La fortuna critica

La fortuna critica

A tre anni dall’uscita della Passione di Giovanna d’Arco, il nuovo film di Dreyer può ben dirsi atteso almeno tra chi presta attenzione al cinema europeo e d’avanguardia, come dimostra il report di lavorazione pubblicato da “Close-up” (1931), “international magazine devoted to film art” fondata dallo scrittore e cineasta scozzese Kenneth MacPherson. La prima berlinese del maggio 1932, però, raggela ogni aspettativa, e se la recensione del “New York Times” sceglie una blanda ironia per bilanciarsi tra affermazioni trancianti (“il peggior film che abbia mai visto”) e il riconoscimento di un qualche potere fascinatorio, di più pesa il silenzio europeo, che il critico-cineasta Marcel Carné è tra i pochi a squarciare, nell’articolo appassionato apparso su “Ciné-Magazine”. Resta il fatto che per oltre un decennio Vampyr è per la critica un oggetto irritante, ingestibile, tendenzialmente da liquidare – mentre Dreyer sprofonda in una severa depressione. Ci vorranno Dies Irae (1943) e soprattutto il trionfo internazionale di Ordet (1955) perché si avvii un riposizionamento prospettico, anche se nel 1971 Tom Milne lo può definire ancora “un film da riscoprire”. Maggior rilievo sembrano allora assumere in questo contesto gli interventi italiani dei primi anni Quaranta, il Glauco Viazzi del 1940 su “Bianco e nero” e il ventunenne Ugo Casiraghi che nel 1942, in licenza dal fronte albanese, resta folgorato dal film alla Cineteca Italiana e ne scrive su “Cinema”, in una rubrica che a dieci anni dall’uscita già non esita ad annoverare Vampyr tra i “Vecchi film da museo”... Post mortem (nel 1968) per Dreyer le cose cominciano a cambiare, e gli interventi, i saggi, le riconsiderazioni della sua opera si fanno più densi e frequenti. Da “Midi-minuit fantastique” ai “Cahiers du cinéma”, dalla mimetica, ermetica lettura di Jean Louis Schefer alle raffinate annotazioni di Grmek Germani, per Vampyr si apre la strada che condurrà il film al suo attuale status di capolavoro.

Paola Cristalli




Il film fu dapprima proiettato a Copenaghen dove ebbe un grande successo di critica e pubblico, credo perché Dreyer era danese, e in seguito a Berlino nel 1931. Là il pubblico fischiò il film; me ne andai prima della fine. Dissero che c’era in sala un gruppo di gente a cui questa rappresentazione del vampirismo dava fastidio. Certamente avevano già delle idee precise in materia, e non erano le nostre. Nemmeno la stampa quotidiana apprezzò il film. A Parigi le reazioni furono miste: alcune persone tornarono più volte a vedere il film, totalmente affascinate. Tra di loro Misia Sert, la moglie del pittore José-Maria Sert, grande ammiratrice di Dreyer e in particolare di Vampyr. Quasi tutti gli impressionisti hanno dipinto un suo ritratto, era una donna molto bella e una persona straordinaria. Tutti quelli che conoscevano Dreyer di fama andarono a vedere il film. Altri, curiosi, andarono perché un loro amico, cioè io, vi recitava.

Nicolas de Gunzburg (intervista), “Film Culture”, n. 32, 1964




È anche un film singolarmente irritante. La sceneggiatura è così scadente che l’autore ha dovuto trovare la scusa che si tratta d’un sogno. Diciamo che è un trattamento assai confuso del vecchio tema del vampiro. […] La fotografia è costantemente sottoesposta, per produrre un effetto di terrore, ma spesso risulta solo torbida. I dialoghi, postsincronizzati, sono puerili e mal recitati. Posso raccomandarvi di andare a vedere Vampyr, quando arriverà a New York, solo se siete disposti a perdonare tutto in nome delle poche scene in cui un’ipnotica tensione drammatica vi farà correre inspiegabili brividi lungo la spina dorsale.

Berlin’s New Pictures, “The New York Times”, 31 luglio 1932




Come La Passione, Vampyr avrà i suoi convinti sostenitori e i suoi detrattori. Si divideranno probabilmente a metà, e tra i primi saranno tutti coloro che non si lasciano spaventare da una personalità irregolare, ma forte e in costante ricerca. In realtà, il nuovo film di Dreyer non può che essere accettato o rifiutato in blocco. Occorre dimenticare che fuori, a cento metri dallo schermo, passano delle autovetture a 40 cavalli, e che dalle finestre semiaperte dei palazzi vicini potremmo cogliere le voci nasali della radio, occorre lasciarsi trasportare dal pensiero in un piccolo anonimo villaggio dove sopravvivono credenze e superstizioni d’altri tempi. Ma è poi così difficile? Non credo, tanto è potente la forza incantatoria, la presa in cui Vampyr ci stringe fin dalla prima inquadratura, nebbiosa, quasi dissolta, come tutte quelle che seguiranno, in un soffocante ralenti da incubo. Perché è appunto d’un incubo che si tratta, nel corso del quale le bare e il loro contenuto appaiono e scompaiono. Vorremmo fuggire queste atroci visioni di cadaveri scheletriti, di maschere spaventose, queste storie di morti viventi. Ma non possiamo, affascinati come siamo da questi demoniaci tableaux di singolare bellezza, appena sfumati in un alone fotografico che non è il minor merito del film. Come nella Passione, una sorta di genio a un tempo mistico e diabolico risplende in un queste immagini sorde, opprimenti, come il succo cola da un frutto troppo maturo.

Marcel Carné, Le Vampire, “Ciné-Magazine”, ottobre 1932




Nei primi anni del sonoro fu realizzata un’opera relativamente poco conosciuta, almeno in Italia, ma di importanzza fondamentale non solo rispetto alla complessa attività del regista, ma anche e specialmente in riguardo ai problemi tutti e alle conquiste del cinema come espressione di arte: Vampyr di Carl Th. Dreyer. […] L’autore ottiene una profonda suggestione col sonoro e con la morbida evanescente fotografia di Maté. Gli attori l’assecondano: Julian West, nel ruolo di David Gray, si muove lungo i muri come un automa, e a poco a poco ci porterà tutti dietro di sé, e ci narrerà la spaventosa avventura. È lui che sorregge il tenue filo dell’azione, e son le sue le impressioni che noi risentiamo. Noi non conosciamo altra opera che, fin dall’inizio, con pochi semplici tocchi, incateni in tal modo la nostra attenzione. […] Qui è tutto che partecipa, si potrebbe dire, della ‘narcosi’ operata dall’ambiente: uomini e cose. E gli uomini contribuiranno ad acuirla, e la porteranno alla spasimo. […] Dreyer domina il suo film in maniera tale che, contrariamente all’opinione di molti, non c’è un punto solo di esso in cui l’autore dimentichi lo sviluppo complessivo del lavoro per darsi in braccio a suggestivi arabeschi stilistici. […]
Il film era pronto finalmente per il 1931. Alla camera il vecchio collaboratore Maté, con l’aiuto di Louis Née, aveva compiuto letteralmente miracoli; e uno degli scenografi del Caligari, Hermann Warm, aveva provveduto a immergere cose e personaggi in un ambiente ‘realisticamentefantastico’. Ma ovunque si sentiva la mano di Dreyer: nel tono impresso alla vicenda, nel muoversi lontano e indipendente delle figure, nel parlato estremamente sobrio ed incisivo, nelle geniali angolazioni. Era l’opra di un uomo solo, di un unico creatore. E appena dopo averla condotta a termine, il regista danese doveva essere ricoverato in una casa di salute svizzera; poiché anche questo è risaputo: che i capolavori sogliono vendicarsi di chi li ha potuti realizzare.

Ugo Casiraghi, Vampyr, “Cinema”, n. 148, agosto 1942




La differenza di prospettiva tra un banale venditore di immagini e un gran cineasta, quando entrambi si trovano alle prese con un soggetto già ampiamente maneggiato come il vampirismo, è tanto minima nelle premesse quanto notevole negli esiti. Il primo andrà dritto alla meta, si affretterà a sfruttare senza vergogna tutte le risorse offerte dal genere, cederà inevitabilmente alla tentazione di rilanciare, sforzandosi se possibile di fare meglio dei predecessori […]; mentre il secondo, preoccupato innanzitutto di esorcizzare le proprie ossessioni, qualunque sia il contesto, tenderà piuttosto a scaricare zavorre, giocherà la carta della stilizzazione, dell’economia, in breve si servirà (intelligentemente) del materiale offertogli per parlare prima di tutto di sé. [...]
Per amare Vampyr, basta insomma adottare il punto di vista della magia, ovvero della follia pura e semplice. Non c’è dubbio che Dreyer fosse folle. Folle come Novalis, Swedenborg, Chamisso e Achim von Arnim. Incapace di vedere il mondo così com’è, lo deforma insidiosamente, lo cinge d’una strana bruma lattiginosa. Non senza mostrare un’estrema sensibilità al dettaglio, una severità tutta protestante, col risultato che i suoi personaggi più evanescenti, gli ambienti più diafani risultano paradossalmente dotati di una singolare pesantezza. In fondo, Dreyer forse era solo un artista che scolpiva amorevolmente i propri sogni. […]

Claude Beylie, Vampyr. La Roue semeuse d’étoiles, “Midi Minuit Fantastique”, n. 20, 1968




Forse la prima cosa che ci sorprende di Vampyr è che un film giunto dopo il radicalissimo, immenso La passione di Giovanna d’Arco possa essere ancora più definitivamente feroce. Sono contento di essere in ottima compagnia (Buñuel, Hitchcock) ad amare particolarmente questo film di Dreyer (senza con ciò amare meno altri). Mi sembra che Vampyr, a settant’anni dalla sua prima proiezione, possa essere visto come l’opera d’arte rivelatrice del Ventesimo secolo, il film che ne contiene tutta la barbarie, tutto il nichilismo, ma anche la possibilità di sfuggirvi. […] Vi sono due momenti del film in cui sono contenute, al livello più alto questi estremi. Il già ampiamente segnalato “qui non ci sono né bambini né cani” dovrebbe ormai essere ritenuto il luogo-chiave delle forze di distruzione che la storia di un secolo ha sprigionato. E l’inquadratura-dettaglio delle mani che sciolgono il laccio ai teneri polsi della protagonista sono l’icona sublime di una liberazione totale.

Sergio Grmek Germani, AA. VV., Per Dreyer. Incarnazione del cinema, Il Castoro, Milano 2004