutamente centrale, nell'opera complessiva di Pinter: e non soltanto perché essa segna, in un arco di dieci anni, l'avvicinarsi dello scrittore al cinema e l'esaltarsi delle sue capacità di sceneggiatore, ma soprattutto per la progressiva messa a fuoco di temi (il doppio, l'intruso, il tempo, il passato) che sono importanti sia per il regista, sia per lo sceneggiatore e che ritroveremo infatti alla base della loro opera successiva, anche quando la collaborazione Losey-Pinter sarà finita.
Maria Teresa Carbone, I luoghi della memoria. Harold Pinter sceneggiatore per il cinema di Losey, Dedalo, Bari 1986
Pinter esordisce nel cinema nel 1963 con una delle espressioni più perfette della grande intelligenza teatrale al servizio del genio cinematografico: Il servo di Joseph Losey. Tutto fuorché teatrale, tutto fuorché minimalista, tutto fuorché didascalico, o farraginoso, o ridondante, o piattamente descrittivo. Creato da un occhio barocco e perverso e da una scrittura essenziale e perversa, Il servo resta, anche a quasi quarantanni di distanza, non solo un capolavoro, ma anche il film chiave per comprendere e valutare l’originalità dell’apporto di Pinter al cinema. Ovviamente, senza poter prescindere da Losey, dalla sua maturità d’autore, dall’armonia di intenti che si creò tra regista e sceneggiatore (pur nelle disarmonie che pare ci siano state nell’incontro tra i due caratteri) nell’elaborazione di un testo preesistente, il romanzo di Robin Maugham. Due personaggi, il ricco Tony e il cameriere Hugo, si incontrano in un non-luogo esclusivo e fagocitante come una scena teatrale, la casa nella quale si concentrano i tre quarti dell’azione, e comunque tutta l’azione che conta, il ribaltamento psicologico dei rapporti di classe, di servitù e dominio. Casa, servo e padrone nascono insieme e sono tanto indissolubili che anche noi spettatori non vediamo l’ora di rientrare in quel 'territorio franco' dove la loro storia procede. La casa è viva, e muta con il mutare dei loro rapporti, con l’apparizione e la scomparsa di altri personaggi che vengono a interferire con loro. E questo è teatro. […] Il servo è uno dei rari film scritti da Pinter (a parte quelli più tradizionali e di genere) in cui il tempo pare scorrere linearmente. Ma forse perché qui è talmente costrittiva la circolarità dell’azione che la frammentazione del tempo avrebbe finito per distogliere l’attenzione dalla ineluttabilità del percorso narrativo, per ridurne la ‘necessità’ claustrofobica. Il tempo attraversa la casa e poi si esaurisce, ne viene ributtato fuori come qualsiasi elemento esterno che non sia del tutto occasionale e controllabile, nel trionfo di un rito sempre uguale a se stesso e atemporale, nonostante le ore continuamente e inutilmente scandite dalla pendola in colonna sonora. E questo significa naturalmente che Pinter e Losey avevano ben presente il consueto lavoro sul tempo e che qui il loro interesse era non di alterarne la scansione, ma piuttosto di annullarlo in quanto entità convenzionale, di trasformarne il flusso in un vuoto avvolgente e continuo.
Emanuela Martini, Il tempo ritrovato, in Harold Pinter. Dal teatro della minaccia al cinema delle ceneri, a cura di Cristina Jandelli, Beatrice Manetti, Giovanni Maria Rossi, AIDA, Firenze 2001
Per lo schermo c’è bisogno di meno parole che non per il palcoscenico. Se per una certa scena in teatro ci vogliono venti parole, se ne possono usare sei per una scena simile al cinema. Ciò significa che se ne scrivete otto per il cinema – due di troppo – sovraccaricate la cosa e rompete la vostra disciplina.
Harold Pinter, in Harold Pinter. Dal teatro della minaccia al cinema delle ceneri, a cura di Cristina Jandelli, Beatrice Manetti, Giovanni Maria Rossi, AIDA, Firenze 2001
Fa impressione, rivedendo oggi Il servo, quante poche parole ci siano, quanto queste siano in secondo piano (i discorsi più lunghi e ‘corposi’ sono riservati ai personaggi che agiscono all’esterno, sullo sfondo, come una sottolineatura surreale della realtà, concreta e pesante, da cui tutto questo nasce), quanto quotidiane e banali siano le battute che si scambiano i protagonisti e quanto scaturiscano da un atto precedente. “Rimettili giù”, sibila Susan a Barrett, senza neppure guardarlo, quando lui fa per spostare il vaso di fiori che lei ha appena disposto nella camera del fidanzato, in un momento del loro silenzioso e feroce scontro di caratteri e di dominio. E questo è cinema. Un cinema che, per farsi, ha bisogno di una scrittura sotterranea, di un dettaglio più che di un proclama, di un gesto che catturi l’attenzione del pubblico e che, inspiegato e probabilmente inspiegabile, la tenga alta.
Emanuela Martini, Il tempo ritrovato, in Harold Pinter. Dal teatro della minaccia al cinema delle ceneri, a cura di Cristina Jandelli, Beatrice Manetti, Giovanni Maria Rossi, AIDA, Firenze 2001.
Nel Servo Pinter appare nella sequenza che vede Tony e Susan pranzare in un ristorante elegante. La sequenza – l’unica in esterni del film, oltre al breve inserto che si svolge nella casa di campagna dei Mountset – lavora sul montaggio alternato di due momenti rilevanti per il racconto: l’incontro tra Tony e Susan, sospeso tra riconciliazione e rottura, e l’arrivo di Vera, sedicente sorella di Barrett, che sedurrà Tony mettendo in crisi il rapporto con Susan e consentendo a Barrett di assumerne finalmente il ruolo. Al succedersi delle inquadrature che portano avanti la storia lungo questi due filoni si mescolano brevi frammenti che riprendono le conversazioni dei personaggi che circondano i due protagonisti. Pinter è uno di loro: è l’uomo di società, seduto al tavolo in secondo piano rispetto a Tony e Susan, che fuma e ascolta distratto la conversazione fatua della sua elegante compagna.
In precedenza la macchina da presa si era soffermata su una coppia di amici intenti a scambiarsi pettegolezzi riguardo un comune conoscente; poi l’inquadratura alterna alla narrazione principale i commenti salaci espressi da un giovane parroco irlandese a un prelato più attempato, per spostarsi infine sul dialogo irritato di due donne gelose. Gli inserti giocano su un tono umoristico che contrasta con i clue fili narrativi della sequenza. L’interpretazione di Pinter restituisce il ritratto di un compunto uomo di società con un’ironia pungente. Il sorriso fatuo con cui Pinter accompagna le parole di circostanza che rivolge alla sua interlocutrice e l’eleganza convenzionale delle maniere da persona della buona società disegnano in pochi tratti una parodia sottile di un personaggio da commedia sofisticata.Pinter e Losey costruiscono uno dei punti di svolta della vicenda con un forte procedimento ossimorico che accosta situazioni di ritmo diseguale: la serietà della conversazione tra i due protagonisti, che sfiora più volte lo scontro, e l’atmosfera premonitrice che circonda l’arrivo di Vera, immerso in un silenzio irreale, cozzano contro la frivolezza dei frammenti di conversazione colti dalla cinepresa e ne sottolineano per contrasto la gravità.
In questo contesto l’apparizione di Pinter è discreta ma non casuale. La sua posizione nell’architettura della sequenza – il controcanto ironico alla serietà del racconto – sottolinea senz’altro il suo ruolo e ne fa una sorta di ‘indicatore’ che segnala per contrasto ciò che sta succedendo; è come se, mostrandosi in quel punto, lo sceneggiatore volesse invitare lo spettatore a osservare gli eventi con attenzione. L’uso del rovesciamento dei toni ottenuto col procedimento parodico intensifica la funzione connotativa ricoperta da Pinter e ne fa un vero e proprio ‘segnale’ che illumina un segmento centrale del racconto.
Chiara Tognolotti, La scrittura dell’interprete. Pinter attore, in Harold Pinter. Dal teatro della minaccia al cinema delle ceneri, a cura di Cristina Jandelli, Beatrice Manetti, Giovanni Maria Rossi, AIDA, Firenze 2001.