La genesi del film

La genesi del film

La sceneggiatura era ispirata, ma molto alla lontana, dalla storia vera di una certa Amélie Hélie, detta Casco d’oro, prostituta nel quartiere di Point-du-Jour sul finire del secolo, che fu la compagna di un malvivente chiamato Manda, capo della banda degli Apaches che derubavano i passanti a Folie-Méricourt. Durante un regolamento di conti, Manda aveva pugnalato il suo vecchio luogotenente Dominique Leca, diventato capo di una banda rivale, suo concorrente nel cuore di Casco d’oro. Nel 1902 i due balordi erano stati condannati ai lavori forzati e Casco d’oro, diventata celebre grazie a questsco fatto, fece una breve carriera di ‘chanteuse’ mentre i suoi due vecchi spasimanti scontavano la pena a Cayenne.
Era un vecchio progetto, uno di quei serpentoni che si trascinano negli ambienti cinematografici. Duvivier prima della guerra, poi Clouzot, poi Yves Allégret avevano sognato di mettere in scena questa guerra tra bande rivali nei sobborghi della Belle époque. Il populismo esotico dei sobborghi era pieno di seduzioni per un regista di quegli anni, come lo era stato per gli impressionisti. Il romanticismo del popolino dei lavoratori toccava una corda sensibile.
Jacques Becker aveva trasformato completamente la storia per farne una tragedia dell’amore. Aveva accentrato tutto attorno alla passione di Manda e di Casco d’oro, gli amanti maledetti perseguitati dall’odio della gelosia di Leca, mercante di vini (Claude Dauphin). […]
Coloro che avevano partecipato alle riprese sentivano perfettamente che non si trattava di un film come gli altri. Le riprese erano state una festa. C’era stata una specie di grazia collettiva. Il clima stesso era stato favorevole. Jacques Becker aveva bisogno di una nebbia leggera sulla campagna, e la nebbia si levava al mattino. L’indomani aveva bisogno del sole, e il sole si mostrava. Gli attori erano alloggiati in un alberghetto rustico che avrebbe potuto fungere da scenario del film, con bacinelle di maiolica nelle camere e “un orto, in fondo al quale si trovavano i servizi”. Ed erano, gli uni e gli altri, in quel momento della vita in cui l’amore si rivela nella sua pienezza. “Jacques era innamorato di Annette, e il suo amore dall’amore passava alle immagini. Io ero innamorata di Montand, e Manda ne approfittava, e poiché Manda era Serge Reggiani, era piacevolmente incestuoso far finta di amarsi in modo diverso, quando ci volevamo bene da tanti anni. E Jacques ci amava tutti”.
Casco d’oro era illuminato da tutto questo amore. Ma era un film nero, una tragedia. Cadeva male in quegli anni frivoli. Lo spettro delle restrizioni del dopoguerra si allontanava, la crescita economica era vertiginosa, le osterie di Saint-Germain-des-Prés erano piene di gente, Françoise Sagan scriveva Bonjour tristesse, c’era la moda della ‘dolce vita’, del whisky e delle automobili sportive. Tutt’altra faccenda.
Nessuno era preparato a Casco d’oro, a questo diamante nero.
Catherine David, Simone Signoret, Marsilio, Venezia 1991


Le riprese iniziarono il 24 settembre 1951 e il film uscì il 16 aprile dell’anno successivo tra l’indifferenza della critica e del pubblico, ignorato dal Festival di Cannes. Michel Dorsday attaccò Becker sulle pagine dei “Cahiers du cinéma” parlando di un film “incomprensibile, ridotto a una storia di puttane”.
Nessuno poteva prevedere, in quel momento, che Casco d’oro sarebbe diventato un classico del cinema francese. È quanto accade alle opere che, pur lavorando nel solco della tradizione, offrono elementi di novità. Casco d’oro sembra rifarsi al cinema populista d’anteguerra; Becker respinge tuttavia gli artifici retorici di quelle opere scegliendo piuttosto la strada di una poesia asciutta e scontrosa. Tornando alle radici della letteratura populista, ovvero all’inizio del secolo, il regista colloca personaggi ed eventi in un tempo sospeso, a tratti mitico, dove la passione, la lealtà e l’infamia sono valori archetipici. Contemporaneamente, pur riconoscendo il suo debito verso la pittura e ancor più verso i disegni del “Petit journal illustré”, il regista non si lascia sopraffare dall’estetismo: nessuna bella inquadratura dura più del dovuto, nessuna luce è attesa troppo a lungo. La vibrazione viene dai volti magici di Simone Signoret e Serge Reggiani, dal vortice degli sguardi, dal saluto breve e complice che Manda e Raymond si scambiano incrociandosi al commissariato. Non c’è lusso in questa Belle époque, gli arredatori e i costumisti fanno il loro lavoro in maniera ineccepibile, ma completamente sottomessi al disegno rigoroso dell’autore. Al posto delle rutilanti insegne e dei vicoli colorati, Casco d’oro descrive un paesaggio di orti, staccionate, prati incolti tra vecchi palazzi, villini di periferia, cortili bui. Uno spazio in cui il limite tra città e campagna non è ancora così netto e forse la fuga ancora possibile.
Nello stesso tempo, Becker è esplicito nell’offrire una chiave di lettura politica. Nella colonna sonora si ascolta a più riprese Les Temps des cerises, melodia popolare tra le barricate della Comune nel 1871. Fin dalla prima scena nella trattoria di campagna i malavitosi sono guardati con disprezzo dai clienti piccolo borghesi; più tardi, all’Ange Gabriel, i ricchi accorrono come allo zoo per vedere da vicino la teppa, provare emozioni forti e misurare così la distanza da questo universo pittoresco e deprecabile. Ma il film, pur critico verso una società classista, non si lascia prendere la mano dal romanticismo e marca una linea ancor più netta tra i banditi e il falegname Georges Manda. I malavitosi si prendono gioco di lui perché ha un lavoro ed è un lavoro modesto; ma anche Raymond, il suo vecchio amico, è stato fornaio. Tutta la partita si gioca tra la statura morale di Manda e il cinismo del capobanda Leca.
Leopoldo Santovincenzo, Enciclopedia del cinema. Dizionario critico dei film, Treccani, 2004