Rosi sul film

Rosi sul film

Un film 'morale' sulla Sicilia e sull'Italia

Nel 1960 volli affrontare un discorso sul cadavere di un giovane bandito diventato il nemico dello Stato italiano, morto dieci anni prima in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine secondo la versione ufficiale, in verità ucciso a tradimento per opera della mafia e consegnato morto allo Stato nel quadro della collusione tra il potere politico, quello delle istituzioni e quello della mafia. Nacque così Salvatore Giuliano. Mi affidai all’intuizione che avevo maturato in Sicilia, che solo a condizione di ricostruire gli avvenimenti nei luoghi dove erano realmente accaduti, e con la partecipazione della gente che li aveva vissuti solo pochi anni prima, mi sarei sentito capace di tentare, e che sarebbe stato 'morale' tentare in quella maniera: 'morale, in quanto una operazione del genere comporta un alto senso della responsabilità nei confronti di fatti e uomini realmente vissuti. Il film, più che raccontare l’uomo Giuliano, si propose la conoscenza di un momento storico della vita del nostro Paese, che aveva visto la Sicilia coinvolta in un progetto separatista politico e militare; si preoccupò di far conoscere meglio Sicilia e siciliani, ricchi di storia e cultura, ma non sempre facili da conoscere e capire; e di presentare la mafia al di là di ogni tentazione pittoresca, nella sua realtà di potere criminale, economico e politico internazionale, reso forte dalla violenza e dal ricatto della morte, ma più ancora dalle connivenze e dalle complicità con politica e istituzioni corrotte, e dalla 'tolleranza', ineffabilmente ammessa da alcuni responsabili, che il potere esercitava nei suoi confronti. Là dove la tolleranza, pur non essendo in se stessa un crimine, lo costituiva.






Inchiesta, denuncia, provocazione

Nel mio film, raccontato con il metodo dell’inchiesta e con una libertà di scrittura innovativa che accostava gli avvenimenti in ragione di ciò che significavano, più che per l’ordine cronologico in cui erano successi, la denuncia significò innanzitutto conoscenza di fatti e di uomini, e poi provocazione per un dibattito che ristabilisse dignità, forza morale e credibilità là dove si era persa. Conoscenza di uomini, ma anche rispetto e pietà per una terra e per i suoi figli che combattevano contro arretratezza e sopruso e contro il potere di vita e di morte della mafia. La pietà la devo alla partecipazione dei siciliani che avevano patito quegli avvenimenti. Il film per essi si mutò in uno psicodramma collettivo che diede valenza umana autentica a una rappresentazione di finzione cinematografica. Per questo, erroneamente, alcuni parlarono di documentario, e con questo pretesto fu respinto dalla commissione della Mostra del Cinema di Venezia, mentre venne poi premiato a quella di Berlino. Non era cinema documentario, ma documentato al fine di restituire brandelli di verità e far riemergere emozioni vere da una non placata memoria.




L'equivoco del cinema documentario

Per Salvatore Giuliano mi si attribuisce un lato documentaristico. Ma se ho tentato di esprimere le cose nel modo più vero, più semplice, più diretto possibile, ciò a mio avviso non ha nulla in comune con il documentario. In tutti i miei film si può riconoscere la volontà di esprimersi in un modo talmente diretto che può sembrare documentaristico, ma che è solo la ricerca di uno stile con un intento funzionale: la forma non deve intromettersi in modo pesante, massiccio, tra l’interesse mio e una verità che esiste esternamente... Comunque, non vi è dubbio che in tutto ciò è riscontrabile una costruzione, una ricerca formale. Detesto il cinéma-vérité perché... non esiste. Che cos’è la verità? C’è una realtà, che è una realtà oggettiva, esterna rispetto a noi. È fonte d’ispirazione per il regista. Il quale s’ispira alla realtà, ma deve dare, partendo da tale realtà, la propria verità. Non esiste una fonte d’ispirazione più ricca della realtà, ma io la tradisco se vi sovrappongo una forma che non sia dettata da quella realtà. Cerco di far nascere i miei film dalla realtà che osservo e analizzo. Non applicherò alla realtà una storia prefabbricata. Faccio in modo che l’ambiente che analizzo, e la verità umana che studio, mi dettino loro una storia. È ciò che ho fatto per Le mani sulla città e Salvatore Giuliano. Per Salvatore Giuliano, ad esempio, ho iniziato a lavorare, a raccogliere foto, articoli di giornale, sul banditismo e il separatismo in Sicilia. Un dettaglio, un volto, ti permettono di immaginare un’intera scena. Ma a un certo punto mi sono fermato e sono andato a Palermo e nei paesi vicini per prendere contatto con la gente, per parlare con loro, perché temevo un altro shock, avevo paura di costruire una cosa che poi sarebbe stata completamente distrutta al contatto con la realtà.






Un film 'traumatico'

Fu traumatico sentir dire in un film dall’interno della gabbia degli imputati del processo per i fatti di Portella della Ginestra - la prima strage politica consumata nel nostro Paese il 1° maggio 1947, e il primo dei misteri italiani irrisolti - che “mafia, polizia e carabinieri erano una sola trinità”; o che mentre carabinieri, poliziotti e soldati gli davano la caccia, Giuliano si abbracciava con l’ispettore del Corpo Forze Repressione Banditismo; o vedere che il bandito si recava tranquillamente nel suo paese, Montelepre, presidiato da 2000 tra poliziotti, soldati e carabinieri. Fu traumatico, ma andò ben oltre il clamore scandalistico, come non si era fermato allo scandalo l’articolo di Tommaso Besozzi, il grande giornalista che aveva rivelato su “l‘Europeo”, all’indomani del ritrovamento del corpo di Giuliano in un cortile di Castelvetrano, che ad ucciderlo non erano stati i carabinieri, ma un patto tra la mafia e lo Stato.