Dallo Schlemihl al Mensch

Dallo Schlemihl al Mensch

- Lo specchio è a pezzi.
- Sì, lo so. Mi piace così. Mi ci vedo come mi sento.

 


Tra tutti gli attori con i quali Wilder ha lavorato, due possono essere considerati a buon diritto suoi alter ego: attori-doppi che più si avvicinavano alla sua natura e ai quali Wilder era anche legato da amicizia, con i quali trascorreva le vacanze e scambiava inviti: William Holden, ‘doppio’ di Wilder in due dei suoi quattro ruoli wilderiani, e Jack Lemmon, interprete del personaggio più amato da Wilder: lo Schlemihl, dignitoso perché comico. Potremmo dire che in Viale del tramonto e in Fedora Holden incarna l'aspetto tragico dell'esistenza hollywoodiana di Billy Wilder, e che Lemmon realizza comicamente le aspirazioni di un timido che non era mai stato, né mai era potuto essere, il ‘buffone della classe’ – mentre Lemmon, in sua vece, lo è di continuo.
(Hellmuth Karasek, Un viennese a Hollywood. Billy Wilder, Mondadori 1993)




Billy Wilder sceglie il registro della commedia drammatica, utilizzando il cinemascope in bianco e nero per ottenere un impatto realistico nello spirito di quel verismo che aveva segnato la sua attività berlinese. […]
Il fantasma del successo sociale individuale viene mostrato in modo insolito: non è questione di andare a letto con qualcuno per avere una promozione, ma di permettere di farlo agli altri nella speranza di ricavarne un vantaggio. Per questo il film respira una grettezza molto più losca di quella che trasuda da analoghe satire o melodrammi.
Ancora una volta abbondano i meccanismi d’inversione. L’energia dell’impiegato è canalizzata nella suddivisione dell’uso del suo appartamento da parte dei suoi diversi superiori piuttosto che nel suo lavoro. I suoi vicini sono convinti che sia un donnaiolo impenitente, mentre in realtà è un uomo solo, senza alcuna vita sessuale. Anziché licenziarlo per i suoi intrallazzi, il suo capo gli prospetta una promozione a patto di poter beneficiare dell’appartamento. Tutto è il riflesso patetico di una realtà fatta di menzogne e di manipolazioni che compensano le frustrazioni con l’adulterio, e per riuscirvi, ognuno usa gli strumenti di potere della propria classe sociale: il dirigente fornisce l’alcool, il capufficio offre del denaro in regalo all’amante. È un mondo di vampiri, in cui ognuno cerca il piacere e il proprio desiderio.
Eppure, questo impiegato solitario e arrivista è un romantico. È innamorato della ragazza dell’ascensore, che è proprio l’amante del padrone, anche se lo verrà a sapere troppo tardi per non soffrirne. Ma proprio quando ottiene la promozione, rinuncia per disgusto, degli altri e di se stesso, e diventa quel Mensch (essere umano) di cui parla il suo vicino medico. La ragazza di cui è innamorato lo raggiungerà dopo aver piantato in asso l’amante ed ex boss dell’uomo. Wilder dirà che tutto questo è la dimostrazione che (per una volta) non ha girato un film pessimista. Eppure, a ben vedere, quelli che vediamo giocare a ramino nella bella scena finale sono due disoccupati, che hanno perso le loro illusioni rifiutando ogni compromesso e si ritrovano ai margini della società. Perché chi non accetta di sottostare alla logica del potere perde ogni speranza di ascesa sociale.
Per un paradosso tipicamente americano, questo film implacabilmente critico verso le istituzioni del paese è premiato con ben cinque Oscar, tre dei quali allo stesso Wilder: produzione, sceneggiatura e regia.
(Noël Simsolo, Billy Wilder, Cahiers du cinéma 2011)





Il raccordo più significativo è quello tra A qualcuno piace caldo e L'appartamento, il film che gli è immediatamente successivo. Nel primo abbiamo lasciato Jack Lemmon impegnato nel vano tentativo di farsi riconoscere e accreditare come uomo da Osgood; nel secondo, lo troviamo alle prese con un compito analogo, quello di agire da mensch, dunque, ancora una volta, da uomo, sia pure nel senso più esteso che la lingua tedesca dà al termine (essere umano, creatura dotata di umanità). La parola viene pronunciata per la prima volta all’inizio del film, dal medico vicino di casa del protagonista, che consiglia a Baxter, appunto, di comportarsi da mensch. Tuttavia, mensch il personaggio riuscirà a essere soltanto nell’epilogo, quando si dimostrerà finalmente capace di privilegiare la dignità sull’ambizione, i sentimenti e l’orgoglio sul calcolo, negando la chiave del proprio appartamento al capoufficio e motivando la decisione con il desiderio di seguire il consiglio del dottore (“Ho deciso di diventare mensch. Lei conosce il tedesco? Un essere umano”). Il fatto che il riferimento alla menschheit compaia all’inizio e alla fine del film, fa di L’appartamento una sorta di parabola morale, quasi un bildungsroman, simile nella struttura e nei temi di fondo a Sabrina e Arianna, incentrati a loro volta sul difficile, impegnativo viaggio verso la maturità del personaggio principale.
(Leonardo Gandini, Billy Wilder, Le Mani 1999)

 


The (Happy?) End

 

“Ho ritratto gli americani come bestie... non ho mai pensato che L’appartamento fosse una commedia”, rispondeva risentito Wilder alle riserve di chi lo accusava di sentimentalismo e d’indulgenza all’happy ending: critiche desolanti davvero, rivolte al cineasta americano che più d’ogni altro ha saputo elaborare la nozione stessa di lieto fine, con inesauribile ispirazione narrativa e profondità teorica. Commedia di frontiera, che forse più d’ogni altra infrange la definizione aristotelica di imitazione senza dolore, L’appartamento deve la sua configurazione a Jack Lemmon non meno che a Wilder e a Diamond: Lemmon ne fa il campo d’una performance implacabile, d’uno sbalorditivo controllo comico del pathos, maschera disposta a incrinarsi nel solo, epifanico momento in cui Baxter vede lo specchio rotto, capisce chi è Fran, poi osserva smarrito e come per la prima volta quel se stesso raddoppiato e frantumato: da qui comincia la sua rigenerazione. E la rigenerazione è appunto ciò che fa di L’appartamento, per l’essenziale, una commedia romantica in modo quasi classico. Nelle due stanze sempre in mezzaluce, eppure così definite di oggetti e dettagli rivelatori, i due personaggi affrontano la loro avventura di crescita e di deriva comune (finiranno entrambi in un altrove sospeso, e senza lavoro), e infine si dispongono a un gioco (“dai le carte”, suona l’ultima battuta). L’unica cosa certa è che Bud Baxter, a questo punto, è diventato un mensch, ciò cui lo esortava fin dall’inizio, il medico ebreo e tedesco Dreyfuss, che con la sua umanità familiare e semplice serietà scientifica interrompe la catena dei terribili e ridicoli dottori mitteleuropei del cinema wilderiano […], e Fran Kubelik è ciò che ci mostra la meravigliOsa sequenza della sua corsa finale verso l’appartamento di Baxter, fosse solo per un attimo anche lei eroina runaway, finalmente splendente nel primo vero sorriso di questa commedia.
(Paola Cristalli, Commedia americana in cento film, Le Mani 2007)




Billy Wilder: La partita di ramino era già nel copione, quando lei si riprende dal tentativo di suicidio e i due si mettono a giocare a carte. La partita però non era terminata, e noi non volevamo il solito bacio e un finale troppo sdolcinato. Ma avevamo un ottimo spunto per l’ultima scena. In precedenza, si parla di un tentato suicidio di lui, con una pistola: non sapendo affatto usarla, C.C. Baxter si era sparato a un ginocchio. Dunque, sappiamo che c’è una pistola e che l’arma era nella valigia preparata per tornarsene a Cincinnati o vattelapesca dove. Il Dottor Dreyfuss gli porta una bottiglia di champagne. Poi accade una cosa, ricorda?: scocca la mezzanotte, è Capodanno e le luci di New York si spengono. Fred MacMurray è ora un uomo divorziato e fa – finalmente! – la sospirata proposta di matrimonio a Shirley MacLaine. Ma quando si riaccendono le luci... lei è scomparsa. Abbiamo usato il trucco delle luci di mezzanotte che si spengono. Poi vediamo lei che corre, corre, corre verso l’appartamento. E il film potrebbe anche finire qui, giusto?
Lemmon potrebbe vederla dalla finestra e farle un cenno di saluto, oppure aprire la porta e accoglierla con un bacio. Ma noi non volevamo un finale del genere, il classico finale col bacio. E ci siamo fatti venire un’idea niente male: Fran sta correndo e sente il rumore di uno sparo. Noi ancora non sappiamo di cosa si tratta, e lei pensa: “Mio Dio, aveva già tentato di uccidersi per un’altra, forse questa volta non mirerà al ginocchio!”. Quindi si mette a correre sempre più veloce e corre e corre e raggiunge la porta dell’appartamento. Bussa. Lui apre: ha in mano una bottiglia di champagne in una cascata di schiuma... (ridacchia) sa come succede, quando lo si agita. “Sia lodato il Cielo!”... ma ancora niente bacio. Lui le domanda: “Che ti succede?”. E Fran: “Nulla, finiamo la partita”. Le carte sono lì sul tavolo, dove le hanno lasciate. Lui le dice qualcosa di tenero.
Cameron Crowe
: Le dice: “Ti amo, Miss Kubelik”.
BW
: Sì, “Ti amo”. E lei gli risponde: “Taci e dai le carte!”. E lui anziché dieci carte distribuisce l’intero mazzo, ricorda?
CC
: Sì, un bacio sarebbe stato troppo romantico, troppo sdolcinato.
BW
: Non sarà un finale alla “Nessuno è perfetto”, ma almeno non è strappalacrime.
(Cameron Crowe, Conversazioni con Billy Wilder, Adelphi 1999)




Wilder per la prima volta fa indossare la maschera non a un personaggio, ma a un luogo, lo stesso che dà il titolo al film. Un appartamento vestito da garconnière, una casa ridotta a casa d’appuntamento: l’antropomorfizzazione dello spazio prevede una metamorfosi che nello specifico si traduce nella sua reiterata manipolazione da parte dei funzionari della compagnia, che violentano le quieti e innocenti attività domestiche di Baxter stravolgendone l’ambiente, disseminandolo di indumenti femminili e tappi di champagne, tracce evidenti di una sua utilizzazione alternativa ed eterodossa. Come accade a tanti personaggi wilderiani, il travestimento introduce quindi un’immagine del tutto opposta a quella originale. Nella sequenza conclusiva, i due diversi modi di utilizzazione dello spazio si elidono a vicenda, e concedono alla coppia finalmente riunita il lusso di un incontro in un luogo neutro, vuoto, da cui sono stati rimossi, insieme agli oggetti riposti negli scatoloni, i molteplici ricordi (di solitudine, di adulterio) che vi sono collegati. Wilder concede qui allo spazio dell’appartamento una possibilità solitamente preclusa ai suoi personaggi (con l’eccezione, forse, di Charles Tatum in L’asso nella manica), quella di ricominciare da zero, di potersi sbarazzare di tutte le identità precedenti, senza dover necessariamente scegliere fra una di esse.
(Leonardo Gandini, Billy Wilder, Le Mani 1999)