Antologia critica

Antologia critica

Accolto freddamente a Venezia, il film ebbe un grande successo a Parigi, e Londra, e in seguito dovunque. Le influenze della drammaturgia brechtiana, che Losey tenta d’applicare allo schermo raggiungendo la “distanziazione” per vie diverse, vi si fondono col gusto particolare di Losey per le atmosfere decadenti, narrate criticamente, e per i sottili e tortuosi (talvolta morbosi, ma mai fini a se stessi) scavi psicologici.
George Sadoul, Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

 

Il servo, con la molteplicità dei suoi piani di lettura e il caleidoscopico gioco di riflessi, somiglianze, dissonanze, affinità e antipatie che si instaura tra i suoi personaggi (e tra loro e gli spettatori), si sottrae a qualsiasi classificazione o facile interpretazione. Certo, le classi su tutto, e un percettibile spaesamento rispetto alla propria appartenenza (Tony non è un aristocratico come vorrebbe ma, come l'ha definito Losey, "un Harrod's di quarta generazione", la sua fidanzata dimostra con accenti, gusti e gaffes di venire da una famiglia di nuovi ricchi, mentre Barrett è un impeccabile "gentleman's gentleman", il vero aristocratico, nei modi, il vero proletario, nei gusti). Certo, il sesso, anche, ma non solo, in chiave omosessuale. Certo, il dominio, che trasversalmente coinvolge tutti nei reciproci tentativi di sopraffazione (Barrett arriva in quella casa con un piano preciso, ma è Susan, la fidanzata di Tony, ad aprire per prima le ostilità trattandolo dall'alto in basso e tentando di sbarazzarsene; ed è Tony che seduce Vera pur credendo sia la sorella di Barrett). E, intorno, nella rare scene esterne alla casa, nel ristorante, nel pub, nella dimora di campagna, una società raggelata, che oscilla tra fatuità e immobilismo, riassunta nelle folgoranti, paradossali battute dei formidabili dialoghi di Harold Pinter. Ritratto quintessenziale della società britannica, colta nel profondo da un estraneo residente a Londra da una decina d'anni, con l'aiuto di un autentico inglese che sta per rivelarsi uno dei più acuminati spiriti critici del Novecento (Pinter), in realtà Il servo è lo specchio crudele e talvolta pietoso (pietoso nelle lacrime che solcano le guance di James Fox, fin dall'inizio totalmente impotente) del mondo, dei nostri rapporti interpersonali, della nostra vita. Quattro personaggi in una casa che gira a spirale su se stessa (geniale invenzione di Losey e del production designer Richard Macdonald), che si amano, si dilaniano, si fanno persino compagnia: la parte per il tutto, con una potenza di sintesi che ricorda analoghi 'esperimenti' bunueliani. La forza di questo film […] non si ferma alla seconda metà del Novecento, alle classi e ai rapporti di forza di allora. Anzi, il suo agghiacciante potere seduttivo è se mai cresciuto, nel momento stesso in cui il gioco del potere si è allargato a dismisura e la moralità, individuale e collettiva, è naufragata nella volgarità. I film di Losey, senza speranza e senza vie di fuga, nell'infinita rifrazione delle colpe e degli inganni, sono ancora lo specchio del nostro mondo.
Emanuela Martini, Le radici della colpa, in Joseph Losey, Torino Film Festival/Editrice Il Castoro, Milano 2012

 

Tutto il film è costruito dunque sulla casa di Tony come luogo chiuso, ma le scene di contorno non sono per nulla inessenziali; anzi, "il film cesserebbe di esistere se si sopprimessero la scena della casa di campagna dai Mountset e la scena del ristorante" (Losey).
La prima di queste, in particolare, getta una luce ironica sul coté ritualistico che definisce Tony e Susan: quel cammino da innamorati sullo sfondo è una grande invenzione kitsch, il personificarsi vero e proprio di una cartolina. Questo rituale si sviluppa poi nell’altra sequenza, quella del ristorante, che rivela, con altrettanta ironia, il proprio non sense, la confusione implicita dell’ordine del sociale.
Queste apparenti divagazioni in realtà duplicano, moltiplicano il campo di battaglia fra Tony e Barrett, in cui lo spazio-scena detta un ordine (un rituale) armoniosamente pedinato da una mdp estremamente precisa ed essenziale: in esso i punti fissi (luoghi privilegiati) si alternano ai punti di fuga, di riflessione all’infinito (gli specchi). […] Tutta la casa rivela in progressione di essere 'reticolata' di passaggi secondari, attraversata da cunicoli inaspettati; lo spazio non rispetta più una geometria euclidea, le linee non sono più rette, ma si chiudono come su una superficie sferica. Questa 'circolarità' si riflette nella stessa casa facendone uno spazio impossibile da evadere ("Non mi dispiacerebbe uscire. Deve essere bello fuori", dice umilmente Tony a un Barrett aristocraticamente distante e impegnato in solitari con le carte); al suo interno tutte le soluzioni-direzioni possibili si risolvono nella perfetta fatalità di una circolarità claustrofobica ed esasperante.
In questo luogo chiuso (e moltiplicato), in questa definizione dello spazio (e nella sua progressiva distruzione), in questa geometria (e nella sua sconfessione) abitano e crescono i mostri del film.
Giorgio Cremonini, Gualtiero de Marinis, Joseph Losey, La Nuova Italia, Firenze 1981

 

Il servo rappresenta uno scambio di potere tanto brutale quanto sterile; come il disordine si nutre in grembo all’ordine, così il comando passa nelle mani di Barrett poco alla volta, quasi impercettibilmente; il luogo che lui stesso aveva arredato (messo in ordine) va in rovina (nel piuÌ€ squallido disordine) quasi ubbidendo a una perversa naturalezza.
Così il servo prende il posto del padrone e vince, alla fine, ma è lontanissimo dall’aver conquistato la propria libertà. Ecco perché, dopo aver ricevuto lo schiaffo da Susan, Barrett resta sconvolto, accompagna la ragazza alla porta e sistema il soprabito sulla sua spalla come avrebbe fatto, da bravo maggiordomo, in qualunque altro momento. Solo quando ha sbarrato la porta può tornare dal padrone nello spazio ormai fetido della casa e riatteggiare un ghigno di trionfo; ma fuori dal tempo, un tempo già inutilmente scandito da gocciolii e squilli di telefono e ora simboleggiato da una pendola immobile.
Nello spazio unico di una casa vieppiù opprimente per il 'trompe-l’œil' creato dagli specchi (come nel pensiero unico di oggi, oserei) trasgressione e impotenza hanno il medesimo segno, si tengono una all’altra e mutano forma solo per marcire; lo avrebbe spiegato anni dopo e con stile assai diverso Fassbinder, il cui intento fu sempre affermare la differenza omosessuale, ma disilludere su una sua funzione liberatrice quando è in gioco la differenza di classe.
Tullio Masoni, Maugham, Pinter, Losey, “Cineforum”, n. 470, dicembre 2007

 

Disegnando questa molteplice e complicata relazione di rapporti di classi e di individui Losey cerca di ritrovare una esatta e coerente soluzione dei modi stilistici e linguistici per arrivare suo tramite a manifestare lucidamente la sua intrigata e netta concezione del mondo.
Anche in questo film Losey attraverso un rigore estremo che sintetizza elementi svariatissimi come ambienti sociali e psicologie individuali e classiste, elementi recitativi e scenografici, ritrova una assoluta libertà nella composizione dell’inquadratura e nell’uso del montaggio sempre più interiormente e implicitamente brechtiano.
Ciriaco Tiso, “FilmCritica”, n. 222, febbraio 1972

 

Se a Eva (o, meglio, a ciò che resta di Eva) va il merito – pur tra dissensi e polemiche – di aver fatto conoscere un 'nuovo' Losey, al Servo spetta quello di imporre a giudizio unanime della critica un 'grande' Losey. Ritrovate le proprie 'difese', il regista affronta il tema del rapporto servo-padrone in maniera 'riconoscibile' e non più secondo l’ottica 'spostata' con cui lo aveva delineato in Eva nella forma omologa del rapporto uomo-donna (dove è più difficile stabilire chi sia 'servo' e chi 'padrone'). Il risultato di tale variazione prospettica è Il servo, opera in cui il discorso sull’'asservimento psicologico' tra le persone viene more geometrico demostrato senza più traccia di coinvolgimento autobiografico. […] Con Il servo il 'barocco' di Losey si rivela in pieno per quello che è: non uno sfoggio di stile eccessivo e compiaciuto esibito per mascherare la realtà, ma, al contrario, uno strumento rigoroso e razionale di disvelamento delle contraddizioni nascoste sotto l’apparente linearità del reale. Un 'barocco' che si colloca agli antipodi di quello 'decadente' di un Visconti (o di quello 'demiurgico' di un Welles) e che non tradisce ma potenzia lo sguardo 'distanziato' del regista grazie all’uso sapiente della "giustapposizione dei contrasti". Con la spirale che risucchia il 'padrone' Tony e il 'servo' Barrett verso un comune disfacimento morale, Losey ha ottenuto da artista la quadratura del cerchio, riuscendo a coniugare Brecht e il barocco in una felice sintesi espressiva che da ora costituirà lo stile inconfondibile di un autore riconosciuto in questa occasione tra i pochi che contano davvero nel panorama del cinema mondiale.
Angelo Moscariello, Invito al cinema di Losey, Mursia, Milano 1998

 

Gli specchi convessi del Servo sono una soluzione estetica notevole come le sofisticazioni della messa in scena di Eva, le due panoramiche a 180° che aprono e chiudono il film, la ricerca permanente della macchina da presa del riflesso speculare sono sintetizzate attraverso l’immagine totalizzante dello specchio convesso. Il sapere hegeliano ha la forma di una enciclopedia: il Sapere Assoluto contiene tutti gli altri, li ricapitola e li sintetizza nella forma del cerchio, del ciclo. Costruzione ciclica della conoscenza, come la costruzione circolare di Eva è una enciclopedia delle relazioni uomo/donna; ma in Losey, la dialettica si inceppa, e lascia il posto all’enumerazione, alla ripetizione e, per finire, al disincanto.
Philippe Fraisse, "Positif", n. 516, febbraio 2004, traduzione in Senza re, senza patria. Il cinema di Joseph Losey, Cinemazero, Pordenone 2008