Antologia critica

Antologia critica

La scoperta del romanzo semi-autobiografico dell’ex critico scozzese Gilbert Adair, The Holy Innocents, offre a Bertolucci l’opportunità di riciclare almeno in parte il progetto di dare un ideale seguito a Novecento, centrato, appunto, sulla generazione del ’68. Più che altro però The Dreamers appare una specie di eco nostalgico dei tempi di Partner e di Ultimo tango, girato anch’esso, appunto, nella capitale francese. Non c’è da stupirsi comunque che il film, scritto a quattro mani da cinefili impenitenti quali Bertolucci e Adair, voglia essere pure un omaggio a tutta la nouvelle vague, da I 400 colpi di Truffaut a Fino all’ultimo respiro, Bande à part e La cinese di Godard, attraverso Jules e Jim e Il cugino di Chabrol, o ancora Les Enfants terribles di Melville (scritto da Cocteau) e Gioventù bruciata di Nicholas Ray…
Fabien S. Gerard, bernardobertolucci.org


Nei Dreamers non c’è il Progetto rivoluzionario, non c’è l’unità operai-studenti, non c’è l’internazionalismo contro il Capitale. C’è il momento aurorale appunto, in cui tutto questo è ancora a venire, e una più grande ‘pulsione visionaria utopica’ lo rende possibile, pensabile, fattibile. Corpo, politica, cinema, musica, sessualità, filosofia: erano questi gli ingredienti di quel ‘focolaio magico’ che preparò l’esplosione del Sessantotto nella vita pubblica come in quella privata. Desiderio erotico, desiderio di sapere, desiderio di esistenza unita. Personale e politico indissolubilmente legati nel sogno della rivoluzione di tutto. Altro che fallimento, polemizza Bertolucci con la sua stessa generazione che non riesce a restituire quel focolaio magico ai figli e ai nipoti: “da allora niente è stato più come prima, non c’è diritto rivendicabile oggi che non sia piantato nella libertà che ci prendemmo, senza che nessuno ce la desse, allora”.
Ida Dominijanni, “il manifesto”, 2 settembre 2003


Senza nostalgia né infatuazione, un uomo – Bertolucci – esamina il proprio passato ma non ci affonda dentro per lealtà verso una versione giovanile di se stesso. Edith Piaf conclude la storia cantando Je ne regrette rien, ma si potrebbe altrettanto canticchiare un’aria di Trenet: “Fidèle, fidèle, je suis resté fidèle…” Sul metro di questa perennità, è significativo che due dei tre eccellenti interpreti siano Louis Garrel, figlio del regista Philippe e nipote dell’attore Maurice, ed Eva Green, figlia di Marlène Jobert e di William Green, che recitò in Au hasard, Balthazar per Bresson. Quanto a Michael Pitt, è tutta la dinastia dei grandi americani che ribolle in lui, per primo Brando.
Quando si ama la vita non si va al cinema, sembra dire il film. Ma per fortuna è molto meglio di questo: vivere la propria vita significa, per dirla con Cartesio, dubitarne, poiché non ci sono indizi concludenti dai quali è possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno. The Dreamers, manuale di vita non meno che sogno da svegli, pensa a noi. Il suo soggettivo mese di maggio è la nostra primavera prediletta.
Gérard Lefort, “Libération”, 9 dicembre 2003


“Ho sentito dire che si tratta del lavoro di un giovane regista promettente”, mi ha detto un collega critico poco prima della proiezione di The Dreamers. Scherzava, naturalmente, visto che il regista di The Dreamers è il sessantatreenne Bernardo Bertolucci. Ma come la maggior parte delle battute, l’osservazione conteneva un'intuizione. Proprio come il giovane Bertolucci, che ha girato Prima della rivoluzione quand’era ancora ventenne, spesso è sembrato più saggio rispetto agli anni che aveva, così il maestro Bertolucci si tuffa nella sua arte con un ardore spericolato che potrebbe facilmente essere scambiato per precocità.
Uno dei temi di The Dreamers, adattato da Gilbert Adair dal suo romanzo The Holy Innocents, è la passione e la follia della giovinezza: non solo la giovinezza come aspetto universale della condizione umana, ma la giovinezza a Parigi nella primavera del 1968, uno di quei momenti storici irripetibili in cui, per citare Wordsworth, “essere giovani era davvero un paradiso”. […]
Incantevole e di dolcezza disarmante, The Dreamers fonde la scoperta sessuale con il tumulto politico per mezzo di un romanticismo inebriante […]. I tre protagonisti, ventenni innamorati del sesso, dei film, delle idee e l’uno dell'altro, si esprimono con una sincerità spudorata che sarebbe facile deridere o trattare con condiscendenza. […] La loro bellezza viene esaltata – scoperta – dalla tecnica visiva di Bertolucci, che conferisce ai suoi fotogrammi la compostezza e la luminosità dei dipinti di Ingrès o Caravaggio. (La loro lucentezza ombrosa e malinconica la si deve alla fotografia di Fabio Cianchetti). Non c’è forse nessun regista vivente che muova la macchina da presa con una grazia tanto raffinata ed espressiva. L'amore per il cinema non è solo il soggetto di The Dreamers, ma anche il suo metodo.
A.O. Scott, “The New York Times”, 6 febbraio 2004


The Dreamers di Bernardo Bertolucci è una storia del cinema che non è mai esistita e che pure ci ri-guarda. Con la forza, la violenza e la commozione di un’epifania Lumière. […] The Dreamers è un film come un anello di fumo, che si disfa inseguendo altre forme, altri sogni, mentre t’innamori osservandolo vivere (morire...) sullo schermo nel suo darsi alla luce.
C’è tutto Jean Cocteau nel film di Bernardo Bertolucci. “I ragazzi terribili” che nelle mani di Bertolucci alludono già ai wild boys burroughsiani. Ma non solo. The Dreamers, nel corpo del nero diamante Louis Garrel, si apre sensuale sino allo squarcio della cicatrice interiore del padre Philippe, un magistero dell’arte, resistenziale, che conserva, e senz’altro sperpera, il sacramento laico della bellezza (anche quella gioiosamente carnale di Eva Green, figlia di Marlène Jobert). […] Non meraviglia, dunque, che questo romanzo cortese, questa chanson de geste cinéphile, questa diseducazione sentimentale si offra, nelle sue esibite disgiunture storico-cronologiche, come lo Strade perdute bertolucciano. […]
The Dreamers è la cronaca, fedelissima, di una menzogna che si erge contro l’avanzata del mondo. È il miracolo, baudrillardiano, della sospensione della realtà e il tentativo, pienamente riuscito, di non sostituire a essa nessuna alternativa. Resta il vuoto. Un dolcissimo vuoto beante che ti scruta sin dentro le viscere accarezzando la pelle proprio come lo sguardo cerca di penetrare le immagini.
Un autentico miracolo di cinema. Un miracolo d’amore, The Dreamers, come se il monito nietzschiano di vivere ancora – lo si deve fare comunque – avesse trovato, per un inesplicabile magistero dell’arte, la sua formulazione più felice e struggente. Una dichiarazione d’amore quindi che, come ogni dichiarazione d’amore autentica, non può che essere fraintesa, irrisa.
Giona A. Nazzaro, “Filmcritica”, n. 528, settembre-ottobre 2003


Tra Ultimo tango a Parigi e The Dreamers, c’è qualcosa di più del fantasma di un ricordo: per ammissione dello stesso Bertolucci si tratta di due film speculari, e insieme di due film tenuti a distanza. Nello spazio: si è cercato accuratamente di evitare qualsiasi rimando geografico e iconografico tra le due città; nel tempo: non sono i trent’ anni passati nella vita reale a scavare un abisso siderale, ma i quattro che separano il 1968 dal 1972. Ultimo tango a Parigi e The Dreamers, come Théo e Isabelle sono “gemelli siamesi attaccati per il cervello”: sui loro corpi, cinematografici, si vedono un’infinità di tracce, indizi e segni, uguali a quello che i due ragazzi portano sul braccio: due piccole voglie rosa che potrebbero significare molto più di una somiglianza fraterna, e che rimandano alla cicatrice di una vecchia separazione.
Dietro a The Dreamers non c’è soltanto il romanzo di Gilbert Adair, al quale Bertolucci attinge a tratti letteralmente, calando interi dialoghi, intere pagine con cura calligrafica, ma che insieme tradisce e dimentica […]. Dietro a The Dreamers c’è anche Ultimo tango, che lo percorre come una sceneggiatura invisibile, come un passato-futuro che non vuole saperne di restare nel buio dell’oblio e della rimozione, e che vuole ritornare a tutti i costi. […]
Bertolucci fa dire ai suoi eroi giovani che “L’amore non esiste: esistono solo le prove d’amore”. Lo stesso può dirsi per il cinema: esistono solo prove d’amore per il cinema e prove di cinema. Le prove con le quali i tre ragazzi si testano e attraverso le quali scoprono la propria crudeltà e la propria sessualità, ponendo come penitenza (e premio) per un gioco di (ri)conoscenza del cinema, i loro corpi. Ed è quello che Bertolucci fa in The Dreamers: una prova d’amore ed una prova di cinema, rispetto ad Ultimo tango, rispetto al cinema che ha amato, rispetto al suo stesso cinema. La domanda In che film? che i tre si pongono ossessivamente, è insieme una lente e una schermatura rispetto alla vita: vedere la realtà attraverso la finzione, e vedere la finzione al posto della realtà. In che film?, dubitativo, enigmatico, interrogativo, al posto di Nella vita, sicuro e assertivo.
In che film Bertolucci vuole rivedere e schermare la storia? In Ultimo tango era il neorealismo, il cinema hollywoodiano del ‘corpo’ Marlon Brando, ma soprattutto era la nouvelle vague, il cinema del passato prossimo che nel racconto diventava il cinema del presente, film-da-farsi-nel-film […]. In The Dreamers il cinema del passato è l’attore principale, Keaton, la nouvelle vague e il musical si manifestano sullo schermo, reclamano una visione diretta, e le scene dei film vengono montate e intervallate con i loro remake ‘adolescenti’: Matthew, Théo e Isabelle non fanno cinema, ma lo rifanno.
Andrea Bellavita, Sognare ancora Parigi, “Segnocinema”, n. 124, dicembre 2005


Con The Dreamers il regista realizza uno dei film più poetici e dolorosamente sinceri sul cinema e la vita, sulla giovinezza e sul destino che incombe. Visionario, claustrofobico ma pieno di vie di fuga (le tante provocazioni, le continue citazioni cinefile), realistico fino a sfidare la matericità più esplicita (lo sperma, il sangue verginale o mestruale esibiti come materiali di scena), fantastico fino alla vertigine (le irruzioni dei ‘compagni di strada’: Greta Garbo e Fred Astaire, i freaks di Tod Browning e Bande à part di Godard, Charlot e Jimi Hendrix), il film si esibisce dentro un set labirintico pieno di corridoi, scale e stanze segrete, continuamente percorso e accarezzato dalla macchina da presa con una voracità insaziabile e ‘concupiscente’ (un aggettivo sempre amato da Bertolucci), con un tempo del racconto rivolto al passato (si parla di un'età e di una stagione politica da tempo alle spalle) ma che pure guarda al presente, cioè allo spettatore di oggi che quelle esperienze conosce e le segue come leggendole a memoria su un libretto d'opera.
The Dreamers è una storia di ragazzi ambientata nel Sessantotto, ma parla di adulti e di occasioni mancate. Anche se le manifestazioni di piazza, le assemblee infuocate all'università e nelle fabbriche, gli scontri, le barricate e le petizioni restano quasi sempre fuori dal film (se ne sente un'eco lontana dalle finestre lasciate aperte o da un televisore rimasto acceso dietro le vetrine di un negozio), The Dreamers è forse il film più politico e privato di Bertolucci, perché del Sessantotto coglie la forza eversiva del sogno e dell'utopia, la sola che non è stata tradita né sconfitta. Utopia e sogno, ovvero la materia prima dei film di Cocteau, Vigo, Welles. I sogni come forma di anarchia, libertà controllata, resistenza a oltranza, merce preziosa e ad alto rischio in epoche di profonde trasformazioni, e ancora di più in stagioni oscure e senza giustizia come quelle in cui ci è dato vivere.
Piero Spila, Il cinema di Bernardo Bertolucci, Gremese, Roma 2020