Adieu au langage

Adieu au langage

Quando dico che la regia non è un linguaggio voglio dire che è nello stesso tempo un modo di pensare. È la vita e la riflessione sulla vita.

JLG




Abbiamo preso la macchina da presa in mano semplicemente per andare più svelti. Non mi potevo permettere un materiale normale che avrebbe allungato le riprese di tre settimane. Ma neppure questo dev’essere una regola: il metodo di ripresa deve accordarsi con il soggetto del film. […] Quando mi vengono le idee mi devo solo chiedere in che punto, in che scena inserirle. Sono gli ambienti che mi aiutano a trovare le idee. Spesso parto addirittura da essi. […] Mi chiedo come si possano cercare i luoghi dopo la stesura della sceneggiatura. Bisogna prima pensare agli ambienti. Accade spesso che, quando uno scrive “entrò nella stanza”, pensando a una stanza che conosce, il film venga realizzato da un altro che pensa a un’altra stanza. Questo sfasa tutto. Non si vive alla stessa maniera in ambienti diversi. Noi viviamo sugli Champs-Elysées, ma nessun film, prima di À bout de souffle, ne aveva mostrato il ritmo. I miei personaggi vedono questo ambiente sessanta volte al giorno; volevo dunque mostrarli dentro di esso.

JLG




Raoul Coutard si arruola nel maggio 1945 nel corpo di spedizione francese in Estremo Oriente e serve per cinque anni e mezzo in Indocina. In seguito è reporter e fotografo di guerra per “Paris-Match” e “Life”, e per la rivista “Indochine Sud-Est-Asiatique”. È in Indocina che incontra Pierre Schoendoerffer, che lo ingaggia come operatore per i suoi adattamenti di Loti prodotti da de Beauregard. Coutard è esperto nelle tecniche del reportage, ha un grande controllo della macchina da presa a spalla e, quando non c’è altro, si accontenta della luce naturale. Georges de Beauregard lo impone a Godard per Fino all’ultimo respiro e, in qualche modo, il loro incontro sarà provvidenziale.
Coutard si adatta molto presto alle particolari condizioni del regista, che moltiplica le difficoltà tecniche: filmare due attori in una piccola camera d’albergo con illuminazione ridotta al minimo, seguirli sugli Champs-Élysées con la macchina da presa nascosta in una bicicletta da postino: “Mi aveva detto: ‘immagini che sia un reporter che segue i personaggi’. Quindi dovevamo essere leggeri, mobili, pronti a nascondersi quando si girava per strada” (Raoul Coutard, in Jean-Luc Douin, a cura di, La Nouvelle Vague vingt-cinq ans après, Cerf, Parigi 1983). Coutard girerà dieci film con Godard, fino a Weekend - Un uomo e una donna dal sabato alla domenica (più avanti tornerà per Prénom Carmen, 1983). Firmerà anche le immagini di quattro lungometraggi di Truffaut, Tirate sul pianista, Jules e Jim, La calda amante e La sposa in nero. E lui a sovraesporre l’immagine luminosa di Lola donna di vita, su espressa richiesta di Jacques Demy.
Si può affermare che, con i dieci film illuminati per Godard negli anni Sessanta, Coutard rivoluziona totalmente i valori plastici del cinema francese, il suo stile di illuminazione e la sua estetica visiva. Questa nuova immagine è anche il frutto di un’evoluzione tecnica. Le emulsioni rapide e più sensibili esistono, ma vengono utilizzate nella fotografia di reportage, non dai direttori della fotografia cinematografici. Per usare un equivalente fotografico, è lo stile Harcourt a dominare l’estetica visiva del cinema francese degli anni Cinquanta.
Per adattarsi alle esigenze estetiche formulate da Godard, Coutard utilizza una nuova pellicola, la Ilford HP5, fino a quel momento riservata esclusivamente alla fotografia fissa. Si serve di una macchina da presa Cameflex, le cui perforazioni sono simili a quelle della Leica, per poter impressionare i rulli da 17,50 metri che incolla testa a testa. Su richiesta di Godard, Coutard interviene sui bagni di sviluppo per raddoppiare la sensibilità della pellicola. (Una testimonianza estremamente dettagliata su queste innovazioni è fornita da Coutard in un’intervista pubblicata su “Le Nouvel Observateur” del 22 settembre 1965). Lo scopo di questi ‘ritrovati’ è di poter girare più rapidamente, e di non intralciare i movimenti degli attori per cogliere meglio l’ambiente.

Michel Marie, La Nouvelle vague, Lindau, Torino 1998




Io improvviso, senza dubbio, ma con materiali che ho accumulato da tanto tempo. Nel corso degli anni si raccolgono un sacco di cose, e si mettono tutte insieme in ciò che si fa. I miei primi cortometraggi erano molto ben preparati e girati molto rapidamente. Fino all’ultimo respiro è iniziato così. Avevo scritto la prima scena (Jean Seberg sugli Champs-Elysées) e, per il resto, avevo moltissimi appunti che corrispondevano a ogni scena. Ho pensato: è spaventoso! Ho fermato tutto. Poi ho riflettuto: in un giorno, se ci sappiamo fare, dobbiamo riuscire a girare una decina di inquadrature. Solo che invece di trovare l’idea con molto anticipo, la troverò appena un attimo prima. Quando si sa dove andare dovrebbe essere possibile. Non è improvvisazione, è messa a punto all’ultimo minuto. È evidente che bisogna avere e conservare la visione d’insieme, la si può modificare nel corso di un certo lasso di tempo, ma dal momento in cui si comincia a girare bisogna cambiarla il meno possibile, altrimenti è la fine.

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È la pratica tecnica più visibile per il critico e lo spettatore. Salta agli occhi, per così dire. Con Hiroshima, mon amour, Resnais fonda il proprio racconto sulla discontinuità delle inquadrature, sul progressivo emergere del ricordo che appare per brevi immagini, poi in serie. Resnais alterna le immagini del presente a Hiroshima e quelle del passato a Nevers. L’ultima parte del film è una vera e propria partitura moderna strutturata sulla musica di Giovanni Fusco, in cui si mescolano in modo sempre più inestricabile la voce di Emmanuelle Riva, le carrellate sulle vie della città giapponese di notte e le panoramiche sulle mura nebbiose e grige di Nevers. Godard sarà uno dei primi a recepire la lezione. Sin da Fino all’ultimo respiro, egli distrugge le regole della composizione classica, privilegia un montaggio sincopato tanto nelle sequenze di azione (la fuga in auto all’inizio del film) che nei momenti di dialogo (quando Poiccard parla della nuca di Patricia durante il loro percorso in auto). Ma, in tutt’altra direzione, opta in certi momenti per il piano-sequenza rettilineo (l’incontro sugli Champs-Elysées) o circolare (la discussione finale nell’appartamento di rue Campagne Première). Non esita a dilatare una sequenza fino a tre o quattro volte la sua durata tradizionale, come accade, nella parte centrale del film, in occasione della lunga conversazione tra Michel e Patricia nella camera d’albergo. Tale dilatazione non si cura delle regole convenzionali fondate sulla continuità dei raccordi, regole che erano divenute assurde. Godard le trasgredisce allegramente, e in tal modo inventa il montaggio moderno, recuperando l’invenzione poetica dei grandi montatori del cinema sovietico degli anni Venti.

Michel Marie, La Nouvelle vague, Lindau, Torino 1998




I famosi tagli nel bel mezzo dell’inquadratura, scandalosi per i professionisti che vedevano in questi falsi raccordi la prova dell’incompetenza del cineasta, traducono al contrario un nuovo senso del montaggio preso come un’operazione di destabilizzazione al posto di un momento di organizzazione coerente. Sia in una scena d’azione (l’omicidio del poliziotto all’inizio) che in una sequenza d’intermezzo (la conversazione di Patricia e del giornalista americano al primo piano di un café), i salti urtano contro la continuità temporale e la realtà spaziale, accelerando il ritmo: Godard coglie il volto “schifoso” dell’esistenza come lo vede Michel, pericolosamente.

René Prédal, 50 ans de cinéma français, Nathan, Parigi 1996




Ho letto su “Sight and Sound” che faccio un’improvvisazione in stile Actor’s Studio, dove si dice agli attori: adesso tu sei questo tizio, quindi comportati di conseguenza. Ma Belmondo non ha mai inventato i suoi dialoghi. Erano scritti, solo che gli attori non li studiavano, il film è stato girato senza sonoro e io suggerivo le battute.

JLG




A differenza dell’immagine, che alla fine degli anni Cinquanta assume un nuovo status tecnico, la prassi di registrazione sonora deve attendere ancora qualche anno prima di mutare, prendendo, con la diffusione del Nagra la direzione della presa diretta, ancora troppo onerosa, causa il costo e l’intralcio durante le riprese, per i film a budget ridotto della Nouvelle Vague.
I primi film della ‘nuova onda’ sono tutti postsincronizzati, doppiati in studio, e così anche Fino all’ultimo respiro. I registi che esordiscono alla fine degli anni Cinquanta, portando il cinema nelle strade, stravolgendo i modi abituali di rappresentazione della realtà, diventeranno però quasi tutti rigorosi fautori della presa diretta nelle loro opere successive, sul modello del pioniere del sonoro in presa diretta e padre spirituale della Nouvelle Vague, Jean Renoir.
Godard usa il suono post-sincronizzato, ma lo trasforma in un elemento estetico importante per il suo lungometraggio d’esordio. Affascinato da Moi, un noir (1958) di Rouch, in cui gli attori non professionisti si doppiano a braccio rivedendosi sullo schermo, Godard tenta un’operazione simile, girando senza quella sommaria registrazione del sonoro, da usare come riferimento per il doppiaggio, che si definisce colonna-guida. Fino all’ultimo respiro è girato come un film muto, trasformato in sede di doppiaggio da quella che si potrebbe definire una recitazione al secondo grado, in cui gli attori rivedono se stessi e, solo sulla base della sceneggiatura, si attribuiscono voci nuove, reinterpretando la propria parte.

Jacopo Chessa, Fino all’ultimo respiro, Lindau, Torino 2005