Sciascia, Rosi e il mito di Giuliano

Sciascia, Rosi e il mito di Giuliano

Sullo schermo la madre piange il figlio morto. A quella scena straziante, il pubblico in effetti reagiva come chi non avendo mai visto uno specchio improvvisamente vi si trova di fronte: lo stupore per la verità raggiunta, per la 'forma' di questa verità, superava la commozione che il 'contenuto' indubbiamente comunicava. Le risate che sottolineavano certi momenti, certi passaggi, certe battute del film di Rosi, esprimevano dunque omaggio alla verità rappresentata: il più competente elogio, tutto sommato, che poteva toccare a un film di così prodigiosa verità. I contadini si riconoscevano nei contadini del film, nei caprai, negli imputati che stavano nella gabbia dell’Assise; riconoscevano il pianto della madre, il furore delle donne; e l’eterna arroganza della 'legge', l’eterno tradimento che gli uomini della 'legge' seminano con oblique protezioni, con sinistri compromessi. Capivano tutto, senza nemmeno lasciarsi intrigare dal montaggio: piuttosto arduo, piuttosto 'difficile'. L’unico punto a lasciarli dubbiosi era Portella della Ginestra: si chiedevano se Giuliano l’avesse fatto davvero, e perché. Se ne erano dimenticati o non l’avevano mai saputo. Ma il fatto che, a vedere nel film l’episodio, non ne fossero persuasi e paresse loro un’invenzione, ci diede da pensare.
Per noi Giuliano andava bene: bellissimo, intenso film; mai la Sicilia era stata rappresentata nel cinema con così preciso realismo, con così minuziosa attenzione. E ciò discendeva da un giusto giudizio – morale, ideologico, storico – sul caso Giuliano. E tuttavia i contadini siciliani vedevano un film diverso, con diverso giudizio, con diversa morale, da quello che Rosi aveva effettualmente fatto: e non, stavolta, perché sprovveduti dell’alfabeto delle immagini in movimento, non per il 'ritardo' della loro mente. Una possibilità di equivoco, di ambiguità, doveva dunque trovarsi in parte nel film: e a noi parve di scoprirla nella 'invisibilità' di Giuliano. Per Rosi, crediamo, l’invisibilità era una specie di dato immaginifico del giudizio: non Giuliano contava, ma le forze, gli interessi, le persone che lo muovevano. Per il nostro spettatore l’invisibilità diventava invece un dato mistico: Giuliano come idea della rivolta contro lo Stato, della vendetta sociale, della redenzione del povero. Un impermeabile bianco e un binocolo, quasi attributo dell’idea: il bianco, la lontananza.
E diventa corpo, il bandito, sulla polvere del cortile De Maria, sull’ovale marmo della squallida morgue, sotto il pianto e le mani della madre. Una deposizione dalla croce, un Cristo. E Pisciotta, che era stato il Giuda, eccolo sbavare e contorcersi di veleno. E il 'confidente', il corruttore di Pisciotta, eccolo fulminato dalla lupara in un giorno di mercato, in piena luce: come si conviene ad una vendetta esemplare, solenne, 'religiosa'. Il contadino è soddisfatto: e gli resta oscuro quel punto, se ha davvero sparato a Portella della Ginestra, e perché. Rosi spiega perché l’ha fatto: ma evidentemente la spiegazione è valida per noi, per qualunque spettatore che ha netta coscienza civile o che almeno ha buona memoria dei fatti, del processo di Viterbo, delle declinazioni parlamentari del caso; non è per niente valida, resta anzi oscura ed incongrua, per quell’altro spettatore. Ora, ne siamo bel coscienti, non si può generalmente imputare a difetto di un’opera la particolare interpretazione che un certo tipo di spettatore ne trae; e, se mai, lo si può fare al di fuori della naturale sede in cui un’opera d’arte va giudicata. E così, fermo restando il giudizio sul film di Rosi come sull’opera più vera che il cinema abbia mai dato relativamente alla Sicilia, diciamo: poiché il film proponeva alla coscienza della nazione un fatto in cui le carenze e i vizi della nazione stessa, e dello Stato che ne emana, giunsero ad ignobili estremi; e come il mito della 'legge', l’autorità dello Stato, una certa concezione del parlamentarismo ne uscivano di per sé disgregati, bisognava didascalicamente, didatticamente, disgregare il mito di Giuliano. E sarebbe bastato fare di Giuliano un personaggio, un triste e feroce megalomane mosso da mani abili, da precisi interessi padronali ed elettoralistici: politici in definitiva. Relegandolo nell’invisibilità Rosi ha reso più dura l’accusa verso la classe dirigente che lo muoveva; ma al tempo stesso, per il pubblico siciliano, non faceva che confermare un mito.

(Leonardo Sciascia, La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Einaudi 1963)

 

 

 

Sì Sciascia ha scritto che il fatto di vedere poco Giuliano ha portato i contadini sicialiani che hanno visto il film a farne ancora di più un mito. Sciascia ha ragione, Giuliano è reso ancora più mitico dal modo in cui lo abbiamo rappresentato, ma il mio scopo non era chiarire il personaggio di Giuliano, il mio scopo era la Sicilia, i valori umani, la tragedia umana nata dai rapporti tra Giuliano e gli altri siciliani, tra Giuliano e i carabinieri, tra Giuliano e la vita politica italiana in quei momenti. Mitizzare Giuliano era inevitabile, perché non approfondire il personaggio voleva dire evidentemente mitizzarlo, è logico. Dopo tutto Giuliano era un mito e a me non interessava distruggerlo, mi interessava raccontare la Sicilia. I siciliani e Sciascia per primo hanno riconosciuto che Giuliano è stato il primo film vero sulla Sicilia.

(Francesco Rosi)