Un Robinson Crusoe naufragato a New York

Un Robinson Crusoe naufragato a New York

È un incipit in prima persona, statistico nella presentazione degli argomenti e confidenziale nel tono, che colloca e isola il narratore all’interno del proprio mondo. Dallo stesso C.C. ‘Bud’ Baxter veniamo a sapere che siamo nel novembre del 1959; che lui è uno degli otto milioni di abitanti della città di New York; che è uno dei 31.259 impiegati della sua compagnia d’assicurazioni; che il suo stipendio è di 94 dollari e 70 la settimana, più i benefits; che vive in un appartamento a pochi passi da Central Park, 84 dollari d’affitto al mese, “niente di stravagante, intendiamoci, ma confortevole, l’ideale per uno scapolo”, al quale però non sempre ha libero accesso. Dall’alto dei grattacieli che scorrono sullo schermo, una plongée di parole ci precipita nella vita di C.C. Baxter: poi, come sempre in Wilder, la voce svanisce, il soggetto si ritrae, la narrazione diventa oggettiva, ma dentro quella vita siamo stati attratti una volta per sempre.
Il patto che L’appartamento stringe con lo spettatore è di massima urgenza e delicatezza: non saremo più nemmeno tentati di pensare che Bud Baxter è solo un piccolo ruffiano opportunista, né che Fran Kubelik è una che fa la sua modesta carriera (dagli ascensori periferici a quelli centrali) andando a letto col boss. Bud e Fran sono invece perdenti pieni di grazia; e lui, il più comico e triste schlemiel del mondo, vive come nessun altro personaggio wilderiano il dramma dell’espropriazione, l’esilio da se stesso, la perdita della casa e l’assedio all’identità.
L’appartamento
è il primo film di Wilder, e tra i primi film americani, a dare forma concreta alla ‘modernità’ del vivere occidentale e metropolitano: forma assoluta ne è in apparenza la solitudine, ma si fa un passo più avanti, e si mostra come anche la solitudine sia un patrimonio personale che può essere eroso, un rifugio da cui essere cacciati. […] Del lavoro in un ufficio, nell’età del capitalismo efficiente e organizzato, pure Wilder e un grandissimo Alexandre Trauner non nascondono il nevrotico orrore, appena mascherato dalla smorfia: lo schieramento allineato e perpendicolare delle scrivanie arriva dalla Folla di King Vidor e tornerà in Playtime, scomposto dalla grande figura disturbante di Jacques Tati, sempre a raccontare di una solitudine inevitabile eppure impossibile, il paradosso di essere, considera Bud Baxter, “un Robinson Crusoe che ha fatto naufragio tra otto milioni di individui”; il party natalizio della Consolidated Life raggela per la sua aziendale esattezza, per il palpabile spessore di frustrazioni che tracimano come l’alcol a poco prezzo.
(Paola Cristalli, Commedia americana in cento film, Le Mani 2007)




L’appartamento
è stato inteso, o frainteso, come il film di Wilder più fortemente critico nei confronti della società: il ritratto del mondo aziendale e impiegatizio capitalistico, nel quale per avere successo bisogna alienare tutto. Wilder ricevette montagne di lettere di impiegati, che scrivevano di aver riconosciuto in quel ritratto l'azienda dove lavoravano – tanta era l'esattezza con cui il film aveva fotografato la situazione.
Di conseguenza una parte della critica ne fu scioccata. Brendan Gill, critico della rivista “The New Yorker”, scrisse che gli risultava difficile provare simpatia per un protagonista che “trasforma il proprio appartamento in una sorta di bordello per i suoi boss”, mentre il critico del “Cue” ebbe a definire la storia un shoddy plot – meschino, scadente, traduce il dizionario.
In un libro su The Oscar People dalle pagine intrise dello spirito dell'anno di uscita, il 1965, la premiazione del 1960 viene definita “l'anno della prostituzione galoppante”: il nuovo liberalismo e l'indebolimento del codice Hays conseguente alla concorrenza del nuovo medium, la televisione, e ai film di Otto Preminger La vergine sotto il tetto e L'uomo dal braccio d'oro avevano prodotto un rilassamento dei costumi. L'appartamento aveva certo “i suoi pregi”, e Jack Lemmon, “nonostante la sua predilezione per i soggetti sporcaccioni” (a riprova sono citati il film di David Swift Sotto l'albero yum-yum, una commedia insignificante, e Irma la dolce di Wilder), era certo uno degli attori più interessanti in circolazione – ma il film, dice il libro citando una recensione, aveva men's room humor (un umorismo da vespasiano) e oscillava tra melodramma e commedia. […]
Grande è la comicità di questa tragedia impiegatizia (che proietta nella New York del 1960 gli incubi kafkiani), poiché tutto viene frainteso: Lemmon viene preso per un seduttore, mentre non è che un poveraccio. L'uomo che in apparenza ha eroicamente lasciato la moglie, non lo ha fatto di sua spontanea volontà ma perché la moglie lo ha buttato fuori di casa. Un libertino è in realtà un povero diavolo di buon cuore, e un medico litigioso è in realtà un filantropo. L'umorismo è shakespeariano: un sogno di una notte d'inverno trasposto nella New York del 1960. Nello shakespeariano Sogno di una notte di mezz'estate, la comicità deriva dal fatto che il cespuglio viene scambiato per un orso (in caso contrario si avrebbe una tragedia). Nel film di Wilder, il botto di una bottiglia di champagne viene scambiato per un segnale di suicidio.
La festa di Natale, durante la quale impiegati ubriachi si gettano su impiegate ubriache nelle stanze dove per il resto dell'anno ferve un'operosità da formicaio, è una delle sequenze che meglio inquadrano il nostro presente – benché Wilder asserisca di averla girata di getto. Quel party, come del resto l'intero film, sostituisce pile di trattati sociologici. Ed è anche più divertente. Si può presumere che le feste di Natale al writers department della Paramount non si svolgessero in modo molto diverso: prima molto alcol, e poi via al gioco delle coppie. Le sequenze di Natale e Capodanno del wilderiano L'appartamento sono da annoverare tra il meglio del cinema degli anni Sessanta.
(Hellmuth Karasek, Un viennese a Hollywood. Billy Wilder, Mondadori 1993)




Il cinema di Billy Wilder è una sorta di territorio franco, di universo interstiziale, di zona protetta e recintata in cui si giocano liberamente i miti della società americana, sia pure ridotti al gioco ben giocato (A qualcuno piace caldo; Non per soldi… ma per denaro), o alla dimensione sublimata dello sport in cui si manifestano alla luce del giorno e di fronte al pubblico le strategie competitive (L’asso nella manica; Prima pagina). Proprio qui – sulla scena o sul quadrato – si compiono i riti simbolici dei ruoli e delle divisioni sociali (Sabrina; L’appartamento) e si percorrono i tracciati stabiliti o si tentano le loro inversioni (La fiamma del peccato; Scandalo internazionale; Stalag 17; Che cosa è successo fra mio padre e tua madre). Per questo, il cinema di Wilder è il luogo del rovesciamento della conformità alla legge sociale e alle sue finzioni sublimate […].
Il denaro viene ricondotto al meccanismo che domina le regole del gioco sociale, e non per caso la strumentalità del denaro viene legata alla strumentalità del sesso: due elementi della ‘cultura del capitale’, due elementi che il capitale ha sempre impiegato per uniformare desideri e spinte individuali e sociali, per trasformare gli innocenti in complici (Sabrina; Irma la dolce; L’appartamento; Prima pagina). In tal modo possiamo spiegarci perché nei film di Wilder domina la dialettica sesso/denaro e innocenza/corruzione di cui ha parlato con tanta insistenza la critica. Ci spieghiamo come si saldano in una contraddittoria vitalità l’amore e l’economia, il piacere e il mercato, l’innocenza e l’esperienza, l’irresponsabilità e la corruzione. E ci spieghiamo perché il cinema di Wilder è ‘antimitologico’ per eccellenza. Perché, al contrario, è il cinema dello sguardo e della rivelazione dei meccanismi sublimati, è la rappresentazione delle regole del gioco citate e spiegate, economia esibita dei rapporti sociali sottratti alle mitologia della cultura del capitale.
(Maurizio Grande, Billy Wilder, Moizzi Editore 1978)





Architetture dell’alienazione



Cameron Crowe
: L’idea di un omino sperduto in un grande ufficio è un tema universale. Era questo che intendeva rappresentare con quella divertente scena kafkiana di Baxter negli uffici della compagnia di assicurazioni?
Billy Wilder: Sì. Quella scena l’ho ideata col mio amico scenografo Alexander Trauner, che era franco-ungherese. Era un genio. Abbiamo costruito il set con tutte quelle scrivanie nel Teatro 4 degli studi Goldwyn. Il teatro non era molto ampio, ma noi abbiamo sistemato nelle prime tre file dell’ufficio alcune scrivanie di dimensioni normali e poi, fila dopo fila, scrivanie sempre più piccole, con comparse sempre più basse di statura, fino a mettere, sullo sfondo, sagome di gente piccola così. (Mostra le dimensioni con le mani). E fuori, per avere un effetto ‘dall’alto’, facevamo circolare minuscole macchinine.
CC: Ecco dunque svelato il segreto! E quella prospettiva ottenuta coi modellini rendeva lo spazio ancora più ‘moderno’.
BW: Certo, la prospettiva. Bastò aggiungere le luci giuste e andò tutto a posto. L’intero set venne costruito in un giorno, un giorno e mezzo. Si trattò solo di una geniale soluzione prospettica. Trauner vinse un Oscar, ma le sue scene non erano sensazionali o appariscenti. Erano solo funzionali alla storia.
(Billy Wilder in Cameron Crowe, Conversazioni con Billy Wilder, Adelphi 1999)




È significativo che anche questo film, al pari di Sabrina e in misura maggiore di tutti gli altri, benefici di un lavoro scenografico e di una messa in scena di esemplare nitidezza e forza espressiva, quasi che, laddove è la crescita interiore del protagonista a dover emergere, questa non possa prescindere da un’elaborazione dello spazio di geometrica precisione.
Al riguardo, Sinyard e Turner hanno giustamente fatto riferimento a un “Conflitto tra l’orizzontale e il verticale”, che da una parte rappresenta “uno dei principi fondamentali di composizione del film”, e dall’altra sintetizza sul piano figurativo “uno dei temi principali, quello dell’arrampicata sociale”. Sia la conformazione architettonica del palazzo dove lavora Baxter, con gli uffici dei dirigenti situati ai piani superiori, che l’impiego di Fran Kubelik, addetta all’ascensore, danno un riscontro preciso alle ambizioni del protagonista, al suo desiderio di ascesa sociale ed economica […]. Per contro, i momenti di massima frustrazione del personaggio […] coincidono con la sua permanenza a livello della strada, dove appare prigioniero di uno spazio rettilineo, piatto, che pare estendersi all’infinito, sia pure, a dispetto delle sue ambizioni, solo in senso orizzontale. Queste sequenze mettono in rilievo soprattutto l’isolamento del personaggio in una metropoli, New York, che aliena gli individui e concede loro solo contatti occasionali, frettolosi, perlopiù dettati da interessi personali. La solitudine urbana è il vero, grande tema di L'appartamento, il film con cui Wilder osserva, con sguardo al solito impietoso, malesseri e vizi della società industriale nel momento della sua espansione […]. Per affrontare l’argomento, egli si rifà a un grande classico del cinema muto, La folla di Vidor, con il quale L’appartamento condivide non soltanto il tema, ma anche e soprattutto un’idea di messa in scena basata su un ricorso frequente e insistito alla profondità di campo. […] Come in La folla, la messa in scena riesce a definire visivamente il paradosso, l’ossimoro alla base dell’alienazione metropolitana: quanto più si è mescolati alla massa, quanto più si è aggregati a una moltitudine di individui che compiono persino le nostre stesse azioni, tanto più la solitudine è evidente, disperata, irreversibile. La presenza degli altri accentua l’impossibilità di stabilire, con il prossimo, rapporti duraturi, significativi, non casuali.
(Leonardo Gandini, Billy Wilder, Le Mani 1999)