Antologia critica

Antologia critica

Taluni scalpitano perché Pasolini non offre al suo eroe altra via di riscatto che quella di una morte, la quale risana dolorose ferite. Altri ancora storcono il naso perché, al contrario del protagonista di Una vita violenta, Accattone non incontra sul suo cammino il partito comunista e non si redime neppure diventando ladro. Ma gli uni e gli altri, nei loro appunti, dimenticano che Accattone appartiene a un mondo socialmente primitivo, nel quale le leggi della ragione e della consapevolezza sono confuse e annebbiate. E dimenticano, inoltre, che Pasolini ha osservato e giudicato i suoi personaggi dall’interno, nel cerchio chiuso di una sotto-società dominata da regole proprie e impermeabile alle sollecitazioni esterne. Soprattutto si dimentica che Accattone, come ogni prodotto il quale raggiunge una compiutezza d’arte, ha un valore conoscitivo (oltre che poetico) di non scarso rilievo; e che il film costituisce, nel patrimonio della cinematografia italiana un contributo fecondo. Basta confrontare Accattone con uno qualsiasi dei film diretti da Bolognini o da Rossi sulla periferia umana della capitale per accorgersi che Pasolini rifiuta ogni compiacimento morboso, ogni divagazione, per restituirci, in tutta la sua tragicità, un dramma tradotto in immagini classicamente scarne, spoglie, essenziali, autentiche.

(Mino Argentieri, “Cinema Sessanta”, luglio-agosto 1961)




Va detto innanzi tutto che lo scrittore, alle prese con il nuovo mezzo espressivo, ha dimostrato un’eccezionale sicurezza tecnica nel raccontarci con notevole efficacia la sua favola, in modo tutto immediato, ottenendo da volti e materiale una vivacità d’espressione quale raramente i più consumati maestri dell’arte delle immagini sanno raggiungere. L’impressione quindi è di aver a che fare con un film realista, dove si rivela il dramma di quella particolare umanità sottoproletaria, ancora assolutamente pre-sociale, che popola le borgate cresciute alla periferia di Roma .
[…] Accattone è forse quello che voleva essere, senza riuscirci, Miracolo a Milano: una favola in immagini reali. Ma, come il film di De Sica-Zavattini, esso non riesce a stabilire il contatto, il confronto col mondo esterno; la sua polemica si esaurisce nel chiuso del ghetto che descrive, qualcosa che può profondamente scandalizzare le belle dame della buona società borghese, ma che questa stessa società borghese non fa tremare più di quanto la possano turbare le artificiose costruzioni di un Cocteau, di cui Pasolini supera di gran lunga, in immaginazione, la vena fantastica.

(Paolo Gobetti, “Cinema Nuovo”, n. 153, settembre-ottobre 1961)




Il film intero si regge su questo personaggio bellissimo, profondamente sentito, felicemente espresso in tutta la sua complessità. Accattone è molte cose insieme: il secolare scetticismo romano, il relitto d’una società ancora rustica e artigianale, il prodotto di un’alienazione totale; ma è soprattutto l’espressione d’Una sclerosi etica, di un’inconscia volontà suicida. L’autenticità di Accattone è tale che anche un personaggio un po’ convenzionale e chapliniano come Stella si tinge di verità ogni volta che s’accompagna con lui. Non meno autentico in quanto altrettanto sentito e sofferto, è lo squallido e sordido paesaggio delle borgate che fa da sfondo alla vicenda, con i suoi mondezzai. Il film è lento e insistito perché Pasolini vuole piuttosto rappresentare, ossia creare degli effetti, che narrare, ossia scatenare un ritmo. Pasolini è un regista serio, solido, tenace, intelligente e poetico che lavora sull’immagine come lavora sulla parola. Paragonato al suo linguaggio letterario denso e spesso prezioso, il linguaggio cinematografico di Pasolini potrà sembrare semplice e persino rozzo; ma questo contenutismo gli ha certamente giovato per dare più spicco a personaggi e ambienti da lui troppo sperimentati e vissuti per essere trattati in maniera esornativa.

(Alberto Moravia, “L’Espresso”, 1 ottobre 1961)




La morte, il presentimento della morte domina, è una presenza – ora segreta, ora esplicita – sospesa sul film dalla prima all’ultima inquadratura. Anche perciò trova una sua giustificazione narrativa la sequenza onirica in cui Accattone sogna il proprio funerale e il paradiso [...]. In quest’assenza di speranza e di redenzione Accattone può dirsi una tragedia; il film vive, infatti, di un personaggio solo e di un coro, quello dei volti, dei corpi, delle voci dei suoi compagni. Le donne esistono, sono figure, segni, schemi: o prostitute o madri, o come Stella, angelicata dapprima, poi destituita, sempre materna. Non esiste, parimenti, il mondo esterno, il nostro: quello di Accattone e dei suoi compagni è un inferno o, meglio, un limbo. Diciamolo pure ghetto o ‘Lager’.

(Morando Morandini, “Telesera”, 23 novembre 1961)




Il film mi è piaciuto e mi interessa. Come regista principiante – anche se per verità è un pezzo che bazzica nel cinema, e il tirocinio fatto accanto a Bolognini e a Rosi avrà pur contato per qualcosa – non c’è dubbio che Pasolini mostri doti serie. A me non importa niente se qualche volta tira in lungo le carrellate, o affastella il montaggio: se ci sono compiacimenti cerebrali o insistite crudezze. Mi basta che egli sia riuscito a concretare cinematograficamente dei personaggi e a mettere intorno ad essi aria, evidenza e tempo. Basta come titolo di abilitazione il modo con cui ha impiantato ed è riuscito a condurre lungo tutto il film il tipo dell’accattone, Franco Citti, che se non sbaglio non è mai stato attore; e come ne rende il complesso torbido e disperato, fatto di rivolta, di cinismo e di isteria; e come ne padroneggia e modella la maschera. Soltanto gli spiriti inaciditi e settari possono negare a molte immagini di questo film un’intima carica di asprezza, di angoscia e di umana simpatia.

(Filippo Sacchi, “Epoca”, 27 novembre 1961)




Certamente Accattone è il tentativo, alquanto ambizioso, di tradurre in materia poetica l’osservazione di un mondo che si presenta morto alla poesia, per la sua crudezza: siamo ai margini di consistenza di quella che si vuol chiamare società civile, dove la dignità umana è profondamente corrotta ma non ha perso del tutto la coscienza del proprio squallido sottoproletariato dell’ultima periferia romana, abitata da sfruttatori e donne di strada. Altri hanno già trattato precedentemente questi luoghi, e personaggi simili. Ma, a differenza di quelli, spesso articolati su soggetti dello stesso Pasolini, qui la bella prosa non vuole edulcorare ka materia, anzi, cerca di rendere quel mondo senza mediazioni, nel suo splendore, se così si può dire, luciferino, senza redenzione sentimentale. Niente Poveri ma belli, insomma, ma violenza, desolazione, che sono la logica interna di un mondo fuori d’ogni regola umana. […] Scarnito, aspramente caratterizzato anche nei suoi ritmi stanchi, rilassati, Accattone è quindi un film tutto pasoliniano; ha i furori, le sgradevolezze le pretese sublimi, le inerzie, e i versi opachi e le ironie rabbiosamente polemiche, e la stanchezza verso il vivere, la voluttà di morte, in un certo senso, del Pasolini poeta di La religione del nostro tempo.

(G.B. Cavallaro, “Cineforum”, n. 10, dicembre 1961)




Tutta la traiettoria di Accattone, fratello di Mouchette, è compresa tra il tuffo iniziale – nella tracotanza dell’incoscienza – e l’incidente finale: “Mo’ sto bene”. Si può ironizzare sulla crudeltà, la fatalità maldestra di questo epilogo. Ciò che è chiaro è che questo epilogo era necessario. Accattone era nella morte molto prima di questa morte, aveva camminato troppo lontano, esplorato territori da cui non si ritorna. [...] Accattone è un film gioioso. Johann Sebastian Bach non potrebbe corrispondere ad un eroe triste. Ma, decifrando questo significato tra gli altri, sottolineo l’aspetto visionario, l’aspetto sacro di un film che può offrire altre facce. Se Accattone vi sembrerà poco chiaro è perché questo film che sfiora il surrealismo è ancora un po’ neorealista, è perché tutta la luce di questa passione non ha potuto avere interamente ragione delle tenebre, è perché, infine, Accattone resta un film ambiguo, lacerato, dunque un’opera d’arte.

(Jean Collet, “Cahiers du Cinéma, n. 132, giugno 1962)




L’immagine tende al disegno finito e all’astrazione, soprattutto quando raggiunge il massimo di intensità drammatica e, conseguentemente, di significazione (è d’altronde allora che meglio si manifestano i riferimenti culturali). Pasolini ricorre volentieri a effetti di controluce che accentuano lo scollamento del personaggio e dello scenario e lo circondano di una luce che, riferendosi al codice pittorico e culturale, gli conferisce una dimensione sacra. Si attua così una trasgressione fondamentale col metodo della “sacralità tecnica” (l’espressione è di Pasolini): personaggi e gesti di una certa banalità, al limite del sordido, sono sacralizzati da effetti di stile che gli sono esterni. Tutta una mitologia viene così a innestarsi sull’universo quotidiano conferendogli un’altra dimensione.

(Joël Magny, “Études cinématographiques”, n. 109-111, 1977)