Il mio nome è John Merrick

“Mi piacciono le condizioni umane distorte. Fanno risaltare ciò che distorto non è”
(David Lynch)

 

John Merrick, il protagonista di Elephant Man, è vissuto alla fine del XIX secolo. Grazie alla documentazione fotografica dell'epoca si è potuto conoscerne l'aspetto. Fin dall'infanzia era afflitto da una malattia rara che rendeva la sua pelle spugnosa e cadente. Il suo cranio gigantesco era deformato da protuberanze. Sul volto, il labbro superiore sporgeva verso l'esterno, ricordando vagamente una proboscide – da cui il suo soprannome – mentre gli arti inferiori erano deformi. Era zoppo a causa di una malattia alle anche e, dulcis in fundo, emanava un odore pestilenziale.
Secondo il suo protettore, il dottor Treves (il cui libro è stato una delle fonti della sceneggiatura), aveva girato per vent'anni da un luna park all'altro, coperto da un cappuccio calato sulla testa gigantesca. Treves scoprì l'uomo elefante in un baraccone di Londra dove veniva esibito per due penny. “Alzati!” gli ordinava l'individuo che lo sfruttava. A questa frase si sono ispirate molte scene del film. Fu così che Treves scoprì ciò che ai suoi occhi era “l'esemplare umano più abominevole che fosse mai esistito”. La sua indignazione lo spinse a fare intervenire la polizia affinché impedisse lo spettacolo. Ma ciò non ebbe alcun risultato se non quello di obbligare Bytes, il ‘proprietario’, a lasciare l'Inghilterra e a tentare, senza successo, di presentare il suo spettacolo in Francia e in Belgio. Alla fine Bytes abbandona la sua creatura su un treno dove viene arrestata dalla polizia. Gli trovano addosso un biglietto da visita che Treves gli aveva lasciato durante uno dei loro incontri. Contattato, il professore si adopera ad alloggiare quel poveretto in due stanzette dell'ospedale in cui lavorava.
Per contribuire al mantenimento decide di sensibilizzare l'opinione pubblica e le donazioni cominciano ad affluire: Merrick diventa così una persona famosa che riceve molte visite, perfino quella della famiglia reale. Inizialmente si pensava fosse un ritardato mentale perché la timidezza gli impediva di esprimersi. In realtà era intelligente e colto, adorava i romanzi sentimentali e, secondo Treves, si innamorava di tutte le belle donne che lo andavano a trovare, singhiozzando ogni volta che esse gli davano segni di amicizia e gentilezza. Fu trovato morto nel suo letto nell'aprile 1890: l'enorme testa gli aveva spezzato le vertebre cervicali. Era questa la ragione infatti per cui poteva dormire solo seduto, appoggiato a cuscini, con il capo fra le ginocchia. Sarebbe dunque morto per il desiderio di dormire come tutti gli altri.
Ben si può immaginare l'impatto emozionale di questa storia vera, ma anche la difficoltà a introdurvi nuovi sviluppi, a meno di prendersi notevoli libertà rispetto al racconto di Treves, come hanno fatto gli autori sia nei fatti che nella cronologia.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)

 

 

John Merrick, l’uomo-elefante, è una delle rappresentazioni più intense di questo conflitto, interiore e sociale, tra un corpo ribellatosi alle norme estetiche comuni ed una mente desiderosa di dimostrare la piena appartenenza al genere umano. I tumori e le escrescenze che ricoprono il corpo di Merrick ne fanno un essere destinato alla reclusione nei baracconi della fiera, l’unico luogo in cui può essere esibito limitando il potenziale offensivo insito nella sua costituzione fisica. […] Merrick è però un mostro che rifiuta di essere relegato in questo spazio liminare e decide di ‘entrare’ nel mondo: se il suo primo abbandono della fiera si compie grazie all’interessamento del dottor Treves, la seconda fuga viene organizzata da altri impietositi dalle condizioni animalesche nelle quali è tenuto e dalla visione delle vessazioni e delle violenze di Bytes, il proprietario del baraccone. […] Questa solidarietà tra creature diseredate e reiette richiama alla mente il film di Tod Browning programmaticamente intitolato Freaks. […] Merrick sceglie così di non subordinare la sua esistenza al ruolo assegnatogli da una società ottusa e discriminante, ma di affermare il suo diritto a determinarsi come ‘essere umano’ pensante. Sebbene la sua vita continui a trascorrere in un luogo recluso come l’ospedale, la sua dimensione dell’esistente è mutata. Nella casa di cura John Merrick è un ospite accettato e non soltanto tollerato. […] Il mostro rimane chiaramente presente agli occhi dei visitatori e dei curiosi, ma la sua educazione e la sua intelligenza sembrano ammonire le persone ‘normali’ a rivedere le proprie concezioni riguardo la diversità e la deformità. Merrick è la dimostrazione vivente che il confine tra normalità e diversità è molto più labile di quanto si possa ritenere. [...]
Merrick è dunque un ‘diverso’ che vuole semplicemente essere considerato un uomo come tutti gli altri. E se essere come gli altri significa dover affrontare la morte, allora Merrick lo fa con apparente serenità, senza rabbia né desiderio di vendetta.
(Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 1993)

 

 

Il trattamento traumatico del corpo umano si situa in una costellazione cinematografica che ha portato – negli anni Ottanta – a ridefinire i limiti della visibilità: basta pensare al cinema di David Cronenberg, ai deliri splatter di Brian Yuzna, ai film di Jorg Buttgereit, all'opera di Shin'ya Tsukamoto. David Lynch, a dire il vero, non sembra particolarmente interessato a costruire intorno al concetto di corpo una riflessione di stampo epistemologico (come è nel caso di Cronenberg) o a fissare nuovi confini nelle pratiche sociali del guardare (Buttgereit). Piuttosto, sembra deciso a definire la presenza inalienabile delle eiezioni corporee nel nostro mondo, e a ricordare la perenne esistenza del corpo in quanto fattore di orientamento nelle comunicazioni interpersonali, nel rapporto che abbiamo con gli altri. L'insistenza su persone sgradevoli, handicappate o deformi non va – bisogna ribadirlo – letta in funzione puramente comica (cinica) o orrifica, bensì all'interno di un sottile ragionamento sulle reazioni del nostro guardare la deformità. Reazioni che riguardano alcuni personaggi del film o gli spettatori stessi. Analizzando i film più ‘classici’ di Lynch, ci si accorge che The Elephant Man rappresenta proprio, in termini melo-drammatici e codificati, il sistema di lettura dell'opera di questo regista. Il racconto della vita di John Merrick, che non rinuncia né al morboso né al comico né all'orrore, sembra più concentrato sull'effetto sortito dal repellente somatico sugli uomini che interagiscono con il protagonista. che non sulla incolpevole mostruosità dello stesso. Ciò non impedisce, peraltro, a Lynch di costruire alcuni quadri astratti, all'interno dell'affidabilità narrativa della pellicola, nei quali il corpo o la testa deformati di Merrick assumono una valenza quasi artistica.
(Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002)

 

 

Quella grande testa sproporzionata con gli occhi tristi di John Hurt non è quella di un mostro ma di un bambino: come un bambino infatti ha paura e ascolta assennatamente quel che gli si dice. La sceneggiatura sembra orientarsi verso una soluzione prematuramente felice.
A questo punto fa la sua comparsa il guardiano notturno dell'ospedale, un uomo rozzo e cinico che vede in Merrick un'occasione di profitto, organizzando a pagamento delle esibizioni clandestine del mostro. In seguito, più le sorti dell'uomo-elefante risultano ufficialmente migliorate, più le sue notti vengono tormentate dalle visite organizzate dal guardiano, con uomini e donne in cerca di sensazioni (anche di tipo erotico), che lo ricacciano sempre più a fondo nella sua diversità e nella sua bruttezza.
Val la pena di notare che Merrick, che nel frattempo ha dimostrato di saper parlare, non racconta mai a Treves le sue disavventure notturne. Questo accentua nello spettatore l'impressione che il giorno e la notte siano due mondi separati, retti da leggi proprie: la notte è il regno del custode, cui un mazzo di chiavi conferisce pieni poteri; mentre il giorno è quello della gente perbene. D'altronde, gli sceneggiatori hanno fatto in modo di non metterli mai insieme in una stessa scena, prima che l'uomo-elefante venga portato via dall'ospedale.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)