Antologia critica

Potete immaginare Vélasquez che ha appena concluso le sue Meninas mentre già Picasso intesse le sue mirabili variazioni? Certamente no. Ecco, accade qualcosa di simile. Con Hiroshima mon amour, Alain Resnais affranca il cinema dal XVII secolo per immergerlo senza transizioni nel cuore del XX. [...] Infrange il quadro della narrazione tradizionale e introduce la tecnica romanzesca cara a Faulkner: il passato dei personaggi o quello storico risale a sprazzi alla superficie del presente e, allo stesso tempo, lo avvelena. D'altra parte, introducendo il cinema nel cinema, Resnais eguaglia le opere letterarie più recenti di un Klossowski o di un Borges: ci offre la riflessione al secondo grado, ci invita al gioco degli specchi [...]. Un musicologo, inoltre, potrebbe ritrovare nel ritmo e nel montaggio dei piani di Hiroshima mon amour, l'influenza di Strawinski. Infine, dal punto di vista pittorico, questo film evoca il cubismo, Picasso e Braque.
Moderno, Hiroshima mon amour lo è anche per il suo soggetto. È la tragedia dell'impossibilità dell'unione e della pienezza di sé. È la vittoria della segmentazione, della dissociazione, del frammentario. È impossibile essere totalmente uno perché viviamo nell'istante e ogni istante ci condanna alla nascita ma anche alla morte di una parte di noi stessi. È forse il simbolo profondo della prima immagine del film. Si vedono solo due corpi abbracciati, entrambi indistinti mentre li ricopre una pioggia di cenere. Questa cenere, si può immaginare sia la stessa della bomba atomica, ossia come quella delle vestigia della guerra che ricadono ancora sul presente e lo contaminano. Ma io preferisco vedervi il simbolo di una dialettica dell'istante: nello stesso tempo in cui questi individui “si incendiano l'uno per l'altro” (come viene detto ad un certo punto nel testo) già li ricopre la cenere di questo fuoco, la cenere dell'oblio. [...] I frammenti del passato di Emmanuelle Riva hanno formato un blocco sempre più compatto che separa irresistibilmente i due amanti. Rivivendo questo passato, mescolandolo al presente, Emmanuelle Riva assume la consapevolezza che il passato non sia altro che un ricordo, morto in lei e dimenticato. Da quel momento, questo amore attuale fra lei e il giapponese è, anch'esso, votato all'oblio, alla morte, è irrimediabilmente condannato. “So che ti dimenticherò, sento che già ti dimentico”, grida, alla fine del film, al giapponese. [...] Come nell'opera di Picasso (non dimentichiamo il suo cortometraggio su Guernica), Resnais ama mostrare simultaneamente il volto dell'orrore con un profilo di dolcezza. Come quelle immagini orribili delle persone colpite dall'atomica, accompagnate da un commento lirico e bucolico sulla primavera e la rinascita dei fiori a Hiroshima.

Jean Douchet, Hiroshima mon amour, “Arts”, n. 727, 17-23 giugno 1959



Hiroshima spiega i cortometraggi di Alain Resnais, più che essere spiegato da questi. Solo vedendo Hiroshima si capisce precisamente che cosa volesse dire Resnais in Les Statues meurent aussi, La Bibliothèque Nationale (Toute la mémoire du monde), e persino nel Van Gogh, dove Resnais già si autodefiniva come un cineasta che riflette. Per altro, Hiroshima è effettivamente sbocco e completamento dei cortometraggi che abbiamo ammirato un po’ ciecamente. E tuttavia c’è probabilmente una parte di Hiroshima che adesso noi ammiriamo un po’ ciecamente, e che ci sarà spiegata solo dai film successivi di Resnais. In ogni caso, credo che con Hiroshima possiamo finalmente considerare i cortometraggi di Resnais come un tutto. Sino ad ora giacevano sparpagliati, anche all’interno della nostra ammirazione. Era normale considerarli come tanti casi particolari. Per limitarsi agli ultimi tre, c’erano evidenti somiglianze tra Nuit et brouillard, la Nationale, e Styrène, ma, appunto, si era portati a pensare che si trattava se non proprio di un trucco escogitato da Resnais, perlomeno di uno ‘stile’, con tutto quello che ciò può comportare di profondo e, insieme, di manierato. Nella Nationale apprezzavo soprattutto il contenuto, il soggetto. Trovavo anche la forma molto bella, ma mi dava l’impressione di essere in qualche modo qualcosa di aggiunto, forse di sovrapposto. Dopo aver visto Hiroshima non provo più quest’impressione.

Jacques Rivette, Hiroshima, notre amour, “Cahiers du Cinéma”, n. 97, luglio 1959



Insomma, Alain Resnais è un cubista. Intendo dire che è il primo cineasta moderno del cinema sonoro. Si sono avuti numerosi cineasti moderni nel cinema muto, tra cui Ejzenštejn, gli espressionisti, e anche Dreyer. Ma credo che il cinema sonoro sia stato in certo senso più classico del cinema muto. Non abbiamo ancora avuto un cinema profondamente moderno che abbia tentato di fare ciò che ha fatto il cubismo in pittura e il romanzo americano in letteratura, cioè attuare una sorta di ricostruzione della realtà a partire da una determinata frammentazione, che può magari sembrare arbitraria agli occhi del profano. E, in questa prospettiva, si può spiegare l’interesse di Resnais per Guernica – che nonostante tutto è un quadro cubista di Picasso, sebbene non si tratti di vero cubismo – e, d’altra parte, si può ben spiegare il fatto che si sia ispirato a Faulkner o a Dos Passos, anche se ciò è avvenuto per il tramite di Marguerite Duras.

Eric Rohmer, Hiroshima, notre amour, “Cahiers du Cinéma”, n. 97, luglio 1959



Come Il posto delle frangole di Ingmar Bergman, Hiroshima mon amour è il film più importante e straordinario di questi anni. Entrambi sono film senza una storia, intesa nel senso tradizionale di una catena di fatti che hanno un inizio e una conclusione. Non c'è inizio ne fine in Hiroshima mon amour. Partirà la donna? Tutto lo fa credere al lume della logica. Ma potrebbe anche restare, non importa: il film si chiude su un movimento di ordine razionale, non drammatico: il reciproco riconoscimento. Quel che per tutto il film era stato il monologo di una donna (l'uomo non è che un reagente, come la città) si trasforma in dialogo: per lui, lei si chiamerà Nevers; per lei, lui si chiamerà Hiroshima.
Lo si accetti o no – perché, come tutte le opere che percorrono i tempi, Hiroshima mon amour può anche irritare – davanti a questo film di Alain Resnais si ha l'impressione netta che il cinema sia diventato adulto, che si sia emancipato da molte schiavitù e convenzioni. Siamo abituati a considerare un film qualcosa di analogo, di volta in volta, a un dramma, a una novella, a un racconto, a un “reportage”.
Hiroshima mon amour
è qualcosa d'altro: è un poema. Il suo tono è lirico. Se è facile trovare le fonti letterarie dello stupendo testo di Marguerite Duras (Eluard, Aragon), non lo è altrettanto parlare dei precedenti cinematografici dell'opera di Resnais. Bisognerebbe citare i suoi film, i documentari che il pubblico italiano non conosce e che continuerà a ignorare sino a quando qualche distributore non avrà il coraggio di mostrargli, per esempio, Nuit e brouillard, o Les Statues meurent aussi, oppure – titolo eloquente – Toute la memoire du monde. Film della memoria, Hiroshima è anche e soprattutto un film sull'amore come lo sono, a loro modo, altri film della cosiddetta “Nouvelle Vague”, (forse è proprio l'amore, l'esaltazione dell'amore il denominatore comune che invano si cerca tra i registi del giovane cinema francese).
Rari sono i film, come i libri, che al pari di Hiroshima mon amour, riguardano ciascuno di noi sul piano privato come su quello pubblico. Perché questa è una storia d'amore inserita in un contesto che tiene conto della coscienza di infelicità di tutti. Film tutto orchestrato sul presente e sul passato (sul passato inscindibile dal presente) Hiroshima è anche un film dell'avvenire: dell'angoscia, della paura che incombe sul nostro avvenire. “Tutto ciò si ripeterà” dice la donna di Hiroshima. [...]

Morando Morandini, Hiroshima mon amour, “La notte”, 24 ottobre 1959



Con Hiroshima, Alain Resnais percorre una nuova tappa. L'espressione del tempo gioca qui un ruolo tanto importante quanto in Citizen Kane. Ma, invece di servire da mezzo per percepire i segreti di un individuo particolare, il tempo stesso diviene personaggio di un film dove gli esseri umani, gli avvenimenti, così crudeli, così gravi che siano, sono dei pretesti. Più precisamente, Resnais vuole porre davanti allo spettatore un certo problema di tempo, vuole darci una certa idea di tempo e non semplicemente raccontarci una storia o portarci una testimonianza. Che cos'è pertanto questo problema?
Evidentemente, si tratta del problema della memoria e del dimenticare. Si propone di mostrarci che la memoria è una forma del dimenticare, che il dimenticare non può realizzarsi totalmente se non una volta che la memoria ha lei stessa compiuto la sua opera.
Notiamo che non si tratta di un problema isolato nella produzione cinematografica di Alain Resnais. Vi ricordate nel film Les Statues meurent aussi che trattava della rimozione volontaria o involontaria delle civiltà primitive. Vi ricordate di Guernica, film “d'arte”, costruito su un quadro che commemora un evento drammatico. Vi ricorate di Nuit et brouillard dove le immagini a colori di un presente pacifico, dimentico, servivano da contrappunto alle immagini in bianco e nero delle atrocità passate. Vi ricordate infine di Toute la mémoire du monde, giustamente così chiamato, che descrive in maniera metodica il cimitero dove dormono le grandi opere del passato e che chiamiamo biblioteca.
Tutti questi film erano ancora dei documentari. Resnais affrontava il problema dall'esterno utilizzando diversi pretesti. Con Hiroshima, si attacca al problema dall'interno e pretende di mostraci come il dimenticare è vissuto da qualcuno.
Ho detto “lui” ma, di fatto, questo film ha due autori. Certi critici hanno preteso di opporre il contributo di Marguerite Duras a quello di Alain Resnais; io credo al contrario che siano inseparabili e che la prima, e forse la più grande, originalità di Hiroshima risieda qui: ciò che gli autori hanno voluto dire, lo dicono alla volta dell'immagine e della parola. Non immaginiamo Hiroshima muto: i dialoghi non sono mai veramente esplicativi: constituiscono un elemento fondamentale del racconto.

Bernard Pingaud, À propos d'”Hiroshima mon amour”, “Positif”, n. 35, luglio-agosto 1960



Le risonanze sono numerose, non si finirebbe mai di citarle. Bisogna fare una scelta: delle cupole sconosciute della statale a quella (rudere/relitto) simbolica ritmata qui dalla cadenza delle parole, dei fiori nati dai residui del carbone nello Styrène a fiori ancora più strani della consacrazione dei corpi all'atomo (visioni “preparate”, rese sopportabili, non dovrebbe essere dimenticata, per la sequenza di apertura e l'utilizzo del piano di questa sequenza in leitmotiv dopo tutta questa prima parte).
E questo riferimento alla pubblicità per un sapone, che turba perché si pensa immediatamente a certi saponi fabbricati in maniera particolare; questo è detto in Nuit et Brouillard. Come i capelli nipponici vogliono raggiungere il favoloso cumulo dei granai di Auschwitz. Vedo bene al richiamo di una parte della sua opera ciò che sciocca tanto da Resnais e gli vale, a lui solo, la vera interdizione e l'ingiuria che ha vergogna di se stessa; e che la felice ma breve raffica di snob, cinguettanti e pigolanti a sproposito, irrequieti, gli lascierà, la piazza deserta, ai latrati e agli strazi. Questa è la semplicità. [...]. La franchezza ed il coraggio alleato al miglior talento. Il sole di Van Gogh conduce al sole di Hiroshima. La distruzione estemporanea di Emmanuelle non temprata dalla madeleine nella sua birra.
Il terzo movimento comincia e la sua dimensione è il tempo. L'essere tutto intero è un tempo che si racconta, con le sue omissioni, i suoi cambiamenti e le sue menzogne; e raccontare – raccontarsi a fondo – è svuotare la bottiglia; dopo non resta niente. È un liquido prezioso che non si stupisce di offrire con parsimonia. Ma talvolta, una sera di malinconia che chiama l'ebrezza, ci si sorprende di essere niente più che un contenitore, di aver lasciato colare per sempre il contenuto; e bisogna presto rimpiazzarlo sotto pena di grave pericolo. È veramente in questi momenti che perde il suo tempo. Tempo che, lui, assomiglia a questa amicizia, della prima infanzia, dell'adolescenza, della maturità o dell'anzianità; che sono raramente nelle stesse persone.Ciò che conduce molto naturalmente alla tecnica più semplice e la più cinematografica che sia; il montaggio schietto, del presente vissuto e del ricordo passato, senza dissolvenza incrociata né movimento di camera, tutto questo bric-à-brac la nozione più elementare, la più intima legata a ciascuno dentro di noi: l'associazione di idee, la brusca concatenazione del pensiero, il miscuglio brusco dei pensieri, dei ricordi, delle idee e delle sensazioni. Quando l'immagine del passato ci colpisce: campo, controcampo. Ciascuno riguardo al suo tempo: si guarda. Uno specchio. Il tempo è il creatore dell'emozione. Anche nelle opere a due dimensioni, l'emozione che nasce davanti ad una tela viene dal tempo: dalla durata durante la quale la guardiamo. Dove a vantaggio, almeno, alle discipline più essenzialmente temporali come la musica. Bergson pensava soprattutto all'inadeguatezza delle parole al pensiero filosofico che vuole maggiormente le parole pure, espressive in sé.
Il primo piano è bello ancora perché è la prima metafora cosciente del cinema. Hiroshima apre la via del cinema poetico; dopo Hiroshima, il film poema esiste come genere, non più come frammento, quasi sempre involontario, di un altro film.
[...] Per un cambiamento totale di ritmo, questo tempo che fu spremuto e mischiato e al presente stende interminabilmente. La due parole davanti il momento culminante finale, le parole chiave dei temi del film sono ripetute senza sosta: “Nevers... de Nevers...” fino all'incantesimo, nella scena della stazione [...]: “Hiroshima... Hiroshima... Hiroshima...”.
Talvolta, quello che ci arriva, vogliamo averlo desiderato. La fine di questo film è la ricerca di dimenticare, ma allo stesso tempo dell'indimenticabile: poiché lei resterà a lungo in questo ricordo; ciò che lei ha rifiutato per paura di dimenticare.
L'emozione non può nascere dal rifiuto del ricordo.
Soltanto i poeti dicono la verità. Le parole non vogliono dire niente, questo perché le parole inevitabili della dimostrazione matematica per esempio, somigliano tanto a delle spine.
Amiamo che Emmanuelle Riva sia come mille donne insieme. Il primo contatto con una grande attrice (Tu!) è sempre inquietante; di quell'inquietudine che viene dall'espressione nuova, al di la delle abitudini riconosciute ma che il cuore accetta, non senza una leggera tensione. Se lo spirito ci mette più tempo, dopo non vuole più che sentire parlare di quell'espressione. Nessun altro poteva mostrare un'istante di mondo, del nostro mondo, con più verosimiglianza. [...] Non c'è una giovane donna più reale di questa attrice. Questo è quindi quello che sono! Decisione tanto decisiva quanto quella di un grande pittore su un paesaggio. Questo esercizio è pericoloso, da due punti di vista: è come un numero di trapezio, sempre alla limite della sicurezza – un abbandono totale e tuttavia controllato, questo provare fino a dove si può andare troppo lontano. [...] Pochi attori avrebbero superato questa prova, e nessun non attore l'avrebbe fatto...

Maurice Pialat, Dimensions pour mouvements (1959), “Positif”, n. 628, giugno 2013



Vedere un film di Resnais significa seguire la marcia forzata di un influsso nervoso lungo le immagini (come se le immagini fossero dei neuroni) e nelle circonvoluzioni del montaggio. Significa anche, inevitabilmente, registrare una dispersione, l'entropia e persino una certa detumescenza. Tutte cose legate da sempre alla modernità cinematografica. Cosicché parlando di Resnais (in genere con rispetto), abbiamo la cattiva abitudine di cominciare a descrivere i suoi film come delle macchine astratte (montaggi sapienti, racconti intrecciati, rime immaginarie) ma di tralasciare il suo modo di filmare, di avvicinarsi a un corpo, di sceglierlo e, magari, di amarlo. Il Resnais che filma interessa meno del Resnais demiurgo. Ora, se c'è un enigma Resnais, è in questo: in quel modo di filmare nel quale non passa nessun affetto (o solo raramente), “severo ma giusto”: senza odio, ne desiderio, ne violenza. Con una cortese indifferenza per tutto quello che costituisce la singolarità delle cose e degli individui. I personaggi di Resnais intrattengono con il film che li ospita una relazione di incertezza: sono dei campioni-ipotesi, delle idee-cavia, la parte “fantastica” di una “scienza” che essi ignorano. Come le parole crociate: corrispondono a delle definizioni che sono esterne a loro per principio e da sempre. Ne consegue un cinema di idee, allegorico e un po' freddo, e anche il rischio di accademismo.
Un cineasta che preferisce il generale al singolare non da forse fastidio? Ma questa preferenza non ha una storia? Nel caso di Resnais, sì. Quest'uomo ha realizzato tre film geniali, tre testimonianze non ricusabili della nostra modernità, tre manoscritti redatti in versione originale in quella che Blanchot chiama “scrittura del disastro”: Notte e nebbia (1956), Hiroshima mon amour (1958) e Muriel, il tempo di un ritorno (1963). Nella svolta degli anni '60 Resnais è stato qualcosa di più che un buon cineasta: un sismografo. Gli è capitata quella cosa orribile che è cogliere l'avvenimento fondante della modernità: che al cinema come latrove, bisognerebbe fare i conti con un personaggio in più: la specie umana. Ora, quel personaggio era stato appena negato (i campi di concentramento), atomizzato (la bomba), umiliato (la tortura) e il cinema tradizionale era assolutamente incapace di “restituire” tutto questo. Bisognava trovare una forma. Lo ha fatto Resnais.
Si interessa sempre alle condizioni-limite della specie. Alla tabula rasa, all'azzeramento, alla soprevvivenza, all'amnesia, al lavaggio del cervello, all'educazione-riempitivo. In queste condizioni-limite non ci possono più essere singolarità: il disastro è anonimo, l'individuo, il “personaggio” scompaiono. Resnais, più che il cineasta dell'immaginario (che ha creduto di essere) è il cineasta dell'inimmaginabile (quale è stato per davvero). In seguito rifarà “in vitro” er gioco, per ironia o per gusto morboso, dei film simili a degli esperimenti, con “specie umana” nel ruolo principale. Ma nei suoi film si sentirà sempre una certa qualità di silenzio che viene sia dal suo amore per il cinema muto (l'avanguardia france se degli anni '20) che dal ricordo dell'immediato dopo-fine del mondo.

Serge Daney, Resnais e la “scrittura del disastro” “Ciné journal”, 21 aprile 1983, tr. it. in Ciné Journal, Biblioteca di Bianco & Nero, Venezia 1999



L’importanza del film risiede nella sua capacità di rinnovare le convenzioni narrative e della comunicazione filmica. Su questo piano viene considerato da larga parte della critica una delle tappe fondamentali della storia del cinema. Esiste infatti una evidente contraddizione fra la fascinazione creata dal linguaggio letterario della Duras, e dalle scelte parallele operate nel campo dell’immagine, e la distribuzione delle coordinate spazio-temporali a cui lo spettatore è abituato, come strumenti di controllo e di ‘conoscenza’ della realtà. I modi dell’irruzione del ricordo dell’esperienza del presente sono tutti messi in opera, per costringere lo spettatore ad un atteggiamento interrogativo e quindi di partecipazione attiva. Non solo la mescolanza inestricabile del passato e del presente è funzionale al ‘significato’ di fondo del film (uso questo termine solo per semplificare, dal momento che è improprio parlare di ‘significati’ o ‘messaggi’ per i film di Resnais), ma essa propone allo spettatore complessi problemi d’interpretazione. La costruzione apparentemente unitaria e giustificata da ragioni ‘liriche’ è continuamente negata e dialettizzata dalla irruzione di elementi imprevedibili e ‘illogici’ in una costruzione narrativa convenzionale e lineare. Basti qui ricordare le ‘presenze’ dei rumori di Hiroshima mentre la protagonista rievoca le immagini di Nevers o tutto l’asincronismo del ‘recitativo’ della Riva nella prima parte del film rispetto alle immagini su cui si appoggia.
Una seconda e forse più importante ‘rottura’ convenzionale rispetto alle attese dello spettatore, e destinata quindi a creare un voluto ‘fastidio’, è la costruzione ‘anti-eroica’ dei personaggi, che sono piuttosto testimoni che non protagonisti degli avvenimenti evocati. Ma, nota lo stesso Resnais, è quanto capita alla maggioranza dell’umanità, che appare per lo più estranea ai grandi problemi della storia e alle grandi catastrofi, quali lo sganciamento della bomba atomica a Hiroshima. Né la piccola francese né il suo amante giapponese erano presenti allora a Hiroshima, ma il senso del film promana anche dalla costruzione di un rapporto con la storia a partire da questa assenza.
[...] Il rapporto tra suono e immagini è estremamente elaborato, spesso ambiguo, contraddittorio, indecifrabile ad una prima lettura. I suoni di Hiroshima sono accoppiati ad immagini di Nevers per ottenere l’effetto di ‘attualizzazione’ del ricordo, cui accennavo sopra; ma può accadere anche il contrario, come in occasione del ‘grido’ rivissuto nel caffé di Hiroshima, quando lei rievoca l’abbraccio disperato al corpo morto del tedesco. In altre sequenze i suoni presentano uno statuto particolare, quasi di raccordo fra il ricordo e il presente, e sono accoppiati ad immagini di natura diversa.La costruzione lineare di tempo e spazio viene totalmente negata in funzione di una nuova realtà mentale in cui passato e presente, Nevers e Hiroshima sono compresenti in un’unica continuità. Ciò è dato anche dal tipo di montaggio in cui l’immagine mentale del ricordo è collocata nella sequenza attraverso stacchi improvvisi e non per dissolvenze incrociate (come si usa nel linguaggio filmico tradizionale). Anche ciò che provoca nello spettatore problemi d’interpretazione e, dopo la prima mezz’ora del film, una particolare sensibilità e disponibilità alla fascinazione del nuovo linguaggio. Il testo poetico (o mélo, come alcuni critici l’hanno definito) assolve ad una funzione simile. Le parole del dialogo e del recitativo fuori campo hanno spesso due livelli di significato: oltre quello letterale ne va ricercato e riconosciuto un secondo, metaforico e simbolico, derivante sia dalla particolare ricercatezza delle parole stesse, sia soprattutto dalla ripetitività o dall’accoppiamento illogico e straniante con immagini di natura ‘diversa’. Basti pensare alla famosa frase iniziale ‘Tu non hai visto nulla di Hiroshima’, oppure il ‘Tu mi uccidi, tu mi fai del bene’, o la descrizione delle maree sul fiume Ota (‘I sette rami dell’estuario del fiume Ota si svuotano e si riempono all’ora solita... di un’acqua fresca e pescosa... grigia e blu, a seconda dell’ora e delle stagioni’). Le stesse modalità di dizione del recitativo tendono a spezzare le regole convenzionali della riconoscibilità voce-personaggio. Si alternano così toni di recitazione naturalistici e ‘musicali’, psicologicamente tesi e motivati accanto ad altri atoni e straniati. Anche all’uso della voce recitante Resnais costruisce una complessa struttura musicale ‘polifonica’, in cui ogni elemento si carica dei significati e delle caratteristiche plastiche degli elementi contigui.

Flavio Vergerio, I film di Alain Resnais, Gremese Editore, Roma 1984



I due corpi inceneriti dall’esplosione atomica sono i corpi vivi e amanti di una francese e di un giapponese, entrambi senza nome, che provano a riattraversare insieme la breccia temporale aperta dalla bomba e non ancora richiusa. Come in un film di fantascienza, genere molto frequentato da Resnais. Sono corpi vivi e ubiqui, che vivono istantaneamente (ancora la suggestione bachelardiana indicata nel Van Gogh) il passato e il presente, folgorati per un attimo in una coesistenza che, durativamente, sarebbe impossibile.
Il seguito del film – come dire il film – sarà il romanzo per immagini di tale impossibilità (incompossibilità, direbbe Deleuze). Puntualmente, l’istante successivo, si vedono i corpi bagnati e decontaminati dalla cenere, poi i corpi lucidi e vibranti tesi nell’amplesso. E dentro la grammatica di quest’amplesso scorre, in contrappunto, come nel Van Gogh (i corpi in questo caso sono il quadro, e ne hanno infatti tutta la plasticità), il documentario di Hiroshima, col suo ‘museo degli orrori’, le corsie dell’ospedale, le strade costellate di rovine e il ricordo incancellabile di una città distrutta, di corpi piagati, infettati, tumefatti. Duecentomila morti, ottantamila feriti in dieci secondi, scandisce la voce off, assimilabili ai duemila di Guernica, ai sei milioni dell’Olocausto. Eppure, sostiene Duras, quello di Hiroshima è un finto documentario. E, rincalza Resnais, il film è anche un film sull’impossibilità di continuare a fare documentari. Hanno ragione entrambi, ma in senso forse diverso da quello delle loro dichiarazioni. Perché quei quindici minuti iniziale sulla ‘notte e nebbia’ o sulla ‘Guernica’ di Hiroshima sono in effetti un documentario e hanno tutti i crismi del documentario, ma, per le ellissi del montaggio, risultano essere solo un riecheggiamento, o un’intermittenza, sia pur corposa, speculare alle altre intermittenze dei due corpi allacciati.
Il documentario è innestato nel tronco di un’affabulazione, è decostruito in tutte le sue spettanze cronachistiche e funge soltanto da sfondo, da ‘richiamo’ romanzesco. Quando, poco più avanti, consumato il primo amplesso, gli amanti si ritroveranno sul set del ‘film sulla Pace’ e assisteranno insieme alla sfilata, l’istanza documentaristica tenterà nuovamente di imporsi, ma si tratterà ancora di una pseudo-emergenza. Gli amanti non sono attratti dal corteo (allestito appositamente per il film di Resnais), sono solo attratti, reciprocamente, dai loro corpi, che desiderano ancora – malgrado il proponimento iniziale di non rivedersi più – toccarsi, sentire la propria perfetta liscia epidermide. Per di più questa volta, nella griglia del ‘romanzesco’, s’è insinuato un segnale rivelatore. Accanto alla coppia, ai bordi della strada dove sfila il corteo con cartelli e stendardi pacifisti, si staglia nettissimo un uomo piagato, un corpo infetto. L’eros riemergente della coppia sembra riemergere, oppositivamente, dalla vicinanza intollerabile di quel corpo insano. Immediatamente dopo, nell’appartamento vuoto di lui (la famiglia è in vacanza), il rinnovarsi dell’amplesso – e del lavacro purificatore – rinnova l’illusorio meccanismo del concatenarsi del sano col sano, nel ripudio assoluto del malsano. Ancora l’illusoria messa in parentesi dell’orrore, che non si vuole (o non si può) vedere, né da parte di lei, assente quel 6 agosto perché a Nevers, né da parte di lui, assente quel 6 agosto perché lontano da Hiroshima. Ancora la mitopoiesi dell’invisibile, come in Van Gogh, dell’inappropriabile, come in Notte e nebbia.‘Tu n’as rien vu à Hiroshima, rien’, le ripete ossessivamente lui, che almeno vi ha perduto i parenti più stretti e dunque sa. Lui è comunque giapponese, ‘completamente’ giapponese le assicura. E allora è a portata di mano – la mano di lei – per un movimento di approccio, per uno slancio di appropriazione dell’Altro, del Rimosso, del Passato, dell’Invisibile. Ma non è un travelling, ahimè. Siamo dentro una stanza chiusa, dentro una geografia erotica del tutto statica, opaca, autistica. Il movimento della conoscenza è tutto epidermico, tattile, non affonda, non penetra. Si accontenta di evocare, di soggiacere musicalmente alla fascinazione della voce, delle voci, alternativamente monologanti: perché il dialogo è empatia e qui lo stentato francese di lui non può entrare nella lussureggiante prosa durasiana di lei, lambiccata di lirismi, sfrangiata di sapienti pause ipnotiche.
Solo per un istante ancora, il confronto Io-Altro, interno-esterno, visibile-invisibile, dà luogo alla folgorazione analogica, a quella conoscenza esclusivamente intuitiva, inaspettata, improgrammabile, che sfugge alla concentrazioni esteriori dei corpi e delle azioni e scocca per un’intima simpatia dell’immaginario: dopo l’amore, dopo essere uscita un istante sulla terrazza, lei, al rientro in camera, vede, finalmente: vede nel braccio abbandonato di lui sul letto il braccio di lui – l’Altro – morto a Nevers. Ma è solo un istante, l’intuizione di un istante. Dopo, alla tea room notturna sul fiume, quando lei indugerà a raccontare in flashback il suo nefas, la sua avventura di diciottenne in fiore col soldato tedesco lungo le campagne e gli argini della Loira, tutto risulterà banalizzato. Un banale flashback, appunto, anche se Resnais si ostinerà sempre a dire – per un comprensibilissimo meccanismo di difesa – che non esistono flashback in Hiroshima e che tutto è presente. Mentre sappiamo che la memoria resnaisiana, la quale non a nulla a che fare col banale ricordo, è di natura interstiziale, è tutta intessuta in baleni e sussulti improvvisi, repentini, inavvertiti; è l’azzardo dell’incongruo che si fa congruo nella misura in cui collide e collude col presente e ne modifica le sembianze, le traveste, le obnubila.
Qui il ‘film di Nevers’, di per sé bellissimo, girato da Sacha Vierny in un bianco/nero da film d’anteguerra, attraversato dai cupi riverberi della provincia francese, disteso tra le corse in bicicletta di lei per la campagna e gli appuntamenti con lui – l’Altro – in campo lunghissimo, diventa senza volerlo una confessione da avventori di un café de nuit (ancora Van Gogh!), un po’ spettrale per l’assedio del buio circostante e del fiume sottostante: una memoria tutta in orizzontale, che allinea, episodio per episodio, tutte le insorgenze di Nevers: il taglio dei capelli per punizioni, l’esposizione alla gogna, la reclusione in cantina. Ed è solo in quest’ultima tranche memoriale che il montaggio s’impenna e torna il brivido della visione delle camere a gas di Notte e nebbia, con le tracce delle unghiate dei condannati che laceravano persino il cemento. Le unghie di lei diciottenne, che quattordici anni dopo graffieranno il muro della prigione familiare, nell’ottenebramento – c’è anche il gatto nero di Poe – di una coscienza ferita.

Sergio Arecco, Alain Resnais o la persistenza della memoria, Le Mani, Recco 1997



Alain Resnais è l'artista che ha ulteriormente evidenziato l'implicita storicità del cinema (e della vita), grazie alla costruzione di film che già in sé si prospettano quasi come delle cattedrali della memoria, dei tentativi di recupero, delle faticose emancipazioni dal (e del) passato, nonché delle sovrapposizioni temporali particolarmente rivelatorie; in questi film il tempo no è certo un medium inerte o un occasionale sfondo scenografico: casomai, è la sostanza stessa degli avvenimenti e dei personaggi coinvolti. Se Hegel è il filosofo che ha introdotto la temporalità nel pensiero filosofico, allora Resnais è probabilmente i regista che ha evidenziato con maggior forza il carattere visceralmente temporale dell'immagine.
In particolare, in Hiroshima mon amour, il dramma di Hiroshima, quattordici anni dopo la tragedia, non è un ricordo, un (atroce) memento esclusivamente vincolato “al passato”, ma è configurato più come evento onnicomprensivamente temporale, abbracciando passato, presente, futuro. La fugace relazione amorosa tra una francese (Emmanuelle Riva) e un giapponese (Eiji Okada) nella città di Hiroshima fa da sottilissimo supporto a un flusso continuo di ricordi, verbale e visuale, in cui le parole fuori campo (scritte da Maguerite Duras) risultano tanto importanti quanto le immagini. Il ritornello delle frasi conferisce un'immediata fisicità all'aspetto ricorrente e avvillupante del tempo. Memoria e Oblio sono i temi perennemente intrecciati alle parole e alle immagini del film: ricordare Hiroshima, dimenticare Hiroshima. La stessa tensione che ne consegue costituisce la trama dell'amore fra quest'uomo e questa donna (dei quali non conosciamo i nomi), che continuamente si separano e si riuniscono: vogliono rimanere uniti, e allo stesso tempo desiderano separarsi. (Solo alla fine viene loro attribuito un nome: ma si tratta di un nome storico-temporale, che allude all'elusivo rapporto conflittual-amoroso sperimentato da entrambi: “Il tuo nome e Hiroshima”, dice la donna; “Il tuo è Nevers”, le ribatte l'uomo, riferendosi alla sua città natale).
Tutto il film è un continuo confronto tra due maniere diverse – e a quanto pare, incompatibili – di ricodare, testimoniare, insomma esercitare l'ambiguo potere della memoria nonché, allo stesso tempo, di due maniere diverse di dimenticare (il primo ritornello verbale è: “Tu non hai vito nulla a Hiroshima”). Per cominciare, lui è un giapponese completamente immerso nella realtà di Hiroshima, mentre lei è solo un'attrice giunta in questa città per fare “un film sulla pace”. Le immagini della tragedia reale di Hiroshima sono costantemente mischiate con una fittizia ricostruzione dei fatti tesi in realtà alla costruzione del film (“Quattro volte al museo di Hiroshima. Fotografie, in mancanza d'altro. Spiegazioni, in mancanza d'altro”). L'abisso va spalancandosi continuamente nel corso del film, come se, sia sul piano storico che su quello affettivo, questi due esseri fossero condannati a oscillare eternamente intorno all'altro senz'arrivare mai a fondersi. L'unica cosa che hanno in comune è la resistenza all'oblio, così some la resistenza a ricorare: resistenze vissute in maniera profondamente diversa.
Eppure il film non “racconta” tutto questo, ossia non lo “narra” dall'esterno come fosse già fissato in un testo scritto: lo vivifica, lo sensibilizza, lo trasforma in un flusso audiovisivo nel quale lo spettatore penetra abbandonandovisi come in un sogno diurno. Resnais qui cerca precisamente di mostarre come la temporalità di questi eventi non vada attribuita all'ambito del “già svolto”: essa piuttosto mantiene questi ultimi in sospeso, attualizzandoli di continuo e impedendo loro di dissolversi in quel semplice “passato” che può essere comodamente “richiamato” ed “evocato” a piacere. Hiroshima, infatti, qui non è affatto una semplice “evocazione”, ma una presenza oppressiva, qualcosa che si sta vivendo adesso, insomma una realtà che ritorna infinite volte come le parole stesse del copione, la ripetitiva ciclicità dei volti che appaiono, le atroci immagini che non vogliono sparire.
Solo il cinema possiede il linguaggio capace di costruire una simile temporalità degli eventi, che Hegel cercò invano di restituire in forma di proposizione articolata (e che chiamò “frase speculativa”). Gli sarebbe servita una macchina da presa. La parola risultà chiaramente incapace di incarnare la temporalità dell'essere: sembra sia solo in grado di “riferirvisi”, senza sussumerla. La natura traumatica dell'evento a cui il film continuamente si riferisce, ossia il bombardamenti di Hiroshima, serve a evidenziare quella temporalità che in fin dei conti costituisce l'autentico tessuto connettivo di qualsiasi evento umano; e il cinema di Resnais non fa che sensibilizzare la tesi hegeliana della storicità dell'essere e, contro l'immagine intuitiva e tradizionale di un essere che “passa” per un tempo esterno e inessenziale, mostra nelle sue immagini la fondamentale identità di essere e tempo.

Julio Cabrera, Da Aristotele a Spielberg, Capire la filosofia attraverso i film, Bruno Mondadori, Milano 2000



Siamo di fronte all'incontro di immagini che, prese singolarmente, hanno un significato ben misero – quando non inesistente – ma che, trasformate in sintesi di un evento, convogliano la sensazione di un luogo molto preciso e di un non-luogo storico pieno di orrore, allo stesso tempo estremamente concreto e intrinsecamente astratto. L'accuratezza del documentario è connessa a un misterioso, iperrealistico surplus generato da ogni immagine: la stanza d'albergo, i viali, il museo, il corridoio dell'hotel, il caffè sul fiume, il parco, i centri commerciali, la sala d'aspetto di una stazione... la fisicità degli ambienti, l'intensità degli oggetti sono affascinanti. Il fatto più banale diviene qualcosa di scioccante e soggiogante: per usare le parole di Georges Sadoul, “vista da Resnais, l'immagine di una banalissima poltrona diventa un'immagine romantica”.
Questi elementi, indipendentemente dalle loro caratteristiche e origini, sono tutti divenuti parte del mostro retaggio comune e della memoria “oggettiva”. Non si può essere schizzinosi di fronte a queste cose, e si instaura una strana forma di democrazia quando immagini reali, filmate un giorno dopo lo scoppio della bomba, e false immagini commerciali, tratte da un horror giapponese degli anni Cinquanta, sono poste sullo stesso piano e trattate con lo stesso rispetto.

Peter von Bagh, Quindici minuti magici di “Hiroshima mon amour”, in Alain Resnais, L'avventura dei linguaggi, a cura di Roberto Zemignan, Il Castoro, Milano 2008



Hiroshima mon amour
non è un film come Ballet mécanique di Fernand Léger o Empire di Andy Warhol. Ma se ammettiamo nella moltitudine delle creazioni cinematografiche, l'esistenza di un “polo sperimentale” radicale segnato da delle opere al limite non narrative e non figurative, da cui si assomigliano o si allontanano più o meno tutti i film, allora Hiroshima è infinitamente più vicino a questo polo che, per esempio, Rio Bravo o Si Versailles m'était conté. In maniera generale, da Dziga Verov, Walter Ruttmann o Joris Ivens, i film suddetti, fanno di meglio, documentari, soprattutto corti, hanno la tendenza ad assomigliarsi più che i lungometraggi di finzione.Alain Resnais ne è lui stesso cosciente in una certa maniera. Quando “Le Monde” gli domanda il 9 maggio 1959 se ha avuto difficoltà a passare dal corto metraggio al lungo metraggio, lui risponde: “No, Hiroshima mon amour non è un vero lungometraggio, ma piuttosto un lungo cortometraggio”. Vuole con questo dire che si permette degli effetti di montaggio, delle rime visuali, dei grossi piani simili a delle nature morte, che sembrano riservati di solito ai cortometraggi documentari o, come non si dice ancora molto, ai film sperimentali. Ed è vero che, nelle prime inquadrature – immagine quasi enigmatica di corpi nudi successivamente coperti di sabbia, di paillettes e di sudore - si crederebbe in qualche film “corporale” degli anni '60. Un po' dopo, i piani dei malati nell'ospedale sono montati in maniera tale che si abbia dall'uno all'altro raccordo o opposizione di movimento come quella che si genera così spesso ne L'uomo con la macchina da presa o Berlino, sinfonia di una grande città. In modo generale, la sceneggiatura di quello che Resnais e Duras chiamano il “primo atto” nelle continue conversazioni che si scambiano per posta nell'agosto 1958 è un modello di complessità. È, può essere, perché il “Time” scriverà di Hiroshima nel 1960 che è “mille film in uno”.
L'eterogeneità dei materiali (immagini d'archivio, ricostruzioni filmate, inquadrature girate all'ospedale o al museo, carrellate nella città, il tutto punteggiato da una mezza dozzina di piani di strette simili a quelli dell'inizio, e accompagnato da una musica straziante così come dai dialoghi degli amanti) è seconda solo alla diversità estetica: ora campi controcampi montati secchi, ora movimenti di camera lenti o bruschi da un personaggio all'altro; ora montaggio rapido di piani molto brevi fissi e geometrici (cupole in rovina, vetrate), ora immense carrellate avanti nei centri commerciali o nelle strade di Hiroshima.
Caso esemplare: all'inizio del film, la carrellata in avanti nei corridoi dell'ospedale deserto, che sembra, in anticipo, a metà tra due figure tipiche del cinema sperimentale: l'utilizzo di una porzione di spazio in profondità come supporto di una serie di variazioni plastiche (come Serene Velocity realizzato nel 1970 dall'americano Ernie Gehr) e gli immensi carrelli che struttureranno certi film di Jean-Marie Straub, di Chantal Akerman o... di Marguerite Duras stessa (così Les Mains négatives, 1978; serie di carrellate girate in macchina a Parigi a primo mattino).
Questa prima parte di Hiroshima comprende 136 piani per meno di 12 minuti di film, cioè una media di appena 6 secondi per piano! Le parti seguenti dove il racconto viene portato sul documento, hanno meno eterogeneità e più continuità, i piani sono qui meno numerosi e più lunghi. Non ha impedito: anche la struttura a palinsesto del film (un amore ne recupera un altro e, nello stesso tempo, lo ravviva) obbliga il montatore nato che è Resnais ed i brillanti accoliti che si è scelto (Henri Colpi, Jasmine Chasney e una delle figlie di Nathalie Sarraute) a darsi alle gioie del montaggio alternato: prima furtivamente, per tradurre lo scatto della memoria involontaria a favore di un' analogia visuale tra le mani dell'amante giapponese irrequieto nel sonno e quelle dell'amante tedesco in agonia - la successione rapidissima di piani di qualche fotogramma sembra annunciare un film di montaggio parallelo ultrarapido come Twice a Man (1962-1963) di Gregory Markopoulos - ; dopo in maniera più sinfonica, nella bella serie di panoramiche raccordate nel movimento e opponenti a due a due delle viste di Hiroshima la notte, al momento dove si presume di trovare la storia principale, nell'agosto 1957, e delle facciate filmate di giorno a Nevers (può essere in realtà ad Autun, ma poco importa) presumibilmente nel 1944.
Così Hiroshima è un vero laboratorio, come se al momento di cominciare la sua carriera di cineasta di finzione, Resnais passava con brio in rassegna tutte le panoplie dei mezzi di espressione che lui ereditava dai suoi antesignani, Lumière o Promio per le lunghe carrellate, Dziga Vertov o Abel Gance per il montaggio iper rapido, etc. etc. - tutto questo tesoro che l'accademismo nervoso del cinema hollywoodiano-televisivo della fine del secolo non ha ancora ricoperto della sua pania di effetti speciali al servizio di una finzione oscurantista e parkinsoniana.

Dominique Noguez, Jeunesse d'Hiroshima, in Chihiro Minato, Marie-Christine de Navacelle, Dominique Noguez, Tu n'as rien vu à Hiroshima, Gallimard, Paris, 2009