Vittima e carnefice: Janet Leigh e Anthony Perkins

Vittima e carnefice: Janet Leigh e Anthony Perkins

Venne il giorno tanto atteso: dovevo incontrare Mr. Hitchcock a casa sua in Bellagio Road. Sulla scrivania del suo studio c’era un modello in scala di ogni set che avrebbe usato, completo di mobili in miniatura, pareti aperte, piccole bambole al posto delle persone. È lì che ha pianificato tutte le angolazioni della sua macchina da presa per ogni singola scena. Si è molto divertito a mostrarmi come il mio movimento su una certa parola avrebbe portato la sua macchina da presa su John Gavin (per esempio) e a due riprese per aumentare la drammaticità del momento.
In sostanza mi ha spiegato: “Ho imparato molto tempo fa – nel modo più difficile, potrei aggiungere – a non dare mai al produttore e al montatore troppe riprese su cui lavorare. Hanno la capacità di alterare l’orientamento di una scena, persino di determinare una performance, tagliando qui o allungando lì. C’è davvero poco da tagliare nei miei film. Faccio il più possibile sul set con la mia macchina da presa”. […]
Mr. Hitchcock ha continuato: “Ti ho chiamato perché sei un’attrice di talento. Sei libera di fare quello che desideri con il ruolo di Marion. Non interferirò a meno che tu non abbia problemi e richieda la mia guida. Oppure, se stai prendendo una fetta troppo grande della mia torta [overacting] o se non ne stai prendendo abbastanza. Ma c’è una regola sul set: la mia macchina da presa è assoluta. Racconto la storia attraverso quell’obiettivo, quindi ho bisogno che tu ti muova quando la mia macchina da presa si muove, che ti fermi quando lei si ferma. Sono fiducioso che sarai in grado di trovare la tua motivazione per giustificare il movimento. In caso di difficoltà, tuttavia, sarò felice di collaborare con te. Ma non cambierò i tempi della mia macchina da presa”.
Janet Leigh, Psycho. Behind the Scenes of the Classic Thriller, Pavilion, Londra 1995


Janet Leigh si rivelò la favorita numero uno di Hitchcock: fra una ripresa e l’altra, il regista traeva particolare piacere dallo sconvolgerla con maliziosi giochi di parole, filastrocche scherzose e barzellette curiose. “La cosa che gli piaceva di più”, racconta la Leigh, “era farmi arrossire e non è una cosa difficile”. Con tutto il suo presunto disprezzo per gli attori, Hitchcock si sforzò al massimo per trarre dalla Leigh l’interpretazione più forte possibile. Mai la sua attenzione era più concentrata dei momenti in cui l’attrice recitava senza avere battute di dialogo: l’obiettivo di Hitchcock sembrava particolarmente sensibile al gioco delle emozioni sul suo volto. “Gran parte del mio ruolo lo girai da sola, in isolamento”, sottolinea la Leigh: “Voglio dire, a parte la sola scena con Gavin, quella in ufficio e le poche scene con Tony, tutto il resto ero io da sola. Con Hitchcock era molto chiaro. Diceva: ‘Questo è il risultato che voglio. Come ci arrivi è affar tuo’”.
Stephen Rebello, Come Hitchcock ha realizzato Psycho, Il Castoro, Milano 1999


Lavorare con Anthony Perkins è stata l’avventura definitiva. Lui era davvero entusiasmante, un attore così ispirato. Già prima dell’inizio delle riprese, aveva escogitato una bella e bizzarra trovata che deliziò Hitchcock. Tony pensava che Norman avrebbe dovuto sgranocchiare caramelle per tutto il film. Aveva colpito nel segno, è stato estremamente efficace. Proprio come l’inventore stesso. […] C’era questo costante cercare di più, di più, che ha reso ogni momento ricco e appagante. Il set era vivo, scintillante di elettricità ed energia.
Janet Leigh, Psycho. Behind the Scenes of the Classic Thriller, Pavilion, Londra 1995


All’inizio di Psycho ero confuso. Quando cominciammo a girare, [Hitchcock] l’avevo incontrato solo una volta [prima dell’inizio della produzione] ed ero molto in apprensione sul fatto se dire o meno quello che pensavo, come sentivo il personaggio e le varie scene. Piano piano cominciai a sciogliermi con lui e a fare sempre più suggerimenti. Dopo all’incirca quattro settimane andavamo molto d’accordo ma io ancora esitavo a portargli una pagina di dialogo su cui avevo lavorato moltissimo. Lui era nel suo camerino e leggeva la copia del “London Times” che si era fatto spedire per posta aerea – faceva sempre così fra una ripresa e l’altra. E dissi: “Signor Hitchcock, per il mio discorso nella scena di domani...”. Lui bofonchiò qualcosa, senza smettere di leggere, io dissi: “...avrei avuto qualche idea che ho pensato magari le interesserebbe sentire”. Stavo quasi balbettando. Lui rispose: “Va bene” e io cominciai a dirgli quali fossero. Lui disse: “Oh, vanno tutte bene”. E io: “Ma, ma, ma... magari non le piacciono”. Lui rispose: “Sono sicuro che vanno bene”. Posò il giornale e mi chiese: “Ci hai pensato su molto? Voglio dire, ci hai veramente riflettuto? Ti piacciono davvero i cambiamenti che hai fatto?”. Io risposi: “Sì, penso che siano giusti”. E lui: “Benissimo, allora faremo così”. Da quella sera credo di aver raddoppiato gli sforzi e quel che è certo è che quando entrammo lui non guardò nemmeno le pagine originali. Gli andava tutto bene così.
Anthony Perkins in Stephen Rebello, Come Hitchcock ha realizzato Psycho, Il Castoro, Milano 1999


F.T.: Del resto, non c’è in Psycho nessun personaggio simpatico col quale il pubblico potrebbe identificarsi.
A.H.: Perché non era necessario. Penso comunque che il pubblico abbia avuto pietà di Janet Leigh al momento della sua morte. Infatti, la prima parte della storia è esattamente quello che qui a Hollywood si chiama un red herring, cioè qualcosa che serve a distogliere l’attenzione, allo scopo di rendere più forte la scena dell’assassinio, affinché costituisca una sorpresa assoluta. Era necessario che tutto l’inizio fosse volutamente un po’ lungo, tutto quello che riguarda il furto del denaro e la fuga di Janet Leigh, per fare in modo che il pubblico si chiedesse: la ragazza si farà prendere o no? Si ricordi come ho insistito sui quarantamila dollari; ho lavorato prima del film, durante il film e fino alla fine delle riprese per aumentare l’importanza di questo denaro.
Lei sa che il pubblico cerca sempre di anticipare, gli piace poter dire: “Ah! io so cosa succederà adesso”. Allora non bisogna soltanto tener conto di questo, ma dirigere completamente i pensieri dello spettatore. Più diamo dei particolari sul viaggio in automobile della ragazza, più il pubblico è assorbito dalla sua fuga ed è per questo che diamo tanta importanza al poliziotto motociclista, agli occhiali neri e al cambio d’automobile. Più tardi, Anthony Perkins descrive a Janet Leigh la sua vita nel motel, si scambiano delle impressioni e, ancora, il dialogo è ricollegato al problema della ragazza. Sembra che abbia deciso di tornare a Phoenix e di restituire il denaro. È probabile che la parte del pubblico che cerca di indovinare pensi: “Ah beh! Questo giovanotto cerca di farle cambiare idea”. Si gira e rigira il pubblico, così lo si mantiene il più lontano possibile da quello che accadrà.
Scommetto tutto ciò che vuole che in una produzione normale avrebbero dato a Janet Leigh l’altra parte, quella della sorella che indaga, perché non capita normalmente di uccidere la star a un terzo del film. Io ho fatto apposta a uccidere la star, perché così l’assassinio risultava ancora più inatteso. Del resto è per questo che ho poi insistito per non lasciare entrare il pubblico dopo l’inizio del film, perché i ritardatari si sarebbero aspettati di vedere Janet Leigh dopo che aveva lasciato lo schermo coi piedi in avanti!
La costruzione di questo film è molto interessante ed è l’esperienza più appassionante che ho fatto di gioco con il pubblico. Con Psycho, mi comportavo come fa un direttore con la sua orchestra, era proprio come se stessi suonando l’organo.
François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore, Milano 2008