Antologia critica

Antologia critica

La sensibilità di Jacques Becker per l’ambientazione e il contesto sociale, già dimostrata nei suoi film con soggetti contemporanei, è applicata in Casco d’oro con un effetto ancora più straordinario. In questo suo primo film in costume ha osservato minuziosamente il contesto della Francia di fine Ottocento: i costumi e i modi dei suoi personaggi sono precisi e corretti, senza che sembrino ricercati (né una caricatura), l’atmosfera è convincente ma discreta. In questo contesto, Becker e il suo co-sceneggiatore Jacques Companeez hanno immaginato una storia d’amore di classica semplicità. La sceneggiatura è scarna fino all’austerità e quasi perfettamente ‘cesellata’ […]. Becker è stato aiutato dal suo direttore della fotografia e dal suo scenografo e ha montato lui stesso il film con rara precisione. […]
Un confronto tra Alba tragica e Casco d’oro – suggerito, in primo luogo, dalla similitudine dei temi – fornirebbe materia fertile per uno studio dell’evoluzione del cinema francese dal 1939. Più immediatamente e direttamente interessato alle relazioni umane (meno alle loro implicazioni sociali) e privo del tipico pessimismo prebellico, Casco d’oro si colloca accanto al film di Carné tra i capolavori del cinema francese.
K.R., “Monthly Film Bulletin”, n. 216, gennaio 1952


Quando in Inghilterra scrissi la recensione di Casco d’oro, tentai di definire la scintilla che faceva splendere l’opera di Becker, e conclusi che in definitiva si trattava “di una simpatica fascinazione di fatti e di gesti”. Volevo così sottolineare la complicità che esiste tra Becker e ciò che si potrebbe definire ‘il superficiale’; non che sia un regista superficiale, ma per lui il superficiale non è mai fuori luogo. È affascinato dagli oggetti, dalle scenografie, e dal modo in cui rivelano i pensieri, le convinzioni e le emozioni degli uomini e delle donne che li utilizzano. È evidente che un simile talento potrà esercitarsi più facilmente su un soggetto contemporaneo che su uno storico, ed è questo che conferisce a Casco d’oro un rilievo particolare fra i successivi film del suo autore.
Si noterà tuttavia che Becker, nonostante il fascino delle scenografie, ha fatto di tutto perché Casco d’oro fosse realistico, come mostrano in particolare le sequenze finali altrettanto implacabili, e non meno straordinarie, di quelle del miglior Rossellini (alcune scene di Roma città aperta e l’ultimo episodio di Paisà), ma dotate in più della forza che conferisce loro un assoluto controllo estetico del soggetto.
Lindsay Anderson, Lettre anglaise sur Becker, “Cahiers du cinéma”, n. 28, novembre 1953


La vena più autentica della personalità di Becker, contrariamente a quanto vien sostenuto da gran parte della critica ufficiale francese, deve identificarsi in quel filone aspramente realistico dell’autore che trova le sue lontane origini in Goupi mains-rouges e il suo culmine stilistico in questo Casco d’oro. […] Casco d’oro è di gran lunga la migliore opera di Becker, quella in cui il suo indubbio talento, inteso alla descrizione di un mondo e di un costume, appare vivificato da una ricca umanità e sostanziato da una intima partecipazione umana, in cui il gusto raffinato della descrizione ambientale è assolutamente funzionale nei confronti della vicenda e dei personaggi, in cui l’accento grottesco della sua personalità si fonde puntualmente e si sublima in un impeto drammatico di pieno rigore. L’essere riuscito ad elevare un qualunque volgare fatto di cronaca nera a dignità stilistica, anche se non sempre pienamente riaffermata, è motivo di non poco merito per Becker, specie in considerazione del fatto che egli ha conseguito un tale risultato senza nulla concedere ad esigenze meramente spettacolari o facilmente emotive. Il film ha una chiusa compattezza, un rigore di gusto, un’intensità drammatica, che fanno pensare al primo Carné, con minori preoccupazioni letterarie e simbolistiche e con minori evasioni estetizzanti, pur in una caratterizzazione psicologica dei personaggi meno ricca e approfondita. […]
Notevolissima per acume di notazioni e precisione di gusto è la descrizione ambientale: un vero affresco dal quale nasce una visione affatto convenzionale della ‘Belle époque’ ma balza vivo un mondo con i suoi personaggi disegnati con analitica puntualità.
Nino Ghelli, “Bianco e nero”, n. 12, dicembre 1955


Ricca di sentimenti teneri come di tragiche crudeltà, questa storia appare soprattutto vivificata dal colore di un’epoca che non è stavolta manierato appiglio decorativo, bensì restituzione di un ‘tempo perduto’ ricercato con sottile nostalgia e ricostruito con una singolare potenza evocatrice sorretta da un gusto consapevole e da precisi riferimenti culturali.
Errato comunque sarebbe il vedere in Casco d’oro soltanto una vicenda di cronaca nera fin-de-siècle o un frutto tardivo del naturalismo ‘populista’. […] In esso confluiscono altresì – in più o meno percettibili riecheggiamenti – le esperienze del Renoir di Une partie de campagne, del Carné di Les Enfants du Paradis, del Clair di Il silenzio è d’oro, nonché della pittura impressionistica di Renoir padre e di Cézanne: tutte assimilate a nobilitare un canovaccio e un ambiente che – per confessione dello stesso regista – prendono le mosse dai ‘feuilleton’ di Eugène Sue e dalle prime pagine dei settimanali illustrati dell’epoca. […] Casco d’oro è infatti un dramma della malavita parigina di sessant’anni fa, sensuale e violento, con duelli rusticani, feroci vendette e perfide delazioni; ma il regista non si ferma a ‘er fattaccio’, al cruento dato veristico sia pure stemperato nella pittoresca cornice del costume; bensì lo decanta e lo supera nei modi di una narrazione secca ed elegantissima, distaccata e ironica quel tanto che basta a evitare l’equivoco; e ricostruisce quel mondo con occhio critico, polemico contro la goffaggine ipocrita dei borghesi, e insieme affettuosamente partecipe delle passioni e dei drammi dei suoi personaggi i quali sono sapientemente inventati e contrapposti. Da un lato il malvagio calcolatore, il capobanda Leca, che per avere la donna desiderata elimina con astuta perfidia i due concorrenti mettendoli l’uno contro l’altro; dall’altro il popolano generoso e retto, che rinuncia consapevolmente alla felicità e alla vita per scagionare l’amico arrestato al suo posto. E sopra tutti Marie, prostituta gentile e fiera, piena di slanci materni, protagonista di una limpida e poetica storia d’amore che è nel contempo documento ed espressione di un costume, di un’età e di un ambiente ricreati con estrema cura. […] Becker è riuscito a guidare gli attori, offrendo specialmente a Simone Signoret e a Serge Reggiani l’occasione di una interpretazione non ancora eguagliata.
“Cinema nuovo”, n. 76, 10 febbraio 1956


Il film, diretto da Jacques Becker e interpretato da Serge Reggiani e Simone Signoret, è ambientato come French can can di Renoir nella ‘Belle époque’, ma a differenza di questo, superficialmente decorativo, è condotto senza nulla concedere alle basse esigenze spettacolari e ci dà attraverso l’angolo di una scabra storia drammatica una penetrante visione di quel mondo e di un certo ambiente. Quanto il film di Renoir è addomesticato all’americana tanto questo di Becker è intransigentemente francese. […]
Piace, innanzi tutto, la perfetta adesione del regista al contenuto, che si rivela nel modo con cui egli persegue due finalità, forza espressiva e chiarezza, alle quali sacrifica non solo ogni considerazione ‘opportunistica’ nei confronti del pubblico, ma persino qualsiasi tentazione di formale eleganza. […]
Questa voluta povertà di mezzi raggiunge in pieno lo scopo di far vibrare il racconto e di dargli un’ambientazione autentica e priva di artifici. Scopo che non si sarebbe ottenuto con una tecnica più moderna, come dicono quei registi tutti carrelli e panoramiche combinate e complesse, che riportano nel cinema il calligrafismo ormai stantio della letteratura.
Si scandalizzi chi vuole perché Becker interrompe al momento culminante una scena d’amore con una panoramica in alto sugli alberi per poi ritornare in basso e riprendere il racconto; è una soluzione ovvia, in se stessa banale se si vuole, ma che qui cessa di esserlo perché pienamente adeguata alla narrazione e al momento drammatico che non consente soste. […]
Ora è da credere che Casco d’oro non abbia avuto il successo che meritava proprio per queste sue qualità artistiche, in un periodo come l’attuale che sta deformando il gusto del pubblico con le esteriori grandiosità del cinemascope e le scintillanti volgarità del colore.
Luigi Chiarini, Panorama del cinema contemporaneo 1954-1957, Edizioni di Bianco e Nero, Roma 1957


Due aspetti mi sembrano caratterizzare l'universo e la visione di Becker:
– in primo luogo, il suo essere francese. Lui ha spesso affermato: “Sono francese: lavoro in Francia per un pubblico francese”. Questo mi sembra importante: perché Becker è forse l'unico cineasta del dopoguerra la cui opera offra un ritratto della società francese, nei suoi diversi strati, da quello rurale a quello aristocratico, passando naturalmente per quello popolare e populista. Un quadro sociale della Francia dal 1942 (Falbalas, l'occupazione) al 1954. Non so se si possano trovare molti registi la cui opera componga un paesaggio della società francese contemporanea all’autore.
In questo panorama, c'è solo un’opera difforme: è Casco d'oro, un film ambientato nel 1900, e quindi l'unico film non contemporaneo (‘in costume’, come dicono gli italiani) di Becker.
– il secondo aspetto essenziale che mi sembra definire lo stile di Becker è il suo genio – azzardiamo questa parola – del gesto. Conoscete la frase di Renoir: “Ho intrapreso una sorta di studio del gesto francese attraverso i dipinti di mio padre e quelli dei suoi contemporanei”. Nel mondo di Becker, ciò che è davvero fondamentale è che la visione sociale che ci offre sullo schermo trae la sua verità essenzialmente dal gesto. In Casco d’oro che tutti i personaggi, le prostitute, i loro protettori, i bistrot, i poliziotti, i loro commissari, e anche i falegnami, gli ebanisti, sono definiti dai gesti del mestiere, nel senso nobile del termine.
A mio parere, si arriva a un punto tale che il livello di credibilità storica raggiunto dalle immagini di Casco d'oro è tale da far pensare che certe cose possano essere state filmate nel 1900.
Barthélemy Amengual, “Les Cahiers de la Cinémathèque”, n. 18-19, primavera 1976