Rassegna stampa

I francesi lo definirebbero un film jubilatoire, che mette allegria e gioia. Noi italiani possiamo aggiungere radioso, etereo, brioso, esultante. […] Non è solo un film, un bel film, ma anche una specie di esperienza totale, psicologica e mentale, capace di trasmetterti quella gioia e quell’allegria che animano il film e i loro due autori e interpreti, la regista Agnès Varda e il fotografo JR. La trama è riassunta perfettamente nel titolo: volti e villaggi. Curiosi l’uno dell’altra, JR e Agnès Varda hanno deciso di mettersi in viaggio per la Francia e cercare persone e situazioni da riprendere e fotografare con la tecnica che ha reso celebre il fotografo franco-tunisino: riproduzioni ingigantite di uomini e donne da incollare sui muri. Una pratica che JR ha sperimentato in giro per il mondo, anche in Italia, a Napoli, sui marciapiedi della passeggiata a mare, ma che con gli interventi della Varda guadagna un più di senso, perché iscritto in una più coerente riflessione sul rapporto tra l’immagine e la sua fruizione, tra la persona e l’ambiente, tra l’arte e i luoghi dove può essere esposta. Oltre che un più di divertimento, visto che il senso più profondo del film va cercato proprio nel legame che unisce due persone così distanti e che le fa vicendevolmente reagire. […] È l’esprit de liberté che i registi della Nouvelle Vague avevano teorizzato e messo in pratica e da cui lei, antesignana di quella rivoluzione, si era fatta guidare per i suoi film […]. E che qui si ritrova nella libertà con cui organizzano (o meglio: disorganizzano) il loro viaggio per la Francia: vanno in un villaggio di minatori vicino allo spopolamento, in una fabbrica che lavora il sale, in una cittadina del Sud e tra i resti di un bunker della Seconda guerra mondiale, a conoscere i lavoratori del porto di Le Havre e le loro mogli o su un treno merci. Senza una logica che non sia quella del caso e della curiosità, della voglia di incontrare persone nuove, di visitare la tomba di un amico (Henri Cartier-Bresson, commovente per semplicità) o di ritrovare luoghi del passato (come la Normandia dei primi lavori fotografici della Varda). Insieme a una bella dose di ironia, di leggerezza e di divertimento. A sorprendere, oltre la vitalità e la grazia di una regista che ha mantenuto lo spirito dei suoi vent’anni, è però la lezione di cinema che emerge a ogni scena: Visages villages non è un documentario, non sono fogli di diario, non è una finzione, è tutto questo e molto di più ancora perché a ogni scena ti sembra di entrare in un film nuovo, a seconda di quello che il mondo che incontrano i due autori propone loro.

(Paolo Mereghetti, “Corriere della Sera”, 12 marzo 2018)




In Visages villages la forma del road movie permette di portare l’arte di JR fuori dai musei (come è quasi sempre stata la sua produzione) e di interagire con una Francia profonda che nulla ha a che fare con i consumi eruditi e raffinati delle classi istruite urbane. E l’incontro, tra alti e bassi, riesce. Riesce grazie al fatto che ruota intorno alle espressioni ai volti, all'identità delle persone, e alla grandezza delle immagini. Ed ecco che rientra il cinema, con il suo linguaggio e la sua storia. La prima grande rivoluzione culturale e percettiva del Novecento è stata conquistata grazie al primo piano, figura stilistica in grado di suscitare le riflessioni di teorici e filosofi (da Béla Balasz a Gilles Deleuze) per come ha permesso di trovare un paesaggio in un volto, e tutto l'atlante delle emozioni umane in una ruga o in uno sguardo. Tornando al ritratto fotografico ma esagerandone le forme, è come se Varda e JR stessero ricreando lo sperdimento emotivo e sentimentale del primo piano: un linguaggio e un gesto artistico perfettamente comprensibile da tutti, senza faticose astrazioni autoriali da cui il destinatario si sente spesso distante ed estraneo.

(Roy Menarini, “MyMovies”, 17 marzo 2018)




Visages villages
è un film on the road e al tempo stesso un film che interroga il movimento, il falso movimento del cinema mettendolo alla berlina. Il viaggio, in cui i due registi passano di villaggio in villaggio alla ricerca di volti da fotografare e incollare in enormi gigantografie sui muri delle case o delle fabbriche via via incontrati nel corso dell’itinerario, si rivela ben presto una sorta di controcampo alle immagini godardiane di Bande à part. Ciò che nel film di Godard è l’affermazione di un cinema che malgrado tutto attesta la propria vitalità, nel lavoro di Varda e JR diventa la ricerca delle tracce di quell’euforia nei luoghi e nei territori che il cinema non cessa di attraversare. […] Ma tracce di cosa? Di un modo di pensare e fare cinema, capace di respirare l’euforia vitale del mondo. È questo che commuove nel film: la ricerca incessante, nonostante tutto. Ma proprio perché incessante, proprio perché si tratta di ritrovare le tracce contemporanee della vitalità del cinema (e di ogni immagine), il viaggio è frammentato, il montaggio frenetico, i salti evidenti. Ci si sofferma brevemente in ogni villaggio, si incontrano persone, si dialoga brevemente con loro, si osserva la costruzione dell’opera e le reazioni degli abitanti, che si ritrovano spesso ritratti sui muri dei loro villaggi. Ed ecco dei bambini giocare con quelle immagini, una donna commuoversi, un operaio mostrare la propria gioiosa sorpresa. Le prime tracce appaiono, si palesano come la capacità del cinema di cogliere i dettagli della vita, l’attenzione dello sguardo, il gesto che contiene il senso.

(Daniele Dottorini, “Fata Morgana Web”, 26 marzo 2018)




Ha ottantotto anni e fa film come se ne avesse ventotto. Non sono i film di una persona anziana ma l’opposto. Sono tonificanti, solo a guardarli ci si sente più giovani. Il suo ultimo, Visages Villages, è un altro documentario nomade e personalissimo realizzato nello spirito cinematografico umano e generoso di Les Glaneurs et la glaneuse (2000) e Les Plages d’Agnès (2008). Agnès Varda, nello splendore dei suoi anni d’oro, è diventata una maga umanista.
Qui fa squadra con JR, street photographer che deve la sua reputazione ai giganteschi graffiti urbani e potrebbe essere definito un equivalente gallico di Banksy. JR e Varda si sono incontrati nel 2015 riconoscendosi subito come spiriti affini malgrado le enormi differenze che li separano: lui è un hipster beffardo e sovranamente flemmatico di trentatré anni con l’immancabile cappellino e gli occhiali da sole, lei è una leggenda della nouvelle vague, caschetto di capelli bicolore e un volto che conserva la splendida gravità che l’ha sempre contraddistinta. Ma entrambi sono outsider dell’arte, interessati a esprimere visivamente la vita seguendo le proprie regole. “Il caso è sempre stato il mio migliore aiutante” dice Varda, e non sta scherzando. In questo film lascia praticamente tutto al caso.
Varda e JR, che collaborano alla regia, si mettono in viaggio con un unico liberatorio obiettivo: in ciascun luogo visitato JR creerà giganteschi ritratti in bianco e nero degli abitanti che andranno a ricoprire case, fienili, facciate di negozi, ogni superficie libera. Così facendo, doneranno grandezza a quelle persone. Non una grandezza da supereroi, ma una grandezza umana, da persone in carne e ossa quali sono.
[…] I due conoscono (e fotografano) operai, formaggiai, camionisti. È una ricognizione della Francia rurale, e le immagini che affiorano sono giocose, spettrali e belle e commoventi: Andy Warhol incrocia Walker Evans. […]
Visages Villages
lancia un potente messaggio sul tipo di società che stiamo diventando, nella quale l’uno per cento non solo possiede troppo di tutto, ma accentra su di sé anche tutta l’attenzione. La nostra dipendenza dalla ricchezza e dalla celebrità ha iniziato a svuotare il valore della vita normale, e il film dà una sublime strigliata a questo atteggiamento.

(Owen Gleiberman, “Variety”, 23 maggio 2017)ù




La meravigliosa libertà di Agnès Varda! La sua sincerità commovente. La leggerezza e l’allegria con cui fa cinema, e poesia, e memoria. Qui la questione non è mettere in scena una storia o un’idea, non si tratta di trasformare in film un soggetto, un progetto, una qualche morale o messaggio all’umanità. Il cinema ormai aderisce al suo corpo e ai suoi pensieri, sembra nascere mentre lo guardiamo (lo viviamo insieme a lei), è un’invenzione continua, che crea le sue regole in corso d’opera, reinventandosi instancabilmente, lasciandosi andare alla deriva delle digressioni (è un film che si diverte a smentire se stesso).
Stavolta si parte dall’incontro con l’artista JR, “fotografo di strada”, autore di gigantesche immagini che diventano murales. E il cinema-diario della Varda, che è vivo, vitale, mobile, malleabile, si lascia contaminare, dialogando (alla pari) con la sua arte e il suo strumento prediletto (d’altra parte lui è un fotografo che ha fatto anche un film e lei è una cineasta che ama la fotografia). Ed ecco un viaggio attraverso la Francia, utilizzando un camion che è un occhio che guarda, una macchina fotografica con le ruote (sviluppa gigantografie partorite da una fessura sul fianco). Ed ecco una nuova occasione per incontrare luoghi e storie, per testimoniare la vita semplice di persone e comunità che resistono.
Tutto comincia da una chitarra da accordare, perché questo cinema informale nasce così, direttamente sulla scena, mentre si fa cinema. Da un elenco infinito di nomi e cognomi, persone che bisogna ringraziare, perché il film esiste grazie a loro, non sono solo un pretesto per fare un film. Da disegni animati che evocano lo spirito felicemente infantile di Agnès, l’anima giovane di questa signora di 88 anni, che ha la curiosità e l’energia di una ragazzina, e del suo compagno di giochi 34enne. La musica all’inizio è quasi un carillon, poi diventa un folk-blues in onore del road movie agreste e proletario, per arrivare a una melodia malinconica, quando alla fine del viaggio si evoca la fine di ogni cosa (la morte) e il corto circuito di vita e cinema ci porta fino alla casa di Godard (aprirà o non aprirà all’amica venuta a incontrarlo e coinvolgerlo nel suo film?).
In questo film nomade, rapsodico, pieno di immaginazione, capita di commuoversi fino alle lacrime, insieme alla signora che non vuole abbandonare la sua casa, dentro l’epopea dei minatori nel nord della Francia. Capita di ballare e di cantare, di ridere insieme ai due amici artisti che si prendono in giro e si vogliono bene. Capita di rimanere ammirati dal modo in cui dialogano luoghi, volti, fotografie.
Siamo dalle parti del magnifico Les Plages d’Agnès, dentro quella grazia e tenerezza. Di fronte a questo cinema, tutto il resto diventa improvvisamente grigio, arido, artificiale.

(Fabrizio Tassi, "Cineforum", 20 maggio 2017)





Agnès Varda e JR hanno in alcuni punti in comune: la passione e la messa in discussione delle immagini in generale e più specificamente sui luoghi e sui dispositivi per mostrarle, condividerle ed esporle. Agnès ha scelto il cinema. JR ha scelto di creare delle gallerie fotografiche all'aperto. Quando Agnès e JR si sono incontrati nel 2015, hanno subito deciso di lavorare insieme per fare un film in Francia, lontano dalle città, attraverso un viaggio a bordo del camion fotografico (e magico) di JR, portando a termine una serie di progetti, a volte casuali a volte già preparati. Ma il film racconta anche la storia della loro amicizia, cresciuta durante le riprese, tra le sorprese e le prese in giro, ridendo delle loro differenze.
Agnès Varda pronuncia un'utile dichiarazione di principio: «Il caso è sempre stato il mio miglior assistente». Dichiarazione vera, pur se incompleta. Vera perché Agnès Varda si è sempre messa en route in compagnia del caso: portandosi, però, dietro ogni volta un'idea generale di come do­vesse essere il film da costruire in compagnia del caso. Così, ogni progetto si è sviluppato lungo delle linee portanti e, dentro al progetto, si è lasciato spazio alle intrusioni, ben accette, del caso.
Anche Visages Villages ha una struttura definita dove si incontrano le emersioni del caso. Il disegno del film è la perlustrazione di una regione dello Francia, con lei, Varda in compagnia di un fotografo che si chiama JR. Agnès ha ottantanove anni ed è la stessa che conosciamo di persona da decenni nei suoi lavori di peregrinazioni e ricordi. Veste sgargiante, si muove con disinvoltura, è curiosa, incontra gente, prepara scene: porta i capelli bicolori, biancogrigi con una corona marrone. JR è conosciuto per la scelta di stampare le foto delle persone in grandi dimensioni. Agnès eJR viaggiano per cittadine, paesi, fattorie isolate ed è il caso a farli incontrare con le persone da fotografare, ingrandire e incollare. Si muovono su un camperino con la carrozzeria decorata come fosse una grande macchina fotografica, con all'interno gli strumenti per ingrandire le foto che escono già molto grandi da un'apposita fessura. Il camioncino si trasforma agli occhi dei fotografati in apparecchio magico, fantastico luogo di ingigantimento dei corpi.
N ella prima delle soste, la coppia arriva in un paese dove la strada abitata un tempo dai minatori è deserta, le case vuote, è rimasta solo una signora a viverci. La fotografano, le incollano il megaritratto sulla facciata di casa, la fanno uscire
e lei resta stupita a guardarsi sul muro. Succede a ogni tappa: si fa la foto, la si ingrandisce, la si incolla come a voler dichiarare l'ammirazione per la persona che si è incontrata per caso e si è rive-lata straordinaria come non aveva mai pensato di essere. Dice Agnès: «La memoria è come la sabbia nella mia mano», scappa via tra le dita, si perde. Visage Villages fissa la memoria e la conserva su un muro. Qualche volta, pazienza, la cosa non riesce: incollano la foto di un vecchio amico scomparso su un blocco di cemento di un bunker tedesco caduto dalla scogliera sulla spiaggia e la marea si porta via il ritratto. Un'altra volta – ed è l'ultima tappa – vanno a trovare in Svizzera Jean-Luc Godard, un tempo amico di Agnès e di Jacques Demy, lui non si fa trovare, lascia soltanto una frase cattiva scritta sul vetro dell'entrata e fa piangere Agnès.
Al contrario, il film è sempre affettuoso con minatori, operai, contadini, camionisti, con i lavoratori portuali e le loro mogli sistemate su un colossale muro di container. E allegro, anche malinconico, soprattutto è onesto con quel filo di furbizia che Agnès Varda sa mettere in circolo tra lei, noi e il film. Agnès ha gli occhi malandati: vede meglio se i volti sono giganteschi come, su tutta la facciata del granaio, il ritrattone del contadino del trattore digitale, come le foto degli allevatori di capre che non tagliano le corna ai loro animali. Dice tante cose il film. Una, soprattutto: che non serve per fare un bel film mettere giù il muso, essere supponenti, fare prediche. Basta andare in giro, vedere villaggi e volti e saperli ingrandire. Il cinema allarga la vita.

(Bruno Fornara, "Cineforum", n. 566, settembre 2017)




Film a quattro mani, quattro piedi e quattro occhi, nel corso del viaggio sarà sovente questione di sguardi, Visages, Villages è un documentario che reinventa il road movie, infilando strade oblique e misurando la Francia contemporanea. Visages, Villages è al principio la storia di un incontro tra Agnès Varda, autrice di Cléo, e JR, street photographer tenacemente indipendente che deve la sua reputazione ai collage giganteschi che incolla nel cuore delle metropoli, lontano dai musei di arte contemporanea. Franchi tiratori di generazioni differenti ma uniti dalla stessa passione per l'avventura creatrice fuori norma, dalla loro amicizia nasce l'idea di fare un film insieme. L'idea di un viaggio attraverso la Francia rurale perché la campagna offre una grande varietà di paesaggi, un rapporto diretto con la natura e l'ambiente, un territorio nuovo per JR, considerato artista urbano, un ritorno alle origini per Agnès Varda, inclassificabile patriarca della Nouvelle Vague.
Dalle spiagge 'storiche' della Normandia ai dock di Le Havre, dai villaggi della Provenza passando per le regioni agricole, i nostri partono alla scoperta della vrais gens, componendo una galleria generosa e nostalgica di volti, interrogando principalmente il mondo operaio e contadino, quello che resta, quello che cambia, quello che scompare.
Pas de deux
attraverso lo spazio che diventa viaggio nel tempo, Agnès e JR procedono per giustapposizioni, giochi di parole e motti di spirito, installazioni che stabiliscono un legame tra tradizione e modernità, memoria pastorale e proletaria e realtà quotidiana. Le discussioni e i rispettivi gesti artistici risvegliano lo spirito dei luoghi, evocano storie familiari con vibranti omaggi ai vivi e ai morti, riuniti dalla parola e dall'immagine. Avanzando a bordo di un cinétrain che scatta (e sviluppa) foto giganti, realizzano un film inventivo e sorprendente, libero e commovente.
Autori e attori con un differente ritmo di marcia e un diverso senso artistico dell'istantanea, Agnés e JR si interrogano sul senso del loro lavoro, sul valore delle immagini, della loro produzione, della loro democratizzazione. Di quelle immagini fanno un dono da offrire alle persone che incontrano, pellegrini anonimi, complici attivi, modelli e muse ispiratrici. E mentre JR fissa le sue grandi foto sui muri, sugli edifici, sui treni, sulle cisterne, sui container, Agnès, virtuosa del montaggio come Alain Resnais e Jean-Luc Godard, articola un film-collage di rime, sciarade verbali, immagini liriche.

(Marzia Gandolfi, "MyMovies", 22 maggio 2017)





Per più di un anno una strana coppia si è aggirata per la Francia profonda. Era il 2016. Li avvistavano in villaggi di poche decine di abitanti. Giravano su un camion tappezzato da un’enorme immagine di una macchina fotografica. Andavano via col vento, si fermavano dove volevano e invitavano la gente a entrare nel camion per farsi fotografare. Minatori, postini, operai, allevatori di capre, contadini solitari, ragazze innamorate, pronipoti nostalgici, scaricatori di porto, artisti di strada: tutta questa umanità ha posato davanti all’obbiettivo della strana coppia. Lei, Agnès Varda, allora 88 anni, 1 metro e 48 di altezza, la più grande regista della Nouvelle Vague. Lui, JR, allora 33 anni, 1 metro e 80, incollatore di fotografie gigantesche su palazzi, muri divisori, strade, monumenti, uno degli street artist più famosi al mondo. Da questi incontri, ma soprattutto dal loro, intimo e sorprendente, è nato un film, Visages villages, volti villaggi, che il 4 marzo si batterà per l’Oscar al miglior documentario, e che il 15 marzo uscirà in Italia distribuito dalla Cineteca di Bologna.
Impossibile incontrare JR. Per vari motivi, non ultimo il mistero che lo circonda: solo poco più esposto di Bansky o di Space Invader, l’artista francese non si toglie mai occhiali e cappello. Ma il vero problema è che non si ferma mai. Adesso la sua voce arriva dal sud della Francia, ma bisogna fare in fretta perché deve ripartire per New York dove l’8 marzo una sua monumentale fotografia inaugurerà l’Armory Show. “È una foto scattata all’inizio del 900 a Ellis Island” dice al telefono. “Sono immigrati dell’epoca ai quali ho sostituito i volti con quelli di immigrati di oggi. Siriani. Li ho fotografati nel campo di Zaatari, in Giordania”.
All’inizio di Visages villages, con Agnès Varda decidete di fare “immagini insieme, ma in un altro modo”. Chi decideva come? “Abbiamo fatto tutto insieme. Senza sceneggiatura. Partivamo appena avevamo una giornata libera. Trovavamo un villaggio e lì una storia, sempre. Tutto accadeva per caso”. “Il caso è sempre stato il migliore dei miei assistenti” dice Varda nel film. A parte essere una leggenda del cinema, e la moglie di Jacques Demy, altro grande regista francese, Agnès Varda ha la fama di persona non facile. “È dura, ma non difficile. All’inizio ho dovuto trovare il mio posto. Ma per il solo fatto che, per la prima volta, lei avesse accettato di lavorare con qualcuno già partivo avvantaggiato”. Oltre a curiosità e amore per l’umanità, che cosa avevate in comune? “Mi pare già abbastanza! Aggiungerei che nessuno dei due ha mai lavorato con uno sponsor, nella pubblicità. Lavoriamo entrambi con grande semplicità, e con modestia”.
Visages villages apre e chiude su Jean-Luc Godard. Durante il film Varda provoca JR perché si tolga gli occhiali. All’inizio gli dice che le ricorda Godard, anche lui sempre in incognito dietro a lenti scure. E alla fine i due vanno a trovare Godard a casa sua. Ma lui non aprirà. Sul vetro della porta ha lasciato due frasi: “À la Ville de Douarnenez / Du côté de la côte”. La prima frase è il nome di un ristorante di Montparnasse nel quale andavano Varda, Remy e Godard negli anni Sessanta; la seconda è il titolo di un film di Varda. L’assenza la mortifica. “Ha pianto. Non ha subito capito perché Godard le avesse fatto fare un viaggio a vuoto” dice JR, che in quell’occasione ha imparato un capitolo di storia del cinema. “Le ho detto: voleva farti del male o sfidare la struttura narrativa del nostro film? Si è tranquillizzata. Abbiamo guardato in silenzio il lago Lemano”. Il 5 febbraio, per l’incontro tra i candidati all’Oscar, lei ha portato a Los Angeles una foto cartonata di Varda. Il 4 marzo avverrà il contrario? “No, questa volta andremo insieme”.

(Laura Putti, "La Repubblica", 3 marzo 2018)




Il viaggio on the road di Agnès Varda e dello street artist JR è come il pennello disneyano che passa su paesaggi spenti e li anima di luci e colori, dalla Provenza alle spiagge della Normandia, dai campi di grano al bunker tedesco rovesciato sulla sabbia e cambiato di segno grazie all’immagine incollata di Guy Bourdin, celebre fotografo di moda, modello e amico della regista di Cleo dalle 5 alle 7. Una coppia stramba si aggira per le campagne francesi: lei mito della nouvelle vague, con un caschetto di capelli bicolori, lui giovane e bello, già icona di se stesso, cappello e occhiali neri alla Godard. Vietato toglierli, o solo per un attimo, il tempo di sostituirsi a JLG (Jean-Luc Godard) e di consolare Agnès davanti alla porta chiusa dello scorbutico svizzero. La sfocatura dello sguardo non è solo per l’età, la sovrimpressione di immagini è un atto creativo come il film documentario firmato dai due artisti fotografi, gesto futuribile, happening clamoroso che attraversa i villaggi, rovine della memoria, e i porti dove si accatastano le merci, e dove Agnès e JR cambiano connotati al paesaggio, un po’ come fanno Christo e Jeanne-Claude, campioni della Land Art. Nel furgoncino dall’aspetto di un’enorme macchina fotografica si sfornano gigantografie degli abitanti di casolari e cascine, silhouette in bianco e nero che JR e la troupe incollano sulle facciate su indicazione di Varda. Così che l’unica resistente alla distruzione di una casetta in mattoni rossi, alla maniera di Up, domina adesso l’intero villaggio-fantasma di ex minatori. E una capra, anche lei contro la logica del profitto, inalbera le sue corna, che gli allevatori bruciano per evitare conflitti, sulla parete dell’ovile. Agricoltori solitari, cameriere, intere famiglie, operai, scaricatori di porto e mogli invisibili tracciano il percorso, improvvisamente famosi, tempestati di altri scatti fotografici di curiosi e turisti, simulacri che il mare e la pioggia cancelleranno ma che il cinema conserva. Fuori concorso al festival di Cannes 2017, candidato all’Oscar per il miglior documentario, Visages villages è distribuito dalla Cineteca di Bologna, forse perché è carico di altri “collage” oltre a quelli impressi sui muri, una forma di materializzazione del cinema, fotogrammi di carta e colla che si intrecciano con gli omaggi viventi di Agnès in corsa su una sedia a rotelle spinta da JR lungo i saloni del Louvre, a ricordare Bande à part. Jacques Demy, Alain Resnais, Anna Karina e i nomi della stagione dei “Cahiers” aleggiano nel cielo di Francia, scortati dalla signora e dal ragazzo che hanno in comune lo sguardo, occhi spalancati e appiccicati a una cisterna in partenza su un treno merci che andrà chissà dove. Gli stessi occhi scuri che tappezzano il confine Messico-Stati Uniti, istallazione di JR a cavallo del Muro e apparecchiata per un gigantesco picnic d’amore. E così che, tra scherzi, bisticci e punzecchiature esilaranti, il duo continua il suo viaggio con l’espressione del dreamer fino ai dock di Le Havre, un altro confine invalicabile, ma non certo per i visionari.

(Mariuccia Ciotta, "FilmTV", n. 11, 13 marzo 2018)