Varda by Agnès

Varda by Agnès

Sceneggiatura: Agnès Varda. Fotografia: François Décréau, Claire Duguet, Julia Fabry. Montaggio: Agnès Varda, Nicolas Longinotti. Interpreti: Agnès Varda, Sandrine Bonnaire, Nurith Aviv, Hervé Chandès. Produzione: Rosalie Varda per Ciné-Tamaris, HBB26, Scarlett Production, MK2 Flms, Ciné +. Durata: 115’





Agnès Varda sul film


Nel 1994, in coincidenza con una retrospettiva alla Cinémathèque française, ho pubblicato un libro intitolato Varda par Agnès. Venticinque anni dopo lo stesso titolo viene dato al mio film fatto di immagini in movimento e di parole. Il progetto è lo stesso: fornire le chiavi della mia opera. Do le mie chiavi, i miei pensieri, niente di pretenzioso, solo le chiavi.
Il film si divide in due parti, una per secolo. Il Ventesimo secolo va dal mio primo lungometraggio La Pointe Courte nel 1954 all’ultimo del 1995, Cento e una notte. Nel mezzo ho girato documentari, film, sia lunghi che brevi. La seconda parte inizia nel Ventunesimo secolo, quando le piccole cineprese digitali hanno cambiato il mio approccio al documentario, da Les Glaneurs et la glaneuse nel 2000 a Visages Villages diretto con JR nel 2017. Ma in quel periodo ho creato soprattutto installazioni d’arte, i Triptyques atypiques, le Cabanes de Cinéma, e ho continuato a fare documentari, come Les Plages d’Agnès.  Tra le due parti c’è un piccolo promemoria della mia prima vita di fotografa. Nella mia vita ho fatto una grande varietà di film. Quindi devo dirvi cosa mi ha portato a fare questo lavoro per così tanti anni.
Per me sono importanti tre parole: ispirazione, creazione, condivisione.
L’ispirazione è il motivo per cui si fa un film. Le motivazioni, le idee, le circostanze e gli eventi fortuiti che innescano un desiderio, e si decide di fare un film. La creazione è il modo in cui si realizza il film. Quali mezzi usare? Che struttura? Da soli o no? A colori o no? La creazione è un lavoro. La terza parola è condivisione. I film non si fanno per guardarli da soli, si fanno per mostrarli agli altri. Un cinema vuoto è l’incubo del regista! Al centro del mio lavoro ci sono le persone. Vere persone. È così che ho sempre definito le persone che filmo in città o in provincia. Quando si filma qualcosa, un luogo, un paesaggio, un gruppo di persone, anche con un soggetto specifico quello che si filma rivela il progetto più profondo. Mi piace mettere insieme la realtà e la sua rappresentazione. Ma mi piace anche accostare immagini in movimento e immagini fisse, nel video e nella fotografia.




Varda by Agnès è per certi versi una retrospettiva. Qual è il suo punto di vista in questo film?
Potemmo chiamarla lezione magistrale, ma non mi sento una maestra e non ho mai insegnato. Non mi piace l’idea. Non si tratta tanto di raccontare un’altra volta le stesse storie, ma piuttosto di parlare di struttura, di intenti, delle mie fonti d’ispirazione. Però non mi andava di fare una cosa noiosa. Così si svolge in un teatro pieno di gente, o in un giardino, e cerco di essere me stessa e di trasmettere l’energia o l’intenzione o il sentimento che voglio condividere. È quello che chiamo cinescrittura, in cui tutte le scelte partecipano di qualcosa che potremmo chiamare stile. Ma stile è un termine letterario. Quindi cinescrittura sono tutti gli elementi che credo vadano considerati, o scelti o usati, per fare un film.

È stato difficile esaminare la sua opera per trarne questo film?
Non è stato difficile, perché rifletto molto su quello che faccio. E quando ho finito non penso “Avrei potuto fare meglio” o “Avrei potuto fare peggio”, ma cerco di comprendere il processo creativo. Non è una questione semplicemente tecnica, cerco di essere spontanea. Il procedimento sta nel modo in cui si trovano le immagini giuste, le parole giuste, seguendo l’istinto. Io cerco davvero di seguire un istinto filmico. Adesso faccio l’artista, sto preparando un’altra mostra, ne parlo un po’ nella seconda parte perché il documentario ha due parti, il Ventesimo secolo e il Ventunesimo secolo. Nel Ventesimo secolo ho fatto soprattutto la regista, nel Ventunesimo secolo faccio l’artista. Alterno documentari e installazioni. Costruisco case, capanne, usando vere copie composite. Ho fatto le installazioni per tentare un modo diverso di guardare alle cose, per esempio faccio sedere le persone su sedie dotate di cuffie e mi interrogo sulla comunicazione tra chi crea e chi riceve. È come riciclare il mio passato di regista. In un certo senso questa è l’'ultima parola'.

Questo film riesce a esprimere quel che lei vuole dire sul cinema?
Non ho mai voluto dire niente, volevo solo osservare le persone e condividere. Non c’è mai stato un messaggio da ricevere e da capire, quindi non so dire se sono soddisfatta. Ma mettiamo in chiaro una cosa: per il film che presento a Berlino non sarà divertente ma non accetterò più di fare conferenze stampa. Eccolo, questo è il mio intervento. Voi mostrate [il film] e non chiedetemi di venire. Parlo spessissimo, ovunque, anche ad Harvard, ho fatto pure un TED Talk a Los Angeles. Non voglio fare conferenze stampa, non voglio parlare del mio lavoro. Preferisco passare due ore a guardare un albero o un gatto, invece di parlare. Dopo Berlino verrà mostrato il film, invece di me che parlo!

Ha spesso detto di “essere una star ai margini”, di non essere mai stata mainstream. Come ha influito, questo, sul suo punto di vista in quanto regista?
In un certo senso ho fatto pochi film. Non ho mai fatto film d’azione. Non ho mai fatto film di fantascienza. Non ho mai usato ambientazioni molto complicate perché le mie ambizioni erano modeste. Sapevo che non mi avrebbero mai affidato un budget per fare qualcosa di diverso, così mi sono concentrata sulle cose che conosco. Ci sono sempre state avventure mentali che ho desiderato sperimentare e condividere. La sezione cinefila dell’Oscar mi ha scelta quando hanno voluto omaggiare persone che hanno lavorato nel cinema a prescindere dal successo e dai soldi, e sono fiera che abbiano scelto me. È un premio per chi ha lavorato nel cinema non solo senza soldi, ma anche senza ambire ai soldi. E penso di essermi sentita felice e fiera proprio perché hanno capito che tipo di la-voro ho fatto per oltre sessant’anni. Sono rimasta fedele all’ideale di condividere emozioni, impressioni, soprattutto perché la mia forte empatia verso gli altri mi permette di avvicinarmi a persone delle quali normalmente non si parla.Ho sessantacinque anni di lavoro alle spalle, e cosa ne traggo? Il desiderio di trovare legami e rapporti con diversi tipi di persone. Non ho mai fatto un film sulla borghesia, sui ricchi, sulla nobiltà. Ho sempre scelto di mostrare persone che sono in un certo senso come tutti e scoprire che ciascuna di loro ha qualcosa di speciale, di interessante, raro e bello. È il mio modo naturale di guardare alle persone. Non ho combattuto i miei istinti. E forse questo è stato apprezzato nella famosa cerchia di Hollywood.Oltre all’Oscar ha anche ricevuto una Palma d’Oro alla carriera e un altro recente riconoscimento a Marrakech... Penso che mi daranno qualcosa anche a Berlino. Ora che sono vecchia vogliono tutti darmi qualcosa! È come dire, sei vecchia e ti diamo qualcosa. Così ho due armadi pieni. Dico grazie, naturalmente, come quando si riceve un regalo, ma lo considero ingiusto. Dovrebbero premiare un’altra donna, un’altra regista. Ci sono molte registe, in Francia, molte di loro sono brave e io sono la più vecchia, mi dico che ormai sono una statuina, è facile mettermi su un pie-distallo. Ma ho davvero molto rispetto per tante registe che non vengono premiate. Quindi penso sia un po’ un alibi, come dire “Noi rispettiamo le donne”, ma per me è troppo. Altre donne sono proprio brave, vorrei fossero un po’ più visibili. Potrei citare per esempio Céline Sciamma, Naomi Kawase, Ulla Stöckl, Maren Ade, Pascale Ferran, Claire Denis, Emmanuelle Bercot, Noémie Lvovsky, Ruth Beckermann, Sally Potter, Jane Campion e potrei nominarne molte altre

Il cinema ha la responsabilità di educare?
Mi impegno per fare un cinema onesto, ma non pretendo di cambiare il mondo. JR dice che l’arte può cambiare il mondo. No, a volte possiamo cambiare la mentalità delle persone, o la loro visione del mondo e degli altri. Dobbiamo sapere che essere artisti onesti è già qualcosa, ma non so se possiamo fare molto di più.

Le sono grata di avermi dedicato il suo tempo.
E fa bene, perché questa è l’ultima volta, cara amica. D’ora in po’ farò un po’ d’arte, perché filmare è stancante. Non voglio più lavorare tanto. È troppo faticoso. Vorrei stare qui per un po’, godermi la tranquillità, anche ricordare in pace può rendermi felice. Lei non mi ha disturbata. È stata cortese e cordiale, ma sa, abbiamo parlato per un’ora della mia carriera e la vita scorre, i minuti scorrono. Mi godo il presente. Mi piace perfino veder invecchiare i tulipani. Più si aspetta e più diventano strani. Come succedeva alle patate a forma di cuore che invecchiavano in Les Glaneurs et la glaneuse. Il processo di invecchiamento mi piace tanto. Mi piace quello che accade alle cose che invecchiano, alle persone che invecchiano, amo le rughe, le mani, tutte queste cose. Mi interessa molto quello che accade a una mano. Può essere un bellissimo paesaggio. Quindi invecchiando mi diverto, mi piace assistere alla naturale, confusa distruzione delle cose. Una delle mie opere si intitola Patatutopia. È un trittico di patate a forma di cuore. Ho conservato le patate e ho continuato a osservarle per vedere come invecchiavano, le patate che invecchiano sono bellissime. Bisogna sentirsi così. Non soffrire. Essere come le patate.

Intervista di Rhonda Richford, “The Hollywood Reporter”, 31 gennaio 2019




Antologia critica



Guardare, riguardare e custodire, questo fa la Varda nei suoi ultimi film, e ancora di più in Varda by Agnès. Guarda, riguarda e custodisce l’essenza del cinema, e non solo del proprio. E lo fa con una lucidità e un’apertura alla novità invidiabili: non solo apertura al digitale, al formato leggero che le ha consentito una nuova vita artistica a partire da Les Glaneurs et la glaneuse, ma anche al post-cinema, alle imprese cross-mediali, alle installazioni più articolate. Varda by Agnès è prodotto su commissione per la Fondation Cartier pour l’art contemporain, e Agnès non se ne vergogna, non ne avrebbe motivo, anzi, esplicita la presenza del committente, proprio come avviene nei suoi amati Flügelaltar, i polittici ad ante mobili fiamminghi, e lo fa sedere accanto a sé in una delle masterclass di cui il film si nutre. Varda by Agnès è un film che evidenzia come riraccontare le cose, riusare la materia dei propri lavori, spostando gli accenti, la focalizzazione, la distanza, il punto di vista. Isolare dettagli, estrapolare dialoghi può creare un senso nuovo, se non inedito, ai discorsi, un nuovo statuto alle immagini – talvolta, è il caso dei film meno conosciuti, tutt’altro che usurate dalla visione. È un film zibaldone, più che un film testamento, parte di un’elaborazione riflessiva della memoria che ha radici molto profonde, e lo si capisce anche solo attraverso il frammento di Oncle Yanco; una memoria che si fa e disfa, senza mai annullarsi, proprio come le figure disegnate dalle onde nella sabbia delle sue amate spiagge, sabbia che è elemento di trasformazione, transizione, più che di annullamento. [...]
È un film autoritratto perfino nel titolo, Varda by Agnès, come in fondo tutti i suoi lavori da vent’anni a questa parte. E l’autoritratto è di nuovo un gesto da plasticienne, termine al quale lei stessa preferisce visual artist. Un modo di auto-rappresentarsi che ha, come spesso nel suo cinema, radici pittoriche, più o meno esplicitate, sempre piuttosto precise. Uno potrà pensare ai tanti autoritratti di Rembrandt, o, per rimanere in una rosa di nomi al femminile, a quelli di Vigée Le Brun. Ma, in fondo, cos’è questo collage di lezioni magistrali e di materiali girati in location, nuovi e meno nuovi, di sequenze di vecchi film e lavori recenti, montato e modulato intorno alla propria presenza fisica, in scena, tra il farsi e disfarsi delle proprie opere, se non un parente prossimo di Las Meninas di Velázquez? Un autoritratto dentro il proprio work in progress, al centro di esso, con la consapevolezza, mai arrogante, di aver contribuito in maniera importante all’evoluzione del medium; in tal senso, grandemente autoironico nello svelare il fallimento di Cento e una notte, l’opera che, nel 1995, avrebbe dovuto celebrarne i cent’anni. Prima di mostrare la costosa ed esila-rante elaborazione della scena con Deneuve e De Niro sottolinea il nome del protagonista, interpretato da Michel Piccoli, Simon Cinéma “si mon cinéma”, ovvero “se il mio cinema”: se il suo cinema è così, è inutile dirlo, lunga vita al cinema (e al post-cinema) di Agnès, che come i suoi adorati gatti, di vite pare averne sette, o anche di più.
Alessandro Uccelli, “Cineforum”, 13 febbraio 2019



L’autrice, nata in Belgio ma da sempre un’icona del cinema francese, ha compiuto novant’anni lo scorso anno, ma continua a sperimentare e a raccontarsi in questo intimo (auto)ritratto in cui ripercorre la sua vita e, soprattutto, la sua straordinaria filmografia. Dagli esordi come fotografa ai suoi film più recenti, passando per i primi successi (tra cui il celebre Cléo dalle 5 alle 7 del 1962) e per i suoi progetti come videoartista, Varda by Agnès è un’intensa ricostruzione di un’esistenza segnata dalla passione per le immagini, dal rapporto sentimentale con il regista Jacques Demy e da una continua ricerca personale, sia sulle novità apportate dalla tecnologia, sia sui cambiamenti sociali (a partire dalla lotta femminista, che è sempre stato un tema centrale per l’autrice). Anche se un’operazione di questo tipo non è nuova nel cinema di Agnès Varda (può venire in mente un suo film simile, Les Plages d’Agnès, del 2008), la regista riesce come sempre a toccare corde profonde, proponendo spunti interessanti sul tempo che passa e sui rapporti umani. Poetico e profondo, soprattutto nelle battute iniziali e in quelle conclusive, è un lungometraggio forse un po’ prolisso, ma comunque sincero, potente e appassionato al punto giusto.
Andrea Chimento, “Il Sole 24 ore”, 13 febbraio 2019



Il documentario autodiretto Varda by Agnès viene pubblicizzato come probabile ultimo film della cineasta. Si basa su una serie di recenti conferenze che l’autrice di origini belghe ha tenuto con il pretesto di parlare di tecnica cinematografica, ma contiene anche molte delle eccentriche digressioni e degli svolazzi surreali che sono diventati parte integrante della sua gamma stilistica, anche in relazione alla più recente attività di artista visiva. [...] Dal punto di vista tecnico al film manca il tocco sperimentale più spinto che caratterizza gli ultimi documentari di Varda, e dà un po’ troppo l’impressione di essere una serie di conferenze filmate. Ma la regista è una presenza sullo schermo così trascinante – ironica e umana, capace di contemperare sorniona critica sociale e atteggiamento giocosamente infantile – che anche un’opera autunnale e minore come questa sa essere fonte di commosso buonumore. Varda trascorre gran parte del documentario in modalità monologante rivolgendosi al pubblico dalla sua sedia da regista e parlando a ruota libera e con coinvolgente semplicità della propria carriera. La sua cronologia è piuttosto fluida, ma la cineasta suddivide la sua produzione in due grandi periodi: il Ventesimo secolo ‘analogico’ in cui è stata una regista più convenzionale e il Ventunesimo secolo ‘digitale’ in cui si è reinventata come artista visiva. Tra i classici da lei trattati ci sono l’innovativo debutto pre-nouvelle vague, La Pointe Courte (1954), il capolavoro in tempo reale Cléo dalle 5 alle 7 (1962) e la controversa favola protofemminista Il verde prato dell’amore (1964), che l’autrice definisce “una bellissima pesca con dentro un verme”. Nessun riferimento a vecchi amici come Jean-Luc Godard, la cui spietata decisione di negarsi in Visages Villages l’ha lasciata visibilmente scossa. Varda by Agnès contiene anche un ricco repertorio di filmati costellati da apparizioni stellari che comprendono il marito scomparso, Jacques Demy, Jane Birkin, Robert De Niro, Jean-Paul Belmondo, Catherine Deneuve, Alain Delon e altri. Sandrine Bonnaire, la star del pluripremiato Senza tetto né legge (1985), spunta anche in un’intervista recente per condividere i suoi ricordi sulle riprese. Inevitabilmente Varda può solo limitarsi a sfiorare la superficie della sua opera, ma è abbastanza autoironica da citare fragorosi fiaschi come l’esperimento d’epoca hippy girato a Hollywood, Lions Love (1969), e il flop Cento e una notte (1995) con il suo cast di celebrità.
La seconda metà del documentario, incentrata sulla recente carriera di artista visiva e installatrice, appare inevitabilmente più esile e di nicchia. Ma anche qui non mancano episodi buffi e intensi, come quando la regista si veste da patata per la Biennale di Venezia o costruisce per il suo gatto morto una variopinta tomba floreale che entra a far parte della collezione permanente della Fondazione Cartier di Parigi. La sua accattivante umiltà e il persistente interesse per le vite degli altri sono motivi ricorrenti. “Niente è banale se si filmano le persone con empatia e amore” insiste.Varda by Agnès sembra a volte una specie di sequel del magistrale bio-docu-mentario Les Plages d’Agnès (2008), del quale contiene molti estratti. [...] Presi insieme i due documentari offrono un quadro completo della visione del mondo contagiosamente generosa di Varda, che con i suoi novant’anni è un’opera d’arte vivente, la sua più grande creazione. Vorremmo essere tutti altrettanto curiosi, umani e creativi a un’età così avanzata.
Stephen Dalton, “The Hollywood Reporter”, 13 febbraio 2019



È successo qualcosa di strano ad Agnès Varda con il suo ultimo film, lo spensierato e personalissimo documentario on the road intitolato Visages Villages: all’età di 88 anni, dopo sessant’anni di cinema e una ventina di film, all’improvviso e in maniera abbastanza inaspettata è diventata virale. Una massa di critici che non avevano mai mostrato molto interesse per le sue opere è corsa a vedere il nuovo film a Cannes, l’Academy le ha elargito una nomination e un Oscar alla carriera dopo decenni di indifferenza, e la figura ironica e sbarazzina della regista, caschetto di capelli bicolore che la fa sembrare una strega di Miyazaki, è diventata onnipresente ai festival e nei circuiti pubblicitari (anche sotto forma di sagome di cartone) ispirando un gran numero di tributi adoranti, magliette e thread di Twitter. Varda ha conquistato una celebrità rara per un autore: a novant’anni suonati sembra più famosa della sua opera. Come dar seguito a tanta fama, considerato che Visages Villages (con tutto il rispetto per il suo fascino rustico e in chiave minore) non era stato concepito come uno spartiacque? Facile: massimizzando lo stile personale della regista sin dal titolo, il pacato e riflessivo Varda by Agnès equivale di fatto a un giro d’onore. Il film, un condensato della carriera di Varda che, malgrado un paio di astuzie strutturali, assume prevalentemente la forma di una masterclass, è un ben calcolato riassunto per la moltitudine di ammiratori recenti, essendo ornato di estratti da opere fondamentali da Cléo dalle 5 alle 7 a Senza tetto né legge e Les Glaneurs e la glaneuse.
[...] Questo non è, naturalmente, il primo bio-documentario di Varda. Pensato inizialmente come ultimo film – nessuno, nemmeno lei, poteva sapere cosa riservasse il futuro – il malinconico Les Plages d’Agnès (2008) era un’e-scursione più personale ed eccentrica nel passato esistenziale e cinematografico della regista. Varda by Agnès condivide vari aspetti di quel film, compresa la metafora culminante della spiaggia, il che lo rende più un pendant che una pigra rielaborazione dell’opera precedente. È tuttavia un lavoro più semplice, lineare se non strettamente cronologico, che presenta la sua opera trattando un capitolo professionale alla volta. Anche quando si discosta dalle semplici conferenze filmate il risultato appare a tratti come un montaggio ben fatto di ‘commenti del regista’, del tipo cui ci hanno abituato i Dvd. Altrettanto diretta è la filosofia artistica che la cineasta, più impertinente che mai con i suoi novant’anni d’età, espone nel documentario. Il film si apre con Varda seduta sulla sua sedia da regista mentre tiene banco in un teatro affollato di studiosi e giovani cinefili adoranti. La vediamo accennare sorridente a “quelli del loggione”, gli enfants du paradis che siedono nei posti meno cari. Fare film, spiega più volte, è frutto di tre processi: ispirazione, creazione e condivisione. È quest’ultima a dominare qui: il documentario è generosamente e vivacemente disseminato di estratti dei migliori film di Varda, per stuzzicare la curiosità di chi è nuovo al realismo in tempo reale di Cléo, che conserva ancor oggi il suo fascino, o agli ingannevoli toni pop che colorano il femminismo di Il verde prato dell’amore. [...]
Nella seconda ora di film l’attenzione si sposta su Varda artista visiva e installatrice: materiale forse più difficile da vendere sullo schermo dei suoi incensati film, anche se probabilmente contiene spunti più stimolanti per gli iniziati. Un intermezzo dolcemente estroso è dedicato alla costruzione di una tomba ricoperta di conchiglie per il gatto morto, Zgougou, trasferita in un museo parigino dove oggi incuriosisce le scolaresche in visita, anch’esse divertite e stimolate dalla disinvoltura con cui l’eccentrica vecchia signora si accosta alla creazione e alla fruizione dell’opera d’arte. [...] Non sorprende, comunque, che sia praticamente solo Varda a esprimersi in quella che in sostanza è una celebrazione schiva e sui generis del nuovo impro-babile rango di star a cui è assurta. Lieve come un film di Varda e attraversato dalla sua grinta e dalla sua fantasia, Varda by Agnès offre ai nuovi fan tutto ciò che possono desiderare.
Guy Lodge, “Variety”, 13 febbraio 2019



Ci sono tre motivi all’origine di un film, ispirazione, creazione, condivisione, lei almeno li ha sempre fatti e continua a farli per questo i film, sul palco di un teatro è la prima cosa che dice a giovani studenti di cinema. È così che comincia il viaggio tra le immagini di Agnés Varda, una lezione, o una “masterclass” come la definisce, che ci porta nel suo laboratorio di regista seguendo, più che una cro-nologia, i colpi di fulmine e i desideri di un’avventura che continua sino a oggi. Varda by Agnès è una storia alla prima persona, anche plurale, nel senso che il cinema ha una dimensione collettiva, la cui forza e fascinazione è nel non cercare di teorizzare, come spesso accade in una qualunque ‘lezione’. Piuttosto la regista ci porta dentro al suo ‘fare’, nelle scelte, gli attori, le storie, come mettere la macchina da presa, in che modo usare il digitale all’inizio del nuovo millennio. [...]
“Nei miei film ho sempre fatto entrare la realtà” dice. Dall’appartamento Cléo (Cléo dalle 5 alle 7) esce in strada, attraversa il mondo, si toglie il cappello, davanti al riflesso di sé da ‘bambola’ che non le piace più: “Inizia a guardare”, dice Varda. È solo uno dei momenti di questo lungo incontro, ma che film è Varda by Agnès? Un on the road, la cui geografia è tracciata dalle immagini e dall’impetuoso agire del caschetto – oggi bicolore – della nouvelle vague, per cui agli inizi – e forse anche dopo – non deve essere stato semplice prendere spazio in quel mondo di maschi. Lei che è sempre stata femminista, e lo è ancora oggi, le donne le ha raccontate nei suoi personaggi che ne rifondavano con umorismo ironico la rappresentazione. Il femminismo e le lotte per l’aborto e per il divorzio, le Black Panther, Jane Birkin, le spiagge di Agnès, perché lì si incontrano tutti gli elementi, acqua, aria, terra, e naturalmente Jacques Demy. Il nuovo millennio e il digitale.
Dal teatro usciamo tra gli archivi, nelle immagini dei film, sui loro luoghi come erano e come sono oggi. Varda ricorda la lavorazione di Senza tetto né legge insieme alla sua protagonista, Sandrine Bonnaire che allora aveva diciassette anni, entrambe sedute su un carrello: il film è del 1985 e vinse il Leone d’oro a Venezia. Ricorda il travelling che ha usato spesso per restituire la collera e il continuo movimento del personaggio anche nella realtà che la circonda. Era una solitaria che viveva per strada a differenza delle donne che qualche anno prima invece combattevano tutte insieme. Risate, complicità. Birkin che maledice gli anni che passano, giocando con la pittura insieme a Varda nelle immagini di Jane B. par Agnés V. Nel Garage Demy ci sono i ricordi di una persona amata e c’è lo spazio comune di due artisti, lui che la sua storia non poteva più finirla, perché era malato, lei che la compie (sullo schermo) per lui. Ogni storia rivela qualcosa del fare film, aggiunge un nuovo frammento, condivide un universo. E questo disvelamento del cineasta e dei suoi ‘strumenti’ rende Varda by Agnès quasi un archivio per scoprire o riscoprire il suo cinema e anche per dire come ciascun film, ciascuna immagine si fa. Può essere forse una sorta di eredità ma con leggerezza. Varda sa sempre stupire, disseminando piste, oggetti fantastici, epifanie di realtà. È il suo mondo e racconta il nostro.
Cristina Piccino, “Il Manifesto”, 14 febbraio 2019