Rassegna stampa

Rassegna stampa

Frederick Wiseman ama la sua città, Boston, si capisce da come ne filma le strade, le case, i grattacieli e le abitazioni più antiche di mattoni rossi, dal modo in cui si sofferma sugli alberi un po’ spogliati dall’autunno, dalla luce che cattura nell’orizzonte dell’oceano, dallo sguardo sulle abitudini ‘banali’, il camion dei pompieri o quello giallo della raccolta (attentamente differenziata) dei rifiuti.
Ma non è per comporre un’elegia turistica che il regista Leone d’oro alla carriera ha filmato per la prima volta i luoghi dove è nato. Ciò il suo nuovo e magnifico City Hall è l’importanza delle istituzioni democratiche americane messe in pericolo dalla presidenza di Trump a cui contrappone il discorso politico del sindaco democratico di Boston, Martin Walsh – rieletto nel 2017 – che si fonda essenzialmente su due punti: resistenza e comunità. [...]
Non è la prima volta che Wiseman ne parla, la democrazia e le comunità ritornano nei suoi film – pensiamo a Ex Libris a In Jackson Heights – così come altri lavori si sono confrontati in modo specifico con le istituzioni – ospedali psichiatrici, scuola, welfare – e le loro contraddizioni. Il suo cinema è una grande narrazione corale dell'America che negli anni continua a esplorarne il funzionamento e la rappresentazione.
“Il governo di Boston è l'esatta antitesi di quello che sta facendo Trump”, sottolinea Wiseman. Con questo film lo ribadisce con forza, in piena campagna elettorale e nella pandemia – pure se ovviamente è stato girato prima. Però al di là delle urgenze poste dalla cronaca, City Hall è un nuovo passaggio in una carriera ormai molto lunga di un cineasta novantenne che si conferma nella sua cifra in continuo movimento. Capace nella relazione con la realtà di far emergere conflitti necessità e lezioni senza mai mettere da parte il gesto del filmare. Anzi rendendolo come il suo sindaco sempre più una forma di resistenza in un fare cinema politico senza dogmi.

Cristina Piccino, “il Manifesto”, 11 settembre 2020



L’antidoto al virus The Donald è in Mostra e si chiama Frederick Wiseman. […] Tornato a girare nella natia capitale del Massachusetts da dove mancava cinematograficamente dal 1989 con Near Death, Wiseman mette in scena in vibranti 275 minuti il virtuoso tessuto amministrativo messo in piedi dal sindaco dem Martin Walsh: cattolico, figlio d’immigrati irlandesi, è il volto dell’America ideale, in poche parole quella sognata da Abraham Lincoln quando indicando la strada della democrazia americana la definì: “il governo della gente, fatto dalla gente e per la gente”.
Con la dovuta sottolineatura che il grande presidente degli States fuggisse da un’idea populista abbracciando quella di istituzioni democraticamente elette, “rappresentative del popolo”. Attraverso il classico mosaico di gruppi umani che si riuniscono dibattendo costruttivamente problematiche o iniziative da implementare, Wiseman entra nella City Hall (istituzione di amministrazione locale simile al nostro municipio) mettendo in scena i “lavori in corso” presso le varie commissioni, comitati, gruppi operativi tutti squisitamente orientati al servizio sociale, nel senso più profondo (e democratico) del termine. [...]
È questo un approccio che piace al grande regista in quello che a conti fatti può dichiararsi il suo film più esplicitamente politico, per quanto ogni opera di Wiseman possa intendersi quale gesto politico nel senso etimologico del termine. Ogni gruppo di discussione o utile al miglioramento politico locale, si diceva, è rappresentato: a Boston l’obiettivo è una città-stato che funzioni, che non abbia più senzatetto, emarginati, poveri estremi, discriminati di qualunque tipo, ammalati, disabili o anziani che non abbiano accesso a cure o farmaci. “Noi non potremo cambiare gli Stati Uniti d’America per come l’amministrazione Trump li ha ridotti, ma da Boston possiamo dare un messaggio alle altre realtà locali, ovvero che il cambiamento è ancora possibile, che la democrazia ha ancora un valore sociale” annuncia con una certa commozione Mr Walsh rappresentato in trionfo da Wiseman. D’altra parte non avrebbe realizzato City Hall, da lui girato con non poca fatica per “illustrare che lavorare insieme come popolo in servizio reciproco è il senso della democrazia”.

Anna Maria Pasetti, “Il Fatto Quotidiano”, 9 settembre 2020


Il cinema corale di Frederick Wiseman ha spesso raccontato con preziosa pazienza il valore delle istituzioni pubbliche nei confronti della collettività. Dal municipio di una città (americana) dipendono quasi tutti gli aspetti della vita: la polizia, i vigili del fuoco, la sanità, il dipartimento degli affari dei veterani, l’aiuto agli anziani, la manutenzione dei parchi, le autorizzazioni per varie attività professionali, la registrazione di nascite, matrimoni e morti insieme a centinaia di altre attività che tutelano i residenti e i visitatori.
In City Hall Wiseman si concentra sulla città di Boston e sul dialogo dell’amministrazione con i cittadini, ritraendo il sindaco Marty Walsh e i consiglieri mentre si dedicano a una serie di priorità politiche – dalla giustizia razziale alle azioni sul clima, fino ai problemi collegati a chi non ha una casa – e ovviamente lasciando anche ampio spazio all’opinione dei cittadini di ogni ceto sociale in ogni tipo di circostanza. [...]
Ancora una volta lo stile inconfondibile del regista mette in atto un percorso d’inclusione e democrazia cinematografica senza paragoni che inserisce sullo stesso piano d’importanza in termini di tempo le parole del sindaco e quelle di un reduce di guerra, provando in questo senso ad annullare qualsiasi tipo di disuguaglianza sociale. [...]
Ciò che viene mostrato nei 275 minuti di durata non è altro che un lungo, unico discorso che tiene insieme riunioni, sopralluoghi, discussioni, dibattiti. Non ci sono interventi edilizi, cantieri o operazioni pratiche sul territorio: solo dialoghi, solo parole, opinioni e condivisioni di idee. [...]
City Hall racconta un modello democratico che osservato nel suo insieme sembra quasi un’utopia. È un film profondamente anti-Trump, che vuole dimostrare come sia possibile contrastare la violenza attraverso il dialogo con la comunità in tutte le sue sfaccettature e non con altra violenza; un film che per ovvie ragioni difficilmente avrà un impatto sull’opinione pubblica, ma che al contempo ha l’importanza storica di documentare e conservare l’idea che in uno dei momenti politicamente più disastrosi degli ultimi anni un’alternativa esiste ed è percorribile.

Francesco Ruzzier, “Cineforum”, 12 settembre 2020



Ci sono gli esterni e ci sono gli interni: le facciate ottuse delle istituzioni inquadrate dal basso e le stanze rivestite di legno chiaro nelle quali si tengono discorsi importanti e fitte discussioni. È prima di tutto attraverso il montaggio alternato di questi due spazi che si sviluppa il racconto di City Hall.
[…] Quasi come se il film stesso (la sua architettura) potesse costituire una sorta di loggiato – né interno né esterno –, come se il cinema potesse compensare la carenza e la mancata interconnessione tra le diverse ‘piazze’ o spazi pubblici nei quali avviene il confronto tra i cittadini di una grande città americana.
Come sempre, Wiseman osserva ciò che accade all’interno delle stanze dei bottoni. Entra laddove si decide la governance della città, indaga gli spazi e i tempi degli incontri tra i veterani di guerra che oscillano tra onnipotenza e senso di impotenza nei confronti della comunità, mostra le riunioni dell’apposita commissione municipale dedicata all’emergenza sfratti, porta la macchina da presa nei centri civici che si battono per i diritti delle minoranze. Ma a differenza di buona parte dei suoi capolavori dedicati a istituzioni come il Bridgewater State Hospital (Titicut Follies, 1976) o la New York Public Library (Ex Libris, 2017), in City Hall il racconto identifica il proprio baricentro in un personaggio che personifica la leadership: il sindaco democratico di Boston Marty Walsh. [...]
[…] Ma, a ben vedere, neppure di fronte al lavoro della municipalità di Boston lo sguardo di Wiseman può dirsi embedded, organico, integrato negli assetti ideologici e retorici del discorso istituzionale e politico. Al contrario, proprio raccontando un mondo estremamente mediatizzato come quello della politica, Wiseman adotta degli accorgimenti registici espressamente mirati a sottrarre l’immagine al regime spettacolare di efficacia mediatica per restituirla al ‘comune’, per sottoporla alla prova di verità del confronto pubblico.
Che cos’è del resto un film documentario di quattro ore e mezzo – quasi interamente incentrato sulle discussioni decisionali e assembleari per la gestione di una città – se non un modo per forzarci a riflettere sugli spazi e i tempi del politico, sulle asimmetrie nella presa di parola e sulla difficile maturazione delle decisioni? Ma la temporalità espansa non costituisce l’unica forma di politicizzazione del racconto di City Hall. Fin dai primi minuti, fin dai primi meeting di decisori o assemblee di quartiere, la scelta delle inquadrature e del montaggio è mirata a interrompere la sintassi televisiva e l’immediatezza dello spot elettorale. Soprattutto negli spazi interni, si evita ogni utilizzo del totale, così come viene meno il (televisivamente) sistematico ricorso al campo e controcampo tra il leader e la folla di astanti. Nei suoi lunghi discorsi, il sindaco è spesso inquadrato lateralmente e quando intervengono stacchi di montaggio è per isolare porzioni della stanza, espressioni singolari e aggregazioni più o meno estemporanee. [...]
Se City Hall è un film anti-trumpiano non è tanto o soltanto perché racconta il lavoro di un’amministrazione democratica come quella di Boston. È piuttosto questo cinema, lo sguardo di quell’amante delle istituzioni che è Frederick Wiseman, a intrattenere una lotta, un corpo a corpo con l’ideologia conservatrice e autoritaria, con il discredito delle istituzioni pubbliche e delle forme di articolazione creativa ed estemporanea del comune, con lo svilimento del discorso mediatico che hanno caratterizzato la vita professionale e il mandato presidenziale di Trump.
[…] È forse questo il tema principale del film: la necessità di intraprendere (e la complessità di sviluppare) processi di rigenerazione istituzionale, culturale e sociale, tanto operando rimozioni di vecchie pratiche anti egalitarie e razziste, quanto dando luogo a un’interrogazione e messa in tensione degli assetti valoriali e simbolici che hanno caratterizzato una città e un paese. Quanto è certo è che il principale, imprescindibile modo per farlo resta il confronto, l’allargamento del campo e delle modalità di confronto. E quando, dopo quattro ore e mezza di dibattiti riguardanti la città di Boston, lo spettatore di City Hall sembra essere sopraffatto dalla stanchezza, è forse il momento più intenso, nel quale tornare a pensare – malgrado gli slogan elettorali si siano impossessati di tale idea – che la politica è passione, dialettica delle differenze e fatica, e non esistono scorciatoie.

Francesco Zucconi, Wiseman contro Trump, “Fata Morgana Web”, 14 settembre 2020