La storia del film

La storia del film

Com'è nato il film

Così Charles Chaplin descrisse nella sua Autobiografia la genesi di La febbre dell'oro: "Finalmente ero libero di girare la mia prima comica per la United Artists, e ansioso di eguagliare il successo del Monello. Per settimane mi arrovellai nel tentativo di trovare una buona idea. Pur non avendo l'ombra di uno spunto, ero pieno di entusiasmo e non vedevo l'ora di cominciare. Continuavo a ripetermi 'Il prossimo film dev'essere un'epopea! Il più grande'. Ma non giungevo a capo di nulla. Poi, una domenica mattina, mentre ero dai Fairbanks per il week-end, mi misi a guardare, con Douglas, dopo colazione, delle diapositive stereoscopiche. Alcune erano vedute dell'Alaska e del Klondike; una era del Chilkoot Pass, con una lunga fila di cercatori che scalavano il monte coperto di ghiaccio, e una didascalia stampata sul rovescio che descriveva i disagi e le difficoltà affrontati per superarlo. Pensai che questo era un tema magnifico. Non fu un'idea improvvisa. Il desiderio di scrivere un soggetto su quell'argomento si fece strada in me a poco a poco. Ma bastò a stimolare la mia immaginazione. Subito cominciarono a svilupparsi le situazioni comiche e, pur non avendo ancora steso un soggetto, la storia prese forma nelle sue linee generali.
È paradossale che nell'elaborazione di una comica la tragedia stimoli il senso del ridicolo; perché il ridicolo, immagino, è un atteggiamento di sfida: dobbiamo ridere in faccia alla tragedia, alla sfortuna e alla nostra impotenza contro le forze della natura, se non vogliamo impazzire. Lessi un libro sulla spedizione Donner che, diretta in California , sbagliò strada e si smarrì sui monti ricoperti di neve della Sierra Nevada. Su centosessanta pionieri ne sopravvissero soltanto diciotto: per la maggior parte morirono di fame e di freddo. Alcuni si diedero al cannibalismo, divorando i propri caduti, altri arrostirono i mocassini per alleviare i morsi della fame. Fu quest'orribile tragedia a darmi lo spunto per una delle mie scene più comiche. In preda ad una fame irresistibile mi bollivo una scarpa e la mangiavo, togliendo i chiodi come se fossero le ossa di un delizioso cappone e mangiando le stringhe come spaghetti. Nel delirio provocato dall'inedia, il mio partner si convince che io sono un pollo e vuole divorarmi.
Per sei mesi elaborai una serie di sequenze comiche e cominciai a girare senza soggetto, sicuro che la storia si sarebbe sviluppata da sola. Naturalmente finii in molti vicoli ciechi e furono scartate numerose sequenze divertenti. C'era una scena d'amore in cui una ragazza eschimese insegna al vagabondo a baciare all'eschimese strofinando il naso contro il suo. Prima di partire alla ricerca dell'oro egli strofina appassionatamente il naso contro quello di lei in un affettuoso addio. E incamminandosi si volta e si tocca il naso col medio per gettarle un ultimo bacio, poi di nascosto si asciuga le dita sui calzoni, perché ha un po' di raffreddore. Ma la parte dell'eschimese fu tagliata perché non legava con la storia principale della ragazza della sala da ballo".
(da Charles Chaplin, La mia autobiografia, Mondadori, Milano 1964)

 

 

Dalla cronaca al film

Chaplin si ispirò ad un drammatico episodio di cronaca narrato da Charles Fayette McGlashan nel libro History of the Donner Party. A Tragedy of the Sierra (A. Carlisle & Co., San Francisco 1922), un episodio di cannibalismo accaduto in una spedizione sperdutasi in California nel 1847.
In Charlie Chaplin: a guide to references and resources (G.K. Hall, Boston 1979). Timothy J. Lyons analizza i punti di contatto fra la storia di McGlashan e il film:

  1. Il libro menziona tre festività: il Thanksgiving Day, il Natale e il Capodanno; la prima e la terza costituiscono due scene culminanti del film.

  2. "Il mattino del Capodanno essi mangiarono i loro mocassini e le stringhe dei loro scarponi" (McGlashan): si veda la sequenza in cui Charlot cuoce e mangia lo scarpone.

  3. La descrizione della capanna costruita da tre protagonisti del racconto corrisponde perfettamente alla scenografia usata da Chaplin.

  4. Uno dei protagonisti del racconto insegue un orso che scompare davanti a lui (forse entrato in una caverna); Chaplin rovescia la situazione in una delle sequenze iniziali del film.

  5. L'uccisione del grizzly entrato nella capanna di Charlot rimanda ad un episodio analogo descritto da McGlashan.

"Inoltre Rollie Totheroh, l'operatore abituale di Chaplin, conferma che 'tutta la sequenza di Mack Swain e della gallina (...) era basata sull'episodio di cannibalismo del Donner Party' - e lo stesso Chaplin, nella sua autobiografia, ricorda di aver letto un libro sull'avvenimento".
(Giorgio Cremonini, Charlie Chaplin, Il Castoro, Milano 1977)

Per le riprese degli esterni, la troupe si recò sulle nevose montagne del Nevada. Un lungo sentiero che doveva raffigurare il Chilkoot Pass, nell'Alaska, è stato tagliato nella neve su per la montagna . Per questa scena, che ricorda alcuni campi lunghi di pionieri in Pionieri e Grass, fu mobilitata una vera e propria folla di comparse. Non tutte le scene girate nel Nevada sono state poi utilizzate. Altre sequenze furono girate su campi di neve artificiali fatti di sale, sullo sfondo di un paesaggio ben costruito nello studio; dietro lo scenario che raffigurava la città, Chaplin fece elevare delle montagne di gesso.
(Theodore Huff, Charlie Chaplin, Fratelli Bocca, Milano 1955)

 

La poesia della fame: la sequenza della scarpa

Girare le scene in cui cuoceva e mangiava lo scarpone portò via a Chaplin tre giorni e sessantatré riprese. A questo stadio era come al solito tutto preso da problemi di rielaborazione e ritocchi. Soltanto nel pomeriggio del terzo giorno di riprese, per esempio, mise a punto due gag fra le più notevoli nel genere "trasposizioni". La delicatezza con cui Charlot maneggia la suola dello scarpone - ha gentilmente offerto a Big Jim la più tenera tomaia - la trasforma in un filetto; poi trovando un chiodo ricurvo lo prende tra le dita a una estremità e offre l'altra a Jim perché lo spezzi insieme a lui come se fosse la forcella della fortuna di un pollo. Scarponi e lacci erano di liquirizia e, a quanto si dice, entrambi gli attori ne subirono gli effetti lassativi.
(David Robinson, Chaplin; la vita e l'arte, Marsilio, Venezia 1987)

 

La metamorfosi di Charlot

La scena della metamorfosi di Charlot in pollo, sotto l'occhio impazzito di Mack, doveva svilupparsi anch'essa durante le riprese. Per parecchi giorni l'équipe girò una versione della scena in cui Mack ha soltanto l'allucinazione di un bel tacchino grosso seduto sulla tavola della capanna. Quando egli cerca di afferrarlo, sparisce per lasciar posto a Charlot per cui Mack lo insegue nella baracca con un coltello. Quando Mack ritorna un po' in sé, Charlot gli dà un libro per distogliere il suo pensiero dal cibo. Sabato (15 marzo 1924), comunque, Chaplin ebbe un'idea migliore; e quando il lunedì riprese il lavoro i costumisti gli avevano già preparato un costume da pollo di proporzioni umane. Ora Big Jim non avrebbe immaginato di aver visto un tacchino: Charlot era diventato effettivamente un pollo.
Gli operatori di allora dovevano essere pieni di risorse. Le loro macchine erano eccellenti da un punto di vista tecnico, ma il loro apparato era assai più modesto di quello di oggi. Molti effetti, come dissolvenze e dissolvenze in chiusura a iris, che più tardi sarebbero stati realizzati in laboratorio, dovevano ancora essere ottenuti attraverso la macchina da presa. E così fu per le trasformazioni in pollo ne La febbre dell'oro. Chaplin cominciava la scena col suo costume abituale: a un dato momento, con una dissolvenza in chiusura, la macchina da presa si fermava per restare fissa nella stessa posizione, mentre Chaplin indossava rapido le penne del pollo. Una dissolvenza in apertura riprendeva l'inizio della trasformazione, e Chaplin ripeteva esattamente la trasformazione appena eseguita: in questo modo le due immagini di Charlot e del pollo si sovrapponevano perfettamente e le due figure sembravano dissolversi l'una nell'altra. Lo stesso espediente si rese necessario per ritrasformare il pollo in Charlot. Durante la pausa per il cambio dei costumi Mack Swain, che si trovava in campo, doveva rimanere assolutamente immobile. Per aiutarlo, lo avevano fatto sedere a un tavolo con la testa fermamente poggiata sui gomiti. La precisione e la mancanza del benché minimo errore dell'effetto combinatorio è un tributo notevole sia ai tecnici (che dovettero a questo scopo lavorare con le due macchine da presa simultaneamente), sia agli attori: l'intera operazione sembra realizzata in modo assolutamente naturale e senza sforzo, e come Chaplin si augurava, l'effetto magico rimane intatto ancora oggi.
La geniale capacità di cogliere in un oggetto le proprietà di un altro oggetto, magari diversissimo, base di un'intera serie di gag di "trasposizione", si coglie qui nella sua espressione più raffinata, quando Chaplin arriva a sentirsi pollo: la dissolvenza non è solo nella macchina da presa, ma anche nella sua mente e nel suo fisico, e nel modo in cui Charlot agita le braccia, nella sua andatura dondolante a gambe divaricate, si colgono quelle caratteristiche che coincidono perfettamente con lo svolazzare dei polli. Eddie Sutherland ricordava che in una scena diversa un altro attore indossò il costume del pollo, ma senza successo: Chaplin dovette riassumere il ruolo. L'attore poteva essere al massimo un uomo travestito da pollo, Chaplin poteva diventare un pollo ogni volta che lo voleva.
(David Robinson, Chaplin; la vita e l'arte, Marsilio, Venezia 1987)

 

 

La danza dei panini

All'inizio di febbraio gli addetti al set avevano completato la capanna situata nella stessa città della sala da ballo, e dove Charlot trova ospitalità presso il generoso ingegnere, Hank Curtis, interpretato da Henry Bergman. La capanna doveva fare da sfondo alla festa dell'ultimo dell'anno, che Charlot prepara con i suoi magri risparmi per Georgia e per le sue amiche. Le ragazze se ne dimenticano e non si fanno vedere. Aspettandole, Charlot si addormenta e sogna che il party riscuota un grande successo mondano. L'artista di music hall inglese, Wee Georgie Wood, che aveva frequentato Chaplin sia in Inghilterra sia negli Stati Uniti, disse che la scena era ispirata a un incidente occorso al giovane Chaplin ai tempi delle sue vecchie tournée, quando aveva invitato a un tè i membri di un'altra troupe giovanile, che lavorava in un altro teatro. Il direttore della compagnia non diede agli attori il permesso di andarci, ma nessuno avvertì Chaplin che attese i suoi ospiti invano.
Sembra che Chaplin fosse consapevole del fatto che questa sequenza doveva risultare del tutto straordinaria. Nella maggior parte degli altri studios, durante il periodo del muto, c'era l'usanza di assumere gruppi strumentali, o addirittura piccole orchestre, per ispirare gli attori con musiche adatte a suscitare i sentimenti da esprimere. Negli studios di Chaplin questo non era ritenuto necessario. Per questa scena della capanna, però, furono chiamati dei musicisti sul set. Per la prima settimana o giù di lì, si tratto dello Hollywood String Quartet (Quartetto d'archi di Hollywood), a 50 dollari al giorno; dopo di che lo studio li sostituì con Abe Lyman e il suo trio che prendeva solo 37 dollari e 50 centesimi, più gli straordinari. La famosa "danza dei panini", il momento culminante della sequenza, fu chiaramente realizzata con la musica; tutte e undici le riprese di questa sequenza erano di lunghezza uniforme, e quando Chaplin in seguito aggiunse il commento musicale al film, il numero si rivelò perfettamente sincronizzato alla musica The Ocean Roll.
Per quanto sia giustamente divenuta famosa in questa occasione, non era la prima volta che la "danza dei panini" veniva filmata. Già in The Cook del 1918, Roscoe Arbuckle infilava due panini con due forchette in modo da mimare due gambe e scarponi in miniatura che si producevano in una piccola danza. Con ogni probabilità aveva imparato la gag da Chaplin ai tempi in cui lavoravano insieme per Sennet. Tuttavia con Arbuckle era solo una trovata ingegnosa, con Chaplin un tocco di genio, un capolavoro di destrezza, di ritmo, di forza espressiva e di realismo. I panini-piedi divenivano una estensione della vita, ogni loro movimento si rifletteva nel volto al di sopra di loro. La scena era stata girata inizialmente quasi per caso, nel mezzo di una serie di riprese del tardo pomeriggio del 19 febbraio.
A Chaplin evidentemente era piaciuto quello che aveva filmato, e il giorno seguente fece otto riprese della stessa scena.
(David Robinson, Chaplin; la vita e l'arte, Marsilio, Venezia 1987)

 

 

L'ultima sequenza

Dopo più di un anno si intravedeva la fine della lavorazione. L'ultimo grande set che venne costruito fu quello che rappresentava la città mineraria. L'allegra scena in cui Charlot si guadagnava i soldi per il party in onore di Georgia spalando la neve, e si assicura sempre nuovi clienti ammucchiando la neve da una porta all'altra, fu finita velocemente in due giorni di riprese. Il 10 aprile, Chaplin, Georgia e Marck Swain partivano per San Diego, con una squadra di operatori per le scene finali con Big Jim e Charlot, ora milionari grazie al colpo di fortuna di Jim, sulla nave che li riporta a casa. Le scene vennero girate proprio sua una nave, The Lark (L'allodola), che svolgeva il regolare servizio di linea tra San Diego, Los Angeles e San Francisco. Chaplin si sentiva finalmente rilassato; e Georgia ricorda: "Durante il viaggio di ritorno, andammo in un nightclub. Quando entrammo cominciarono a suonare Charlie, My Boy, poi l'orchestra passò a un tango, e noi ci mettemmo a ballare mentre tutti gli altri lasciavano la pista. Questo lo rese felice: avresti detto che aveva guadagnato un milione di dollari tanto si dimostrava compiaciuto".
L'ultima scena (a parte alcune riprese sui modellini), fu girata il 14-15 maggio 1925. Doveva essere uno dei momenti più spettacolari e stupefacenti del film: la fine del crudele Black Larson, quando fra la neve e il ghiaccio si apre una voragine ed egli precipita verso la morte. La scena fu in parte realizzata con dei modellini, ma non è mai stato spiegato come siano state girate le riprese su scala reale e con l'attore Tom Murray; il crollo di un'enorme massa di neve e di ghiaccio forse era legata allo smantellamento del set delle montagne.
[...] In un periodo di lavorazione che si era protratto oltre un anno e tre mesi, con 170 giorni di riprese effettive, aveva girato 69.451 metri di pellicola, di cui finì per montarne solo 2566. La più lunga delle sue commedie, La febbre dell'oro, risultò di una straordinaria fluidità narrativa: l'armonia delle scene e delle immagini non tradisce nulla delle tante interruzioni, dei contrattempi, e degli sforzi tecnici. Quando Chaplin ne fece una nuova edizione diciassette anni più tardi, con una colonna sonora, l'unico cambiamento significativo (e inspiegabile) che egli vi apportò, a parte naturalmente l'eliminazione delle didascalie, fu il finale. La versione originale finiva con Charlot e Georgia stretti in un lungo abbraccio amoroso, che nella nuova edizione Chaplin sostituì con una più casta dissolvenza sulla coppia che si allontana.
(David Robinson, Chaplin; la vita e l'arte, Marsilio, Venezia 1987)




La 'prima' del film e il trionfo

Le cifre che si citano per le spese di produzione della Febbre dell'oro sono diverse e vanno dalla "stessa somma spesa per Il monello (trecentomila dollari)" a un milione di dollari. La spesa effettiva sta probabilmente tra queste due cifre. Iniziata nella primavera del 1924, la lavorazione della Febbre dell'oro durò quattordici mesi. Il film, appena montato, fu proiettato in "anteprima" a Hollywood, in giugno; poi Chaplin fece parecchi tagli (equivalenti a più di una bobina) e lo fece uscire in prima visione a New York il 16 agosto 1925, allo Strand Theatre, dove erano stati proiettati in prima visione tutti i film di Chaplin, da A Dog's Life in poi. Chaplin assistette alla "prima" e ringraziò con un discorso pieno di modestia il pubblico che gli aveva tributato una ovazione entusiastica.

Chaplin aveva avuto un nuovo trionfo, dopo un'assenza di due anni e mezzo dallo schermo, e aveva superato, per valore artistico e per popolarità, The Freshman (Viva lo sport!) l'umoristico film di Harold Lloyd, pieno di gag, che si proiettava all'incirca in quello stesso periodo; il divertente The Navigator (Il navigatore) e il brillante e fantasioso Sherlock, Jr. (Calma, signori miei!), di Buster Keaton.
La febbre dell'oro
è stato uno dei maggiori successi di cassetta tra il '20 e il '30, e incassò circa due milioni e mezzo di dollari in America, e cinque milioni di dollari in totale. Chaplin, personalmente, guadagnò, con quel film, più di due milioni di dollari.
(Theodore Huff, Charlie Chaplin, Fratelli Bocca Editori, Milano 1955)

 

La febbre dell'oro fu proiettato allo Strand Theatre di New York e io assistetti alla première. Dal momento in cui il film ebbe inizio, mostrando il vagabondo che camminava allegramente sull'orlo di un burrone senza rendersi contro di essere seguito da un orso, il pubblico non fece che gridare e battere le mani. Fino alla fine echeggiarono tra le risate sporadici applausi. Hiram Abrams, il direttore delle vendite della United Artists, venne poi ad abbraciarmi. "Charlie, ti garantisco che incasserà almeno sei milioni di dollari" e ci prese.
Dopo la première ebbi un collasso. Alloggiavo al Ritz e non riuscivo a respirare, allora telefonai freneticamente a un amico. "Muoio" ansimai. "Chiama il mio avvocato!"
"L'avvocato? Tu hai bisogno di un dottore" disse lui, allarmato.
"No, no, l'avvocato, voglio fare testamento."
L'amico, scosso e allarmato, li chiamò entrambi, ma essendo il suo avvocato in Europa, arrivò solo il dottore.
Dopo una visita superficiale non mi trovò altro che un attacco di nervi.
(Charles Chaplin, La mia autobiografia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1964)

 

L'edizione sonorizzata del 1942

Non solo la colonna parlata aggiunta alla Febbre dell'oro è inutile ed esornativa: disturba, che è peggio; falsa il giudizio corrompendo la pura espressione e i valori artistici del capolavoro. Ho detto che ignoro quale sia il parere dei giovani intellettuali di oggi su questo film. A ogni modo se non l'hanno mai visto prima, se questa edizione è l'unica che conoscono, consiglio loro di non scriverci su neanche una riga, perché il silenzio è connaturato a Chaplin, come la nascita di Venere alla spuma del mare. Quanto al valore di Chaplin nella storia del cinema, ho già detto che è un classico. Che cosa sia un classico della letteratura, lo ha già spiegato Sainte-Beuve in un saggio famoso. Un classico del cinema è, analogamente, qualche cosa di perfetto, di concluso in se stesso, di inevitabile e di assoluto. Chaplin è tutto questo, anche se il valore del suo messaggio sia stato per tanto tempo falsato e degradato dalle schiette risate che i suoi gag, precisi come colpi di pistola, suscitano nelle affollate platee. L'umorismo di Chaplin non è tutto Chaplin, come l'attore Chaplin non esaurisce l'autore cinematografico Chaplin. Che nel caso di questo artista, autore, direttore artistico e interprete non è il minor segreto della sorprendente unità stilistica dei suoi film.
(Pietro Bianchi, Il ritorno di Chaplin, "Oggi", 15 settembre 1945)

Osiamo un paradosso: la versione sonorizzata di La febbre dell'oro, trattata con la narrazione off e artificialmente mutilata dei suoi cartelli, accusa il carattere "muto" del film, che invece si era inclini a dimenticare nella versione muta del 1925. [...] Le didascalie della versione originale imprimevano una scansione temporale, e perfino delle intonazioni orali (le modulazioni tipografiche del nome Georgia). Al contrario delle pratiche correnti nel 1925, essi traducevano i dialoghi senza giovarsi del commento. Chaplin reintroduce questo commento nella sua riedizione "parlata", che esibisce allo stesso tempo una natura "muta" che l'originale faceva dimenticare e riporta brutalmente il film ad una relazione "griffittiana" del testo e dell'immagine. In breve, la versione sonorizzata de La febbre dell'oro è nettamente più "muta" della versione muta originale.
(Francis Bordat, Chaplin Cinéaste, Éditions du Cerf, Paris 1998)