Bande à part: Godard e gli altri

Bande à part: Godard e gli altri

Come critico, mi consideravo già un cineasta
JLG

 

Bazin, Truffaut, Rivette, Rohmer e Godard: quella che sarà, di lì a qualche anno, l’équipe dei “Cahiers du cinéma”, la più prestigiosa rivista di cinema francese, luogo di teorizzazione e di promozione attiva di quel nuovo modo di fare, e anche di vedere e vivere il cinema che fu definito Nouvelle vague, è già quasi totalmente riunita nelle forme di un gruppo di amici che vanno al cinema tutti i giorni, si scambiano esperienze, effettuano i primi tentativi dietro o davanti la cinepresa. Sono quasi tutti giovanissimi: Godard ha meno di vent’anni. È nato a Parigi il 3 dicembre 1930, secondo di quattro fratelli e sorelle (in À bout de souffle Michel mostra a Patricia “la casa dove sono nato io” ed è verosimilmente quella in cui è nato lui) di una famiglia ginevrina, alto borghese, protestante […]. Jean-Luc, o Jeannot, ha avuto un’adolescenza dorata (sci, tennis, vacanze in barca), ha frequentato le medie in Svizzera, a Nyon, e quindi il Lycée Buffon a Parigi e si è iscritto a etnologia alla Sorbona. Ma ora i rapporti con la famiglia sono tesi e Jeannot vive di espedienti […]. E all’università non darà mai un esame. […]
Le scelte e i giudizi, sempre molto personali e spesso eccentrici ed estremistici, del Godard critico cinematografico, si formano appunto negli anni in cui il cinema non è ancora per lui una professione ma solo un modo di vivere, gli anni della cinefilia più accesa e radicale. E la stessa cinéphilie – questo rapporto totalizzante e quasi mistico con lo schermo che conduce a vedere tutto purché sia cinema, ad accumulare indiscriminatamente le esperienze visive, le congenialità, gli amori, le competenze – è già, un po’ contraddittoriamente, il risultato di una scelta. Per uno studente universitario interessato al cinema, attorno al 1948, scegliere i cineclub e la Cinémathèque invece che, per esempio, i laboratori dell’Istituto di Filmologia che proprio in quegli anni cominciava a funzionare alla Sorbona, significa già, implicitamente, prendere posizioni di fondo. […] Ma anche nei confronti del restante cinema francese, quello che vedeva attivi in quegli anni ancora tutti i registi affermatisi nella grande stagione dell’anteguerra, da Renoir a Carné, da Clair a Duvivier, le scelte di Godard e dei suoi amici sono polemiche e discriminanti. […]
Un gruppo di ventenni che sa già molto bene quali film difendere e quali miti stroncare. Così incominciare a scrivere è un approdo naturale e insieme un salto, è la scelta del cinema come lavoro e come campo di battaglia.

Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, 2a ed. agg., Il Castoro, Milano 2002




L’interesse di Godard per l’etnologia coincide con una profonda ammirazione per l’opera di Jean Rouch, pioniere del cinema etnografico, i cui primi cinque film sono precedenti al 1949. Sono gli anni in cui nasce e si sviluppa in lui l’amore per il cinema, in cui conosce i giovani che, come lui, diventeranno critici dei “Cahiers du cinéma” e in seguito registi: Rohmer, Rivette e Truffaut. Alla Sorbona frequenta anche il corso dell’Institut de Filmologie, dove conosce Jean Parvulesco, giovane emigrato rumeno il cui nome verrà ripreso dal personaggio di Fino all’ultimo respiro interpretato da Jean-Pierre Melville: il romanziere intervistato a Orly, in quel gioco di citazioni e strizzate d’occhio che rivela le radici profonde dell’opera. Da questo momento in avanti la vita di Godard sarà idealmente legata a quella dei suoi compagni di cinefilia: gli articoli sulla “Gazette du cinéma”, diretta dal più anziano Rohmer, la frequentazione del Ciné-club del Quartier Latin e la passionale collaborazione ai neonati (1951) “Cahiers du cinéna” di Bazin e Doniol-Valcroze, quest’ultimo amico della madre di Godard.

Jacopo Chessa, Fino all’ultimo respiro, Lindau, Torino 2005




Ai “Cahiers” ci consideravamo tutti come futuri registi. Frequentare i cine-club e la cineteca significava già pensare in termini di cinema e pensare al cinema. Scrivere significava già fare del cinema: tra lo scrivere e il girare c’è solo una differenza quantitativa, e non qualitativa. […] Come critico, mi consideravo già un cineasta. Oggi mi considero sempre un critico, e, in un certo senso, lo sono più di prima. Invece di scrivere una critica, faccio un film; salvo poi introdurvi la dimensione critica. Mi considero un saggista, faccio saggi in forma di romanzo o romanzi in forma di saggio: solo che li filmo invece di scriverli. [...]
La critica ci ha insegnato ad amare sia Rouch che Ejzenštejn. Le siamo debitori di non avere escluso un elemento del cinema in nome di un altro elemento del cinema. Lo dobbiamo ad essa se realizziamo film con una maggiore distanza e sappiamo che, se una cosa è già stata fatta, è inutile rifarla. Un giovane scrittore che scrive oggi sa che Molière e Shakespeare sono esistiti. Noi siamo i primi cineasti a sapere che Griffith esiste.

JLG




Il suo primo articolo è del gennaio 1952: una breve recensione a un film di Rudolph Maté, che era stato operatore di Dreyer, Lang e Lubitsch prima di diventare regista di film di genere. Ma il Godard critico non si limita a letture e giudizi da cinéphile su film minori o sottovalutati: nei suoi articoli emerge subito la tendenza alle affermazioni di fondo, alle definizioni che intrecciano formulazioni teoriche con le dichiarazioni di gusto e di poetica. È in una serie di piccole sentenze esemplari che si afferma la sua concezione del cinema, là dove dice che la bellezza è lo “splendore del vero”, che il cinema è “uno sguardo a ogni istante talmente nuovo sulle cose da trafiggerle”, che nel primo piano “la nostra arte è capace di imprimere con più forza la propria trascendenza, e far esplodere nel segno la bellezza dell’oggetto significato”. Ognuna di queste frasi vuole essere una piccola creazione in se stessa, un’immagine fatta con delle parole. Il critico si individua come autore, e dunque portatore anch’esso di una verità superiore riconoscibile nella costanza di uno stile.

Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, 2a ed. agg., Il Castoro, Milano 2002




Nel 1950 Rivette gira in 16mm Le quadrille. Nel 1951 Rohmer gira Présentation ou Charlotte et son steak. Godard compare come attore in entrambi i film. Ma il suo primo vero contatto con la pratica cinematografica avviene col documentario: Opération Béton è girato in 35mm nel 1954. È un film di venti minuti, con un commento “molto alla Malraux” (secondo Luc Moullet) detto dallo stesso Godard. Il film viene distribuito dalla Gaumont. Esce nei cinema abbinato a Tè e simpatia di Vincent Minnelli, nel luglio 1958. Nel 1955 Godard gira a Ginevra Une femme coquette. Nel 1956 compare in Le coup duberger di Rivette. Nel 1957 realizza Tous les gargons s’appellent Patrick ou Charlotte et Véronique (il soggetto e la sceneggiatura sono di Eric Rohmer, che ha già girato Charlotte et son steak e girerà nel 1958 Véronique et son canore). Nel 1959 Godard riprende il personaggio di Charlotte incarnato dalla stessa attrice, Anne Colette, in Charlotte et son Jules, su propria sceneggiatura. Questo film di venti minuti esce nelle sale abbinato a Lola, donna di vita di Demy nel marzo 1961, contemporaneamente a Une histoire d’eau, su soggetto di Truffaut e con la regia a quattro mani di Truffaut e Godard. L’interprete maschile di Tous les gargons s’appellent Patrick e di Une histoire d’eau è Jean-Claude Brialy; quello di Charlotte et son Jules è Jean-Paul Belmondo, doppiato dallo stesso Godard. Nel 1958-59 Godard compare ancora come attore in Paris nous appartieni di Rivette e II segno del leone di Rohmer, nel 1961 in Cléo dalle cinque alle sette di Agnès Varda, con Anna Karina.

Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, Le Mani, Recco-Genova, 1998




Qui il gioco è ancora fragile, tra impertinenza e humour, ma nei dialoghi tra le due ragazze di Tous les gargons... e nel lungo monologo beffardo di Belmondo (Charlotte et son Jules) ci sono momenti di autentica felicità cinematografica, che anticipano molte cose di À bout de souffle.

Giandomenico Curi, Il cinema francese della Nouvelle Vague, Edizioni Studium, Roma 1977




Godard non è il solo a mettere in scena piccole storie. Come lui, anche Truffaut, Demy, Rohmer e Rivette usano il cortometraggio come una sorta di preparazione di prova generale in vista di un lungometraggio a soggetto, anticipando in una certa misura temi e forme che ne caratterizzeranno l’opera futura. […] Buona parte del Godard-Nouvelle vague è contenuto in quei fecondi germi che sono i suoi cortometraggi.

Jacopo Chessa, Fino all’ultimo respiro, Lindau, Torino 2005