Dennis Hopper, ribelle e maledetto

Dennis Hopper, ribelle e maledetto

Nel gennaio del 1991 si era tenuta a Parigi una corposa rassegna cinematografica intitolata Les rebelles d'Hollywood, in cui venivano mostrati lavori di personaggi in perenne conflitto con l'establishment, "ribelli, franchi tiratori o indipendenti, cineasti che hanno tentato di esprimere la loro personale visione nei quadri dell'industria hollywoodiana". I due film di Hopper in cartellone (Easy Rider e Fuga da Hollywood [The Last Movie, 1971]) godevano della compagnia di altri famosi mavericks del calibro di Fuller, Peckinpah, Von Stroheim, Welles, Ray, Cassavetes (ribelle anche ai dettami di quelli, come Mekas, che già si ribellavano), Malick e Altman, tutti personaggi con un passato burrascoso per irascibilità, insofferenza, originalità ed eccentricità. Hopper, forse, non ha mai goduto come regista delle credenziali artistiche dei suoi compagni di rassegna, ma certamente la patente dell'eccentrico pazzoide nessuno mai si è sognato di negargliela. E questo sin dagli inizi della sua carriera di attore. Ad appena 21 anni (Hopper è nato il 17 maggio 1936 a Dodge City, Kansas, paese in cui l'unico svago era di osservare "le variazioni di luce all'orizzonte") si inimica Henry Hathaway nel corso delle riprese di L'uomo che non voleva uccidere (1958), a causa della diversa concezione del metodo di recitazione da impiegare: influenzato dalla grande amicizia con James Dean, con il quale ha lavorato in Gioventù bruciata (1955, di Nicholas Ray) e II gigante (1956, di George Stevens), Hopper è un convinto seguace del do it, don't show it, "fallo, non rappresentarlo". Lo scontro è tra chi crede nell'improvvisazione (punto fondamentale anche di quella che sarà la sua carriera di regista), forte della sua formazione in scuole influenzate dal Metodo di Strasberg e Kazan, come l'Old Globe Theatre di San Diego, e chi intende seguire e veicolare passo dopo passo le battute dell'attore all'interno della pellicola. Hopper resiste quasi un giorno intero, poi capitola.

Il conflitto con Hathaway gli rende impossibile lavorare a Hollywood per i sette anni successivi, nel corso dei quali segue le lezioni di Strasberg e inizia l'attività di fotografo, che molto condizionerà la composizione delle sue inquadrature una volta intrapresa l'attività di regista. Il suo esilio coatto da Hollywood, dopo averlo portato a confrontarsi con pellicole d'avanguardia come Night Tide (1961, di Curtis Harrington) e Tarzan and Jane Regai ned... Sort of (1963, di Andy Warhol), termina per mano dello stesso Hathaway (e per merito indiretto della moglie Brooke Hayward, figlia di Margaret Sullavan, tenuta in ottima considerazione dal regista e da John Wayne) che lo chiama a interpretare il personaggio di Dave Hastings in I quattro figli di Katie Elder (1965). Hopper abbandona per un attimo la sua convinzione recitativa, Hathaway e Big Duke apprezzano molto. Ma lo spirito incomprimibile di Hopper non può essere soddisfatto, il suo desiderio è quello di dirigere un film. George Stevens, conoscendo questa volontà, gli aveva permesso di assistere al montaggio di Il gigante, Corman gli affida la direzione della seconda unità in Il serpente di fuoco (1967). È il preludio a Easy Rider, la sua prima regia.

Forte del successo commerciale della pellicola, la Universal compra a scatola chiusa il soggetto del progetto più personale e ambizioso, un'orgia di simboli e tracce quasi subliminali dove risulta evidente l'influenza di Godard, dell'underground americano, delle droghe e di quella paranoia che sempre più massicciamente comincia a offuscare la mente di Hopper. Fuga da Hollywood (che viene terminato nel 1971) è un film ipertrofico sulla magia, sulla ritualità e sull'illusione cinematografica, realizzato in niodo anarchico, visionario e apparentemente sconnesso. La pellicola diventa un film maledetto, vince il Leone d'oro al Festival di Venezia, ma i dirigenti della Universal inorridiscono: minacciano Hopper, gli dicono che l'unico modo possibile per ricavare denaro da un lavoro simile è quello di sperare nella morte del suo autore, Hopper risponde irato invocando la pericolosità della propria paranoia. Il film rimane nelle mani della casa di produzione che ne boicotta la normale distribuzione di fronte al rifiuto del regista di tagliare alcune scene e di modificare l'intero montaggio. Fuga da Hollywood diventa un lavoro dal titolo sintomatico nella carriera di Hopper, il suo nome diventa sinonimo di problematicità e schizofrenia, l'abuso di alcool e droghe (situazioni da cui esce completamente solo a metà degli anni '80) lo riduce a una specie di ombra di se stesso, pallida e opaca.

Ma è proprio il suo 'maledettismo', la leggenda dei suoi eccessi, degli ostracismi subiti, dei pestaggi operati, degli insulti lanciati, delle armi possedute, del suicidio tentato (nel 1983), a farne un personaggio ipostatizzato, una vera icona cinematografica dell'ossessione, ammirata dai registi cinefili che iniziano a offrirgli una nuova carriera d'attore dove il concetto del do it si trasforma in quello del be it. Il personaggio Hopper si cristallizza nell'immaginario collettivo, i personaggi che via via impersona scompaiono al cospetto della sua personalità, le pellicole che interpreta, da L'amico americano (1977, di Wim Wenders) in avanti (toccando il vertice nei film in cui compare negli anni '80), risentono tutte di quello che Dario Tornasi, nel suo studio sul personaggio, chiama "passato extradiegetico", ossia una caratterizzazione particolare determinata dalla fama dell'attore, dalla moltitudine di notizie sul suo conto o semplicemente dalle sue precedenti interpretazioni. Il ragazzo fondamentalmente buono ma coattivamente ribelle delle recitazioni prima di Easy Rider, diventa, dopo il clamore della sua esistenza disordinata seguita al flop di Fuga da Hollywood, Dennis Hopper che interpreta se stesso: lo spiritato fotografo di Apocalypse Now (1979, di Francis Ford Coppola), il padre alcolizzato di Rusty il selvaggio (1983, di Coppola), il paranoico e spaventoso Frank Booth di Velluto blu (1986, di David Lynch), l'ex-motociclista Feck in I ragazzi del fiume (1986, di Tim Hunter), lo sceriffo sbalestrato in Non aprite quella porta 2 (1986, di Tobe Hooper), l'alcolista che salva Colpo vincente (1986, di David Anspaugh) dal totale disinteresse, il giocattolaio texano che trova la morte per avvelenamento bevendo il suo abituale brandy in La vedova nera (1987, di Bob Rafelson), l'ex hippy Huey Walker che aveva girato l'America con la sua motocicletta negli anni '60 e che si permette, in un ironico esempio di intertestualità, di citare apertamente Easy Rider in Flashback (1990, di Franco Amurri). E ancora, la versione drammatica e senza alcuna ironia del lynchiano Frank Booth, l'allucinato e cinico commerciante razzista in Il cuore nero di Paris Trout (Paris Trout, 1991, di Stephen Gyllenhaal), il padre di Christian Slater, ex alcolizzato e autore di un divertentissimo monologo sull'origine dei siciliani in Una vita al massimo (1993, di Tony Scott).

A queste pellicole che fanno riferimento al personaggio Hopper, si possono aggiungere quelle che invece fanno riferimento alla concezione realizzativa hopperiana, dove l'attore diventa immagine del suo modo di concepire il cinema, in quella sua valenza rosselliniana che lo vede preparare un contesto nei minimi particolari, lasciando poi che la verità si generi da sola nell'ambito dell'improvvisazione filmica. Così è in Blackout (1997) di Abel Ferrara, in cui Hopper interpreta un cinico videoartista, ma così è anche in una pellicola insospettabile come Uomini spietati (1996, di Peter Marlde), un grossolano gangster-movie in cui Hopper, una volta conclusasi l'intricata vicenda, decide di girare un film su di sé, arrivando anche a sostenere che "non c'è niente di peggio di una falsa verità".

Tutti lavori che si intrecciano magnificamente alla sua nuova attività di regista, ricominciata casualmente irei 1980 in sostituzione di un regista esordiente, Léonard Yakir, dimostratosi inadatto dopo alcuni giorni di riprese. Il film è Out of thè Blue, altra tragedia americana non aliena da influenze estetiche derivanti dalla New Wave newyorkese, in cui ancora una volta emerge quel senso di incontrovertibile fatalità che contraddistingue tutte le pellicole del regista, da quelle in cui è più evidente e quasi fastidiosa come The Hot Spot (1990) o Ore contate (1989), ad altre in cui viene debitamente miscelata a caratteristiche debitrici di generi prefissati, come in Colors - Colori di guerra (1988) e in Una bionda sotto scorta (1994), l'ultimo film realizzato come regista da Hopper. Tutti lavori in cui risulta evidente a livello stilistico la concezione realizzativa del regista, sempre attento, così come lo era nel suo passato fotografico, a riequilibrare sapientemente, con un perfetto dosaggio delle linee di forza interne al quadro e una perfetta calibrazione dei vuoti e dei pieni, l'asimmetria di partenza delle sue inquadrature, restituendo in questo modo il fuoco dell'attenzione al centro del piano nonostante la prospettiva di partenza sia decentrata.

Tutto questo è Dennis Hopper, un artista abituato a percorrere e a cavalcare l'eccesso più sfrenato fino al punto, talvolta, di farsene travolgere; un uomo che sfiora più volte il punto di non ritorno senza mai oltrepassarlo, riuscendo però a raggiungere quel limite che consente l'ingresso nel mito e nel generale riconoscimento di esso.

 

Giampiero Frasca, Dennis Hopper: Easy Rider (Lindau 2000)