Un'epica miseria: Pasolini e il sacro

Un'epica miseria: Pasolini e il sacro

La mia visione del mondo è sempre nel suo fondo di tipo epico-religioso; quindi anche e soprattutto in personaggi miserabili, personaggi che sono al di fuori di una coscienza storica e, nella fattispecie, di una coscienza borghese, questi elementi epico-religiosi giocano un ruolo molto importante. La miseria è sempre stata, per sua intima caratteristica, epica, e gli elementi che giocano nella psicologia di un miserabile, di un povero, di un sottoproletario, sono sempre in un certo qual modo puri perché privi di coscienza e quindi essenziali. Questo mio modo di vedere il mondo dei poveri, dei sottoproletari, risulta, credo, non soltanto dalla musica ma anche dallo stile stesso dei miei film. La musica è l'elemento diciamo di punta, l'elemento clamoroso, la veste quasi esteriore di un fatto stilistico più interno. E questo fatto stilistico più interno al film è lo stile del film.

(Pier Paolo Pasolini)




Nel film la scelta dei ‘ragazzi di vita’ si risolve nella scoperta di un’esistenza precosciente e inarticolata, che si dispiega al livello della necessità e dell’istinto, tesa ed estremizzata tra i poli opposti dell’invettiva rabbiosa e dell’allegria disperata e proterva. Così, nella ‘scommessa’ del protagonista, la millanteria e l’esaltazione della propria vitalità sono protese in uno spasimo di rabbia, ma con un risvolto e un’aura di ‘predestinazione’ che lo isola e distingue dagli altri. Il primissimo piano del volto di Accattone immobile sul ponte, con il grande angelo di marmo sullo sfondo, e il segno della croce prima di tuffarsi nel fiume introducono fin dall’inizio quella nota di sacralità di cui tutto il racconto sarà pervaso. La sfida alla morte è commentata dal coro infido e beffardo dei compagni; ma in altri luoghi del film la risata, così frequente e ossessiva, carica di autoironia e di feroce sarcasmo, assume un timbro liberatorio.

(Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, 1994)




Mentre giravo Accattone il solo autore al quale ho pensato direttamente è stato Masaccio. Dopo averlo finito mi sono reso conto che vi avevano avuto parte anche alcuni dei miei grandi amori cinematografici: Dreyer, Mizoguchi e Chaplin. Perché questi tre? Perché sono tutti e tre, ciascuno a suo modo, registi epici; non epici nel senso brechtiano del termine, intendo epici nel senso più mitico, di una epicità più naturale che si lega più alle cose, ai fatti, ai personaggi, alla vicenda, senza il distacco di un Brecht. Io sento questa epicità mitica sia in Dreyer che in Mizoguchi e Chaplin: tutti e tre osservano le cose da un punto di vista che è assoluto, essenziale e in un certo senso religioso, sacrale.

(Pier Paolo Pasolini)




Delli Colli asseconda la scelta di una fotografia a forti chiaroscuri che Pasolini desidera sulla base delle sue visioni dei film di Dreyer. La ottiene usando una pellicola a grana dura, una Ferrania di recente produzione. In molte riprese vi aggiunge inoltre un filtro arancio che esalta i contrasti di luce già intensi per la presenza abbacinante del sole che incendia l’aria delle borgate e ne arroventa le pietre.

(Luciano De Giusti)




Sacralità: frontalità. E quindi religione. In tanti hanno parlato dell'intima religione di Accattone; delle fatalità della sua psicologia, ecc. Anche gli obiettivi erano rigorosamente il 50 e il 75: obiettivi che appesantiscono la materia, esaltano il tuttotondo, il chiaroscuro, danno grevità e spesso sgradevolezza di legno tarlato o molle pietra alle figure, ecc. Specie se usati con la luce ‘sporca’ – il controluce (con la Ferrania!) – che scava le orbite degli occhi, le ombre sotto il naso e intorno alla bocca, con effetti di dilatazione e sgranatura delle immagini, quasi da controtipo, ecc.
Ne nasceva, nell'insieme del film, nella sua macchina figurativa, quel “grave estetismo di morte” di cui mi parlava il critico Pietro Citati. Ed è tenendo conto di questo – di questo procedimento tecnico o se vogliamo stilistico – che è lecito parlare, io direi, di ‘religiosità’ a proposito di Accattone, come si è spesso fatto: perché solo attraverso i procedimenti tecnici e gli stilismi è riconoscibile il valore reale di quella religiosità, che si fa approssimativa e ‘giornalistica’ in chi la identifichi coi contenuti, espliciti o impliciti. In definitiva, la religiosità non era tanto nel supremo bisogno di salvezza personale del personaggio (da sfruttatore a ladro!) o, dall'esterno, nella fatalità, che tutto determina e conclude, di un segno di croce finale, ma era ‘nel modo di vedere il mondo’: nella sacralità tecnica del vederlo.
La musica assolve una funzione estetica, al limite ‘estetizzante’. La Passione secondo Matteo di Bach, al momento della rissa di Accattone, ha innanzitutto questa funzione estetica. Si produce una sorta di contaminazione tra la bruttezza, la violenza della situazione, e il sublime musicale. Ma simultaneamente svolge una funzione didattica. Si indirizza allo spettatore e lo mette in guardia, gli fa capire che non si trova di fronte a una zuffa di stile neorealista, folcloristica, ma dinanzi a una lotta epica che sfocia nel sacro, nel ‘religioso’.

(Pier Paolo Pasolini)




In Accattone ho voluto rappresentare la degradazione e l’umile condizione umana di un personaggio che vive nel fango e nella polvere delle borgate di Roma. Io sentivo, sapevo, che dentro questa degradazione c’era qualcosa di sacro, qualcosa di religioso in senso vago e generale della parola, e allora questo aggettivo, ‘sacro’, l’ho aggiunto con la musica. Ho detto, cioè, che la degradazio­ne di Accattone è, sì, una degradazione, ma una degradazione in qualche modo sacra, e Bach mi è servito a far capire ai vasti pubblici queste mie intenzioni,

(Pier Paolo Pasolini)




Ora, se io passo il mio film Accattone in moviola, il primo elemento strutturale dal punto di vista descrittivo è questo: in Accattone mancano i piani-sequenza. E che quindi in Accattone ha una estrema importanza il montaggio. Accattone è quindi formato da una serie di immagini molto brevi, di frammenti brevissimi, ognuno dei quali corrisponde a un momento della realtà dalla durata breve e intensa; uso una terminologia abbastanza vaga. Ora cosa significa questo? Il piano-sequenza è la tecnica cinematografica di tipo più naturalistico. Cioè, quando io voglio dare il senso di naturalezza a una scena, faccio un piano-sequenza, cioè sto lì con la macchina da presa, colgo l’intera scena in tutta la sua durata. Un uomo entra in una stanza, ha bisogno di un bicchiere d’acqua, guarda fuori dalla finestra, se ne va. Rappresento, da un certo punto di vista, tutta questa scena, senza soluzione di continuità, in maniera che il piano-sequenza abbia la stessa durata temporale dell’azione stessa, dell’azione della realtà. E quindi questo è un momento naturalistico del cinema. Ora, la mancanza totale di piani-sequenza in Accattone esclude dunque il momento naturalistico. E invece la presenza di tante inquadrature staccate una dall’altra significa che io ho visto la realtà momento per momento, frammento per frammento, oggetto per oggetto, viso per viso. E quindi in ogni oggetto e in ogni viso, visto frontalmente, ieraticamente, in tutta la sua intensità, è venuta fuori quella che dicevamo prima: sacralità. Cioè la tecnica, come dice Contini, è sempre un fatto che appartiene all’ordine sacrale, una tecnica che sia frontale, semplice, ieratica, priva di naturalezza e di naturalismo, non può essere che una tecnica sacrale.

(Pier Paolo Pasolini)





Salvo diversa indicazione i testi sono tratti da:
Accattone. L’esordio di Pier Paolo Pasolini raccontato dai documenti, a cura di Luciano De Giusti e Roberto Chiesi, Edizioni Cineteca di Bologna, 2015;
Pier Paolo Pasolini, Il mio cinema, Edizioni Cineteca di Bologna, 2015;
L’avventurosa storia del cinema italiano. Vol. 3, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Edizioni Cineteca di Bologna, in corso di pubblicazione