Un'arte civica

Un'arte civica

A proposito di City Hall



Immediatamente successivo, nell’ampia filmografia di Frederick Wiseman, a Monrovia, Indiana (con la sua popolazione prevalentemente bianca, le sue chiese, i suoi armaioli e un consiglio comunale attento a non aprire troppo la cittadina a elementi estranei), City Hall è sicuramente il film più esplicitamente politico del documentarista, una professione di fede nell’America e nella sua democrazia come fu definita da Abraham Lincoln nel discorso di Gettysburg: “il governo del popolo, dal popolo e per il popolo”, un contrappunto all’incubo rappresentato dall’impresa trumpiana volta a demolire le istituzioni americane, e la proposta, espressa filmando quella che è concretamente una politica virtuosa di servizio pubblico e d’inclusione, di un contromodello: “So che Boston non risolverà i problemi degli Stati Uniti” precisa il sindaco a metà film. “Ma quel che possiamo fare è risolvere i problemi di una città”.

E non è un caso che Frederick Wiseman, l’uomo che oltre a King Vidor ha più filmato l’America nella sua diversità territoriale, torni nella sua città natale, dove sono cresciuti i figli di immigrati ebrei dell’Europa dell’Est come lui e dove il regista ha vissuto la discriminazione sin dalla più tenera età. In realtà è la prima volta, con l’eccezione di Near Death nel 1989 (ma lì della città si vedeva solo il reparto di terapia intensiva dell’ospedale Beth Israel), che gira a Boston, e nelle magnifiche inquadrature estremamente grafiche che fungono da respiro tra due sequenze si percepisce la felicità comunicativa che prova nel filmare la sua città in tutta la sua diversità architettonica: dai grandi palazzi di vetro alle casette di legno, passando per i tipici edifici di mattoni rossi. E vediamo quasi trasparire il ragazzino di un tempo nel regista novantenne chiaramente affascinato dai lavori pubblici, dalla compattazione dei rifiuti, dalla potatura degli alberi, dal rifacimento della segnaletica orizzontale e dai camion dei pompieri con i loro colori rutilanti e le dimensioni spettacolari.
City Hall appartiene d’altra parte, come Canal Zone, Belfast, Maine o più recentemente In Jackson Heights e quindi Monrovia, Indiana, a quei film territoriali che riassumono e riuniscono quasi tutti gli elementi della vita istituzionale che Wiseman esplora e approfondisce da oltre cinquant’anni. Come in Public Housing ci viene mostrato il problema dell’alloggio per chi vive in condizioni di precarietà; come in Law and Order assistiamo a un briefing in un commissariato; il reduce del Vietnam avrebbe potuto addestrare le reclute in Basic Training; le infermiere in sciopero per ottenere una migliore qualità delle cure sembrano uscite da Hospital; un consiglio scolastico negozia l’aumento del numero di allievi di un istituto superiore simile a quello di High School II; la sorte dei senzatetto ricorda Welfare, quella delle donne maltrattate Domestic Violence. Non si finirebbe mai di tracciare legami con altri suoi film, senza dimenticare che in Wiseman l’istituzione più che un soggetto è una cornice che serve a inquadrare, in senso fotografico, la commedia umana beckettiana che è la sua opera. Ne è testimone, ancora una volta, la galleria di ritratti, talvolta fugaci, che punteggia il film, e che mostra l’America di oggi nella sua molteplicità di fisionomie e di origini etniche. Scandito dalle grandi festività statunitensi (il Giorno del Ringraziamento, il Veteran’s Day, Halloween…), City Hall è di fatto, come impone il suo soggetto, costantemente attraversato dai grandi temi politici che impegnano la società americana contemporanea, e cioè, in ordine sparso: matrimoni omosessuali, legalizzazione della cannabis, costo delle cure sanitarie, omicidi di massa, tensioni tra polizia e popolazione, discriminazioni delle minoranze, quali che esse siano, presenti e passate.

Lungi tuttavia dall’essere aneddotico, il film mostra soprattutto come si realizza un pensiero politico in ciò che vi è di più concreto, di più prosaico, e dunque di più nobile (e non a caso ovunque nel mondo solo i rappresentanti locali sono ancora tenuti in considerazione dai loro elettori): la gestione quotidiana della vita di ciascuno e l’ambizione di rendergli la vita migliore (“Costruire una Boston migliore”, è il motto orgogliosamente esposto nei cantieri cittadini). Ossia la democrazia in azione, cioè innanzitutto lavoro collettivo, dibattito e compromesso, impegno civico nella gestione delle questioni cittadine da parte di donne e uomini di buona volontà, pronti a interpellare senza troppe cerimonie l’esecutivo quando necessario. “La democrazia non è qualcosa di scontato” ha ricordato la scorsa estate Barack Obama al funerale di John Lewis, icona del movimento per i diritti umani, “essa va coltivata”. Dalle riunioni alle commissioni, dalle consultazioni pubbliche alle cerimonie, City Hall attesta anche la pluralità, che rispecchia quella dei suoi cittadini, dell’esecutivo incaricato dal 2013 di gestire la capitale del Massachusetts.

E però è la prima volta, nell’opera profondamente corale di Frederick Wiseman, che un’istituzione si incarna a tal punto in un uomo, un vero eroe del cinema. Il sindaco Martin Walsh, presente in più di un terzo delle circa 45 sequenze che compongono il film, con la sua faccia di irlandese avrebbe potuto essere un poliziotto di Boston in Mystic River di Clint Eastwood, o in un’altra epoca interpretare una giubba blu accanto a Victor McLaglen in un film di Ford. Non è un caso che venga in mente Ford, poiché come in In Jackson Heights e a ben pensarci in tutta storia stessa degli Stati Uniti la dialettica tra l’uno e il molteplice (come creare una sola comunità mettendo insieme tutte le comunità che formano il mosaico americano?) è una delle tematiche ricorrenti del film. Così il primo cittadino si presenta volentieri come membro di una comunità tra le altre, seppur maggioritaria a Boston, quella degli irlandesi americani cattolici, ricordando quanto fosse stata disprezzata e insultata in passato prima di organizzarsi per reclamare le chiavi della città. Ma è anche come eroe alla Frank Capra che ci appare Martin Walsh: potrebbe essere il James Stewart di Mr. Smith va a Washington, per le sue capacità oratorie di uomo del popolo, umile e determinato, o quello di La vita è meravigliosa, che dopo una discesa agli inferi si rende conto di ciò che può dare alla sua città.

Di fatto la parola chiave del discorso politico di Walsh e di conseguenza del film è la resilienza, ovvero come prendere coscienza del trauma vissuto per ricostruirsi su fondamenta sane. Quale trauma? Seppur fuori campo, esso è nel film di varia natura: l’elezione di Trump, naturalmente, e il suo assalto implacabile a tutte le conquiste di cinquant’anni di lotta per i diritti civili (attacco esemplificato nel film dallo smantellamento delle leggi contro la discriminazione abitativa) o agli immigrati illegali (Walsh ricorda orgogliosamente che per loro ha fatto di Boston una città-rifugio); il cambiamento climatico, e il timore che un uragano come Katrina possa colpire la città, che dà sull’oceano; le guerre dell’Iraq e dell’Afghanistan, con i disturbi da stress post-traumatico che nel film rimandano esplicitamente alla guerra del Vietnam e alla Seconda guerra mondiale; e infine gli attentati alla Maratona di Boston nel 2013, il cui fantasma aleggia sulla parata che celebra la nona vittoria dei Red Sox alle World Series. La resilienza Martin Walsh la conosce in prima persona: sia per il cancro cui è sopravvissuto da bambino, sia per il passato di alcolista, ed è chiaro che alla radice del suo pensiero e della sua azione politica ci sono queste due esperienze. Lo dimostra il fatto che Walsh ne parla durante le riunioni e le apparizioni pubbliche. È questo d’altronde, dopo la comunità e la resilienza, il terzo grande tema del film: come costruire un racconto? Quasi che i 23 anni di partecipazione alle riunioni degli Alcolisti Anonimi avessero insegnato a Martin l’importanza e la necessità di raccontarsi, di narrare il proprio percorso e la propria azione. È la forma migliore di storytelling: non un’operazione di comunicazione volta a confezionare con fatti dubbi una favola ingannevole, ma un racconto per spiegare e convincere. “Non sappiamo raccontare quello che facciamo” dice Walsh nella prima sequenza. “Come celebrare quello che ci unisce? Che cosa possiamo fare per esprimere e affermare che la diversità ci rende più forti?” si interroga ancora una volta intorno alla metà del film.

La risposta è qui, sotto i nostri occhi: lasciare che Frederick Wiseman filmi a piacimento, e, con il suo talento del montaggio come arte della condensazione, in queste brevi quattro ore e mezza, sostenga e illustri una certa idea dell’America. È quello che chiameremo, per riprendere l’espressione utilizzata in un incontro sull’uso dell’arte pubblica per esporre e raccontare la crisi degli oppioidi: un’arte civica. O anche, secondo l’obiettivo condiviso da Martin W. e Frederick W.: “Insegnare alla gente che cosa significa governare”.

 

Antoine Guillot