Antologia critica

Antologia critica

L'accoglienza

Dopo alcune proiezioni private, organizzate dalla PEA subito dopo la morte di Pasolini, Salò venne presentato alla stampa intorno a metà novembre del 1975 e suscitò reazioni molto controverse. La percezione del film fu evidentemente influenzata dalla tragica morte dell’autore: Cesare Musatti (Il Salò di Pasolini regno della perversione, “Cinema nuovo”, n. 239, gennaio-febbraio 1976) non si accorse che Salò era tratto dal romanzo di Sade e si basò sulla fabula del film per stilare un arbitrario referto psicoanalitico della (da lui presunta) vita sessuale di Pasolini. In realtà non fu il solo a interpretare il film alla luce di un giudizio sulla vita privata dell’autore perché fu imitato in questo perfino da Italo Calvino in pagine discutibili (Sade è dentro di noi, “Corriere della Sera”, 30 novembre 1975), che furono oggetto di un’immediata replica da parte di Alberto Moravia (Sade per Pasolini un sasso contro la società, “Corriere della Sera”, 6 dicembre 1975), le cui parole sono fra le più illuminanti sul film al tempo dell’uscita in sala, accanto a quelle di Mino Argentieri (Salò o le 120 giornate di Sodoma, “Cinemasessanta”, n. 114-115, marzo-giugno 1977), Edoardo Bruno (La “rappresentazione”, “Filmcritica”, settembre 1975), Giovanni Buttafava (Salò o il cinema in forma di rosa, “Bianco e Nero”, gennaio-aprile 1976), Virgilio Fantuzzi (Note di lettura sull’ultimo Pasolini, “Rivista del cinematografo”, maggio 1976), Adelio Ferrero (Salò: metafore della morte borghese, “Cinema e cinema”, n. 7-8, aprile-settembre 1976), Tullio Kezich (Sette istruzioni per l’uso di un film maledetto, “La Repubblica”, 11 marzo 1977), Morando Morandini (Il Salò di Pasolini, “Il Giorno”, 22 novembre 1975) e altri.
In Francia alcuni critici non perdonarono l’accostamento di Sade al fascismo (in particolare Roland Barthes ma anche Michel Ciment, che parlò di “errore clamoroso” per “l’identificazione fra nazismo e perversione”) e in generale il film divise ancora più che in Italia. Fra i primi che riuscirono a valutare il film al di là dei pregiudizi culturali, va citato Henri Chapier (“Quotidien de Paris”) che lo definì “un film morale nel suo eccesso di furore iconoclasta”.
In Inghilterra furono significativi gli interventi di David Robinson che sul “Time” (10 dicembre 1975) citò Swift, scrivendo che “l’angoscia, il metodo e anche la scatologia, sono tipicamente swiftiani. Pasolini era arrivato al punto di rifiutarsi completamente di sedurre il suo spettatore; non voleva dare al suo popolo ciò che lui considerava il piacere di essere scandalizzati”) e su “The Guardian” Gideon Bachmann (che aveva frequentemente incontrato e intervistato Pasolini sul set) lo definisce “un capolavoro agghiacciante”.
Di condanna fu il giudizio della stampa sovietica, esemplificata dal testo del corrispondente dello “Izvestia” (26 aprile 1977) che scrisse che il film “costituisce la peggiore accumulazione di sadismo e masochismo nonché di deviazioni perverse e disgustose che si sia mai vista al cinema”.
Negli anni successivi il valore del film ha continuato a crescere d’importanza alimentando nuove interpretazioni critiche, saggi e monografie. Salò rimane un’opera che continua a presentare nuovi strati di senso, confermando l’intuizione di chi, come già Franco Fortini nel 1979, lo ha definito uno dei più alti risultati artistici di Pasolini.

(Roberto Chiesi)



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Circa il film di Pasolini, occorre fare un’osservazione, a mio parere, fondamentale: si tratta di un film in cui non c’è neppure l’ombra del sentimento crudele, anche se, poi, il tema è, appunto, la crudeltà. E questo per la buona ragione che, come appare sia nel film sia in tutte le opere letterarie e cinematografiche di Pier Paolo Pasolini, egli non era crudele. Semmai era portato ad accettare la sofferenza, a subirla; ma non si può assolutamente dire che questa tendenza affiori nel film. Il quale è, invece, fedele, fin troppo, al testo di Sade, in maniera critica e mimetica. Ne seguono due caratteri importanti del film: da una parte, l’aggancio del sadismo al fascismo è messo in atto non tanto a livello storico quanto a livello metafisico; dall’altra il film non è sadico, è semmai una riflessione cinematografica sull’opera di Sade.
I film davvero sadici, nei quali, cioè, il regista partecipa sentimentalmente alla crudeltà, sono quasi tutti i film americani polizieschi, ‘neri’, dell’orrore e così via. C’è più sadismo, di quello autentico, in un solo fotogramma di prodotti come L’ultima casa a sinistra o Non aprite quella porta, che in tutto il film di Pasolini. E tuttavia quei due film sono stati proiettati regolarmente e il film di Pasolini è stato invece frettolosamente bocciato dalla censura. Una volta premesso che, per me, tutti i film debbono essere mostrati; che nessuno ha il diritto di decidere per gli altri quali sono i film ‘da vedere’ e quali no; che il nostro pubblico è adulto non da ieri ma da sempre e, se non lo è, deve assolutamente diventarlo vedendo appunto ‘tutti’ i film; premesso tutto questo, vorrei adesso domandarmi perché il film di Pasolini è stato condannato e i due altri film summenzionati (nonché moltissimi altri dello stesso genere) sono stati approvati.
La ragione, per me, è che l’indubbio sentimento crudele dei due registi americani giustificava da una parte la rappresentazione della crudeltà e dall’altra ne restringeva la portata e il significato. Erano, insomma, in qualche modo, dei film ‘privati’ cioè, a causa della partecipazione sentimentale dei registi, poco o nulla provocatori. Il caso di Pasolini è opposto. Come ho già detto, egli non era crudele; per lui, a livello sentimentale, la crudeltà, la coprofilia, la frenesia di Sade erano, in fondo, inaccessibili. Così il suo è un film freddo e privo del sentimento che anima tanti film americani e i libri di Sade, tutto di testa, tutto filosofico, tutto mentale, e questo seriamente e consapevolmente e non in base a una razionalizzazione degli istinti nei nazisti. Ne segue che, mentre non è affatto crudele, il film di Pasolini è intellettualmente e dunque figurativamente oltremodo provocatorio. Di una provocazione, voglio qui avvertire, di cui hanno grandissimo bisogno gli spettatori di questo paese, abituati alle irrealtà convenzionali dei nostri film commerciali.
Salò o le 120 giornate di Sodoma è un film elegante, lucido e al tempo stesso fantastico e funebre. La parte più bella del film è la terza: Il Girone del Sangue. In questa parte, la mancanza di crudeltà sadica e la ripugnanza per il sangue hanno suggerito a Pasolini un procedimento poetico che forse sarebbe stato utile estendere a tutto il film. Le scene di tortura e di morte sono viste attraverso i binocoli di due dei quattro carnefici fascisti mentre gli altri due, giù in un remoto cortile, si dedicano con alacrità allo sterminio atroce delle ragazze e dei ragazzi prescelti per l’esperimento. Tutto è così visto da lontano, in un’aria di sogno, con carnefici e vittime resi muti dalla distanza, in brani separati, come in una nebbia che si squarcia ogni tanto, lascia vedere qualche cosa e quindi si richiude. Pasolini, ancora, si è servito delle quattro narratrici di Sade per allontanare l’azione. Caterina Boratto, Elsa de’ Giorgi, Hélène Surgère, Sonia Saviange hanno la stessa funzione mediatrice dei due binocoli del terzo girone. Infine, altro procedimento per allontanare dagli spettatori la crudeltà insopportabile di Sade, Pasolini ha fatto ricorso alla musica. Come il pugno comunista alzato da uno dei ragazzi nel momento della morte, così il suicidio della suonatrice di pianoforte sono i due soli momenti catartici del film; l’uno inteso ad illustrare una rivolta attiva contro il nazismo, l’altra passiva.

(Alberto Moravia, “L’Espresso”, 23 novembre 1975)



E dopo pochi minuti di proiezione, ho capito che Salò non soltanto era un film tragico e magico, il capolavoro cinematografico e anche, in qualche modo, letterario di Pasolini: ma un’opera unica, imponente, angosciosa e insieme raffinatissima, che resterà nella storia del cinema mondiale. [...]
Ripeto: fino dalle prime battute, il film mi parve una grande opera d’arte. Ma devo aggiungere subito che, mentre vedevo il film, ero sorpreso e confortato nella mia ammirazione dal contegno del pubblico. La sala era colma, non si trattava di una proiezione speciale, per giornalisti o intellettuali: era uno spettacolo qualunque per un pubblico qualunque. Ebbene, contrariamente a quanto mi aspettavo, questo pubblico misto e interclassista (oggi vanno alle prime visioni anche i giovani proletari, che non dovrebbero avere la possibilità di pagare il biglietto!) capiva, o, piuttosto, sentiva il film esattamente come va sentito: un film serio, serissimo, tragico fino all’atrocità, e malinconico fino a una disperata pietà.
Scusate se parlo per un momento con la mia antica esperienza ipersensibile di regista-nascosto-in-mezzo-al-pubblico: il modo con cui il pubblico accoglie una pellicola durante la proiezione, lo si avverte, se uno ci sta attento e teso, fino alle più piccole sfumature. Ebbene, quel pubblico, col suo stesso silenzio, coi suoi sommessi mormorii, e direi coi suoi respiri, sottolineava variamente, ma sempre positivamente, tutto: e l’eleganza, la grazia, l’illuministica geometria dei racconti delle Storiche, recitati come melologhi, con l’accompagnamento al pianoforte di dolcissime melodie romantiche; e le nefandezze ossessive dei Padroni, perpetrate e presentate fino al limite del tollerabile, come voleva Pasolini e come accade nella grande cena infernale, ributtante ma anche comica, della coprofagia; e le atrocità finali di tutte le indicibili torture, l’occhio cavato con la punta di un pugnale, i sessi arsi con la fiamma di una candela, i capezzoli bruciati da carboni ardenti; e tutti gli episodi, tutte le inquadrature che, continuamente frapposte a quelle visioni, deliranti, terribili, sataniche, mostrano l’innocenza, il candore, la rassegnazione, ma al momento giusto anche la ribellione eroica e la speranza delle povere vittime, fino alla lacerante invocazione: “Dio! Dio, perché ci hai abbandonati?!”. Questo urlo è la chiave di tutto il film.
Nulla sfuggì agli spettatori. E quando il film finì, un lungo silenzio parve trattenerli sui sedili: si alzarono lentamente, ancora in silenzio, quasi evitando di guardarsi l’un l’altro. Non c’è dubbio, un profondo sgomento, quasi un senso di colpa era in ciascuno, come se ciascuno si chiedesse: “Ma è possibile? Questo, dunque, è il fondo, questo è il mistero della vita?” e si rispondesse, nell’intimo: “Eh sì, è possibile, forse è possibile...”.
Ecco, in quei momenti, mentre il pubblico sfollava adagio verso l’uscita, ho capito what’s the matter, che cosa davvero importa, in questo film: qual è il suo vero argomento. Non si tratta di Salò, si tratta del mistero della nostra esistenza, e il pubblico stesso, in quei momenti, ancora lo capiva. [...]
Mi pare di leggere nel futuro: verrà giorno in cui il Potere di una classe qualsiasi su tutti gli altri esseri umani, il potere di quella classe che è, sempre, il Potere stesso, comincerà a declinare, oppure, al contrario, saprà mascherarsi così diabolicamente da non essere riconosciuto con facilità come Potere: ma anche se non ci sarà un miglioramento, anche se non ci sarà un progresso, anche se la struttura economica della società sarà sempre straziata dalla stessa ingiustizia, almeno allora si comincerà a capire che la sociologia attuale era come una scienza che studia i sintomi del male senza risalirne alla causa. Quel giorno, soltanto gli eruditi saranno ancora informati dell’esistenza lontana ed effimera della meschina Repubblica di Salò; e allora i cineamatori capiranno, come voleva Pasolini, che Salò è soltanto un simbolo, e rivedranno questo film come va visto: come l’opera di un poeta che ha ficcato intrepidamente lo sguardo nella tragica oscurità del cuore umano e che ha tentato di risalire dai sintomi alla causa. Infatti, il piacere atroce del sadico implica che il sadico si immagina la sofferenza che infligge alle vittime, e non può immaginarsela se in qualche modo e misura non la prova egli stesso: la circolarità cui accennava Pasolini. Piacere e sofferenza, bene e male che la ragione vuole distinti sono invece confusi perché così, nel profondo, li vuole la natura: forse due facce della medesima realtà, complementari e necessarie l’una all’altra come la luce e l’ombra.

(Mario Soldati, Sequestrare “Salò”? in “La Stampa”, 30 gennaio 1976)





Ci voleva tutta la felicità fantastica di un poeta, che gioca con le idee come con le parole, ci voleva tutto il coraggio, e il disprezzo del pericolo, di un artista davvero libero, per affrontare tutti i rischi di una missione impossibile come quella. Lui, un regista in quel momento, dopo il Decameron, sulla cresta dell’onda della popolarità e del successo, ancora una volta si rimette in gioco e lancia la sfida di un film che ancora oggi ci colpisce, ci urta e ci ferisce, suscitando in noi reazioni di smarrimento, spesso di rifiuto. Un film che ‘non ci lascia stare’, che ci viene a provocare, inquadratura dopo inquadratura, come un implacabile metronomo della sgradevolezza.

(Giuseppe Bertolucci, Cosedadire, Bompiani, Milano 2011)