Antologia critica

Bandiera di un'intera generazione, Easy Rider fu praticamente il primo film hollywoodiano di produzione indipendente, girato fuori dall'influenza di Roger Corman (cui peraltro deve qualcosa), a ottenere un successo mondiale, dimostrando che i tempi erano ormai maturi per un cinema di quel tipo e in particolare che il mercato dello youth movie non si identificava più con una specifica fascia generazionale, ma virtualmente con la maggioranza del pubblico americano.
Della lezione cormaniana esso mostra la scelta delle riprese on location, la perfetta frammistione di immagini e musica rock, la denuncia soffice e in certa misura qualunquista, e naturalmente l'ascrivibilità al bike movie. Ma la pellicola vanta altre componenti più originali: il quadro in certa misura affrescale dell'America del tempo, dalle comunità hippy agli agglomerati meridionali meschini e ignoranti, la poetica on the road, che pur appartenendo al cinema hollywoodiano di sempre, appare qui chiaramente impostata in termini aggiornati a modi, valori, mitologia delle nuove generazioni.
[...] Peraltro è ben vero che la struttura sostanzialmente picaresca del film rimanda a una forte tradizione culturale, letteraria e cinematografica, preesistente e posteriore, che va da Huckleberry Finn a On the Road, da Scarecrow (Lo spaventapasseri, 1973) di Jerry Schatzberg a My Own Private Idaho (Belli e dannati, 1991) di Gus Van Sant. Opera che, in linea con il costume giovanile dell'epoca, propone il tema della droga come un dato di fatto, Easy Rider ha avuto anche il merito di rivelare un talento straordinario che di lì a poco avrebbe furoreggiato nella produzione della New Hollywood degli anni Settanta: quello di Jack Nicholson, già attore dai primi anni Sessanta alla corte di Roger Corman, e destinato, come sappiamo, a ben altri fasti.
Meno ideologizzato rispetto ad altri film di quegli anni (The Strawberry Statement ‒ Fragole e sangue, Stuart Hagmann 1970, R.P.M. ‒ R.P.M. Rivoluzione per minuto, Stanley Kramer 1970, e persino quell'importante introspezione sottilmente politica e insieme esistenziale, Five Easy Pieces ‒ Cinque pezzi facili, di Bob Rafelson, con Nicholson e ancora dello stesso anno), Easy Rider è in fondo un inno al disimpegno, una testimonianza di nausea e disprezzo (impliciti, certo) verso i valori in gioco nella società statunitense di allora, la (sempre implicita) affermazione che sinistra e destra sono idee e termini obsoleti, che essere nel gioco è comunque compromettente. Ma il film mostra anche la coscienza che, per quanto da quel gioco vi siano persone che vogliono uscire, il farlo non è tollerato, chi è libero (o anche soltanto si atteggia a tale) viene duramente redarguito e punito. Addirittura eliminato.

Franco La Polla, Easy Rider, in Enciclopedia del Cinema Treccani, 2004




È apparso anche in Italia, sulla scia del successo americano ed europeo, quello che può legittimamente considerarsi il primo film 'hippie'. Gli hippies, in realtà, hanno affollato anche troppo in questi anni gli schermi di ogni paese (come le pagine di tanta pubblicistica pseudogiovanile). Ma la originalità di Easy Rider sta proprio nel fatto che esso si sottrae, in gran parte, all'uso volgare e feticistico che il cinema corrente ha fatto e continua a fare di questo come di altri atteggiamenti protestatari e, soprattutto, nel tentativo di restituirci attraverso le immagini, e la loro continuità lirico-descrittiva, alcuni motivi essenziali di quella 'nuova sensibilità' che sottende fenomeni del genere, in America e altrove. Il nucleo più libero e fresco dei racconto si ritrova infatti nella descrizione del lungo viaggio che i due protagonisti affrontano, sulle loro rutilanti motociclette, per vedere il carnevale di New Orleans. Per almeno due terzi del film non accade nulla e non affiora velleità alcuna di caratterizzazione psicologica. L'atteggiamento dei due giovani verso l'esistenza viene fuori esclusivamente dal loro modo, un po' infantile e trasognato, di muoversi e guardarsi intorno; anzi si potrebbe dire che essi siano essenzialmente ciò che vedono e come lo vedono, senza sovrapposizioni ideologiche o sentimentali. E così che assume risalto e significato, indiretto ma preciso, l'insistenza del regista nel concedere spazio e dilatazione allo sfondo naturale del viaggio, che equivale a una sorta di pungente riscoperta di una civiltà agreste e preindustriale. Di qui anche l'orizzontalità stilistica del racconto, la prevalenza di campi lunghi che abbracciano paesaggi sterminati e deserti, e il rilievo simbolico della motocicletta su cui i protagonisti avanzano affiancati o si inseguono blandamente su strade incredibilmente tranquille e solitarie, inoltrandosi in una campagna nella quale sembrano compenetrarsi. [...] Fin che si tratta di descrivere, nei modi di un diario di viaggio agile e arioso, la continuità di comportamento, il film risulta credibile e non privo di una sua tenue grazia narrativa, anche per il recupero, da parte del regista, di certe tecniche e cadenze del 'cinema-verità' e di altre esperienze degli anni '50. Ma quando si tenta di andare oltre e di identificare le motivazioni più radicali di quel comportamento, il discorso si risolve, di volta in volta, nella goffa intrusione didascalica o nella facile sublimazione, più velleitaria che delirante, di un vitalismo davvero epidermico. Per tacere, poi, dei soliti rimandi alle frustrazioni infantili e familiari che affiorano pesantemente nella presuntuosa sequenza del cimitero, sospesa tra realtà e allucinazione.

Adelio Ferrero, Hopper e Fonda: "Easy Rider", in Dal cinema al cinema, Longanesi, Milano 1980




Easy Rider è un film politico non soltanto perché mostra come Peter Fonda e Dennis Hopper all'inizio vendano cocaina, come vadano in galera per un nonnulla, come vengano liquidati tranquillamente, come Jack Nicholson venga picchiato a sangue da una guardia giurata, e come uno sceriffo possa comportarsi. È un film politico perché è un bel film, perché è bello il paese percorso da due coraggiosi motociclisti; perché sono belle e serene le immagini che il film offre di questo paese; perché è bella la musica che accompagna il film, perché i movimenti di Peter Fonda sono belli; perché si può vedere Dennis Hopper che non si limita solo a interpretare una parte ma che ci mette tutto se stesso per fare il film: tra Los Angeles e New Orleans.

Wim Wenders, "Easy Rider": un film come il suo titolo, in L'idea di partenza, Libero scambio, Firenze 1983




Il film è un punto di vista realista e senza speranza su un certo numero di miti americani, che questa contraddizione mantiene, ma senza l'umanesimo contemplativo della maggior parte dei tentativi simili. La corsa dei personaggi, dalla California verso il profondo Sud, mostra quest'ultimo privo del suo corredo mitologico corman-faulkneriano (senza che tuttavia sia rifiutato il ricorso ad altre dimensioni, per esempio psicanalitiche), e reso nella sua abiezione non pittoresca, nel suo fascismo quotidiano, senza le caratteristiche del tragico. Per aver portato la sua amabile eccentricità fuori dalla sua città natale, un avvocato alcolista (straordinaria la prova di Jack Nicholson), che ha seguito i due eroi, è massacrato a colpi di spranga. Avendo constatato l'impasse a cui conduce la loro ricerca (filosofia della natura, coesistenza con l'integrazione all'interno dell'establishment, regressione infantile), i due eroi si fanno infine abbattere da due camionisti abbruttiti. L'ultima replica è: "We're there now" (ci si è, si è arrivati, è finita). Questa conclusione, ammirevole, è l'esatto contrario di quella di "You Only Live Once": questa non è più la tragicità del destino, ma una violenza naturale e insita nella società che elimina tutto ciò che esce dalla norma.

Bernard Eisenschitz, Easy Rider, "Cahiers du cinéma", n. 213, giugno 1969




Easy Rider ha la sua origine nel tessuto dei miti di viaggio della nostra cultura: i voli spazio-temporali di Whitman in Song of Myself, il misticismo folcloristico del vagabondo di Woody Guthrie in Bound for Glory, e i documenti di un frenetico viaggio beat di Kerouac - tutte promesse di una frontiera americana libera. Ma Capitan America (con allusione all'eroe dei fumetti degli anni '40) e Billy sono gli ultimi eroi degli ampi spazi: la strada, suggerisce il film, non è aperta a lungo per il viaggio degli spiriti liberi. "Una volta questo era proprio un gran bel paese; e non riesco a capire quello che gli è successo", dice il giovane avvocato per i diritti civili ai suoi due amici dopo che i tre sono stati tacciati in un ristorante del Sud come "finocchi yankee". Quello che sta succedendo è una guerra civile culturale. Impliciti nella politica di Easy Rider sono la convention di Chicago, le lotte per i diritti civili, gii incidenti a Berkeley, il boicottaggio al vino californiano, il Vietnam.
Questi sono motivi celati di preoccupazione espressi dialetticamente attraverso la nostalgia del film per un'America e degli Americani ancora gradevoli: indiani vivi e morti, piccoli fattori, hippy, sognatori liberali, motociclisti con il sedere incollato sul sellino e fumatori di marijuana, Billy e Capitan America. La moralità di Easy Rider è semplice come quella di un western, eccettuato il fatto che i suoi eroi sono i fuorilegge, mentre le canaglie sono rappresentate dai membri della legge e dell'ordine. Questo paradigma sociale si sviluppa su un paesaggio che non è un semplice sfondo ma diventa un vero e proprio personaggio. I paesaggi dei Sud-ovest, dell'Ovest e del Sud che Billy e Wyatt attraversano con le loro motociclette mostrano un residuo dello spirito americano passato, una presenza così forte che rende piccolissimi gli esseri umani. Easy Rider si estende nel tempo in cui Emerson e Thoureau credevano in un'America pazza e quando gli Indiani stavano facendo la loro ultima triste resistenza.

Frederic Tuten, Easy Rider, "Film Society Review", n. 9, maggio 1969