Tempo fuori luogo

Tempo fuori luogo

La struttura narrativa di Strade perdute, più che un cerchio, assomiglia a una spirale o a un nastro di Möbius che si attorciglia su se stesso.
David Lynch




L'autostrada del titolo è presente fisicamente nei titoli di testa e nelle ultime immagini del film: si tratta della semplice raffigurazione di questo nastro spazio-temporale che si chiude perpetuamente su se stesso, come un ‘nastro di Möbius’, immagine che il cinema, più di quanto abbia potuto fare prima di lui ogni altra arte, è adatto a rappresentare. Magnifici titoli di testa, del resto, in meravigliosa armonia con la canzone di David Bowie, I’m Deranged, e con la sua pulsazione frenetica e scordata, filmati da un macchina che avanza nella notte a rotta di collo, con la ‘linea gialla’ che si divide sotto le sue ruote, mentre i titoli inclinati, anche loro di colore giallo, si precipitano sullo spettatore, e si immobilizzano bruscamente come delle apparizioni in mezzo allo schermo, prima di fondersi su di noi e sparire. Ognuno dei titoli di testa di Lynch, da Dune in poi è associato a un tema ritmico, visivo e testuale ben preciso, dalla sabbia del pianeta Arrakis ai disturbi sullo schermo televisivo (Twin Peaks. Fuoco cammina con me), passando per le fiamme di Cuore selvaggio. Il punto comune di tutti questi titoli di testa è il loro carattere ipnotico e senza fine: sono, ognuno, una fetta di eternità. Ma, in questo caso, è di un movimento eterno, di una fuga senza via di uscita che si tratta.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)



La circolarità del film è ulteriormente ribadita dalla inquadratura conclusiva, identica a quella iniziale, che ci mostra una strada notturna percorsa ad alta velocità da una macchina coi fari accesi. […] Un’immagine divisa in due non solo per questa relazione di luce e ombra, ma anche per la linea di mezzeria, su cui la macchina corre rifiutandosi di stare da una parte o dall'altra, che separa lo spazio destro dell'inquadratura da quello sinistro. Ancora dunque un'immagine che gioca su un confine labile, un doppio confine, laddove due diversi ordini di realtà, quella conosciuta e quella sconosciuta, si sovrappongono sino a confondersi.
(Dario Tomasi, Il cerchio ambiguo. Strade perdute e il racconto fantastico, in David Lynch, “Garage”, Paravia, Torino 2000)



Strade perdute si inserisce – per caso secondo me – in tutta una serie recente di film che giocano con la temporalità, il caso, le scelte multiple: che si tratti di Pulp Fiction, della superba commedia di Harold Ramis, Ricomincio da capo, capolavoro del cinema che chiamiamo ‘auto-interattivo’, o dei due film di Alain Resnais Smoking/No smoking. Il film viene trascinato anche da questa ondata.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)




Seguendo le indicazioni dello stesso Lynch, questa anomala struttura narrativa è stata da più critici ricondotta al paradosso del celebre nastro di Möbius, una figura infinitamente percorribile che contraddice il principio delle superfici ordinarie, le quali presentano sempre due facce. L’anomalia topologica non consiste così in una paradossale struttura ciclica (coincidenza di ‘inizio’ e ‘fine’ del percorso). Piuttosto, ciò che viene mancare è la possibilità percettiva di scindere l’interno dall’esterno. Esiste infatti un solo bordo a partire dal quale è impossibile stabilire convenzionalmente un ‘dentro’ e un ‘fuori’ del nastro (da cui si deve la sua percorribilità infinita). In tal senso il nastro di Möbius non ci aiuta a spiegare il ‘ritorno al punto di partenza’ della struttura narrativa di Strade perdute, ma può forse offrirci una buona metafora per addentrarci nei dettagli della costruzione del film. Infatti, se decliniamo interno ed esterno (o se si preferisce ‘fuori’ e ‘dentro’) in ‘campo’ e ‘fuoricampo’ il paradosso della loro inscindibilità si impone sin dall’apertura del film con la doppia presenza di Fred (in campo) che riceve il messaggio da se stesso (la sua voce fuoricampo). Una dinamica del tutto simile si ripete nella sequenza della festa, durante la conversazione tra Fred e il Mistery Man. Quest’ultimo infatti si trova contemporaneamente di fronte a Fred e a casa del jazzista, come indubitabilmente ci dimostra l’allucinata conversazione telefonica che si svolge tra i due mentre sono uno di fronte all’altro. L’ubiquità manifesta del Mystery Man mette insomma in evidenza il meccanismo che, invece, nel caso del prologo si paleserà soltanto con la fine del film.
(Andrea Minuz, Strade perdute, in David Lynch, a cura di Paolo Bertetto, Marsilio, Venezia 2018)



La rappresentazione dello spazio e del tempo obbedisce all’originalità delle intuizioni lynchane, pur operando all’interno del cinema americano e del suo riconoscibile modello. Il ‘cronotopo’ – se ci si passa il termine desunto da Bachtin – del cinema hollywoodiano è presente nel cinema di questo autore come luogo mentale in cui proiettare continue distorsioni, praticare strade senza uscita, proporre logiche intransitive al racconto classicamente inteso. Lynch non appartiene certamente al cinema cosiddetto neoclassico e, d’altra parte, pur essendone un ispiratore, non si può nemmeno affermare che sia un regista postmoderno. L’innovazione sui concetti di spazio e tempo è pressoché impercettibile a un primo sguardo. […]
In pratica, possiamo affermare che il cinema di Lynch cerca di mettere in crisi il sistema spazio-temporale su cui si basano identificazione e credenza spettatoriale convenzionale, senza peraltro ricorrere continuamente a stilemi codificati di ‘annuncio’ del sogno o del fantastico. L’intera sua opera parrebbe il racconto di uno stato di dormiveglia, di chi non distingue facilmente il suo mondo, pur abitandolo mentalmente.
(Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002)




Circolarità apparente; circolarità infinita della narrazione, perdita del fulcro stesso di ogni linearità narrativa: l’identità stessa del protagonista. Ma se questo elemento è comune a ogni lettura del film, resta da mettere in luce l’esito di una tale operazione, che non può semplicemente risolversi nel gioco destrutturante di un cinema postmoderno. Sarebbe limitante – anche se non errato – dire che Lynch lavora sulle libere associazioni per costruire la struttura dei suoi film, come è stato anche detto, avallando dunque l’ipotesi che il suo cinema sia in qualche modo una resa in immagine di un mondo onirico, di un altro mondo che esiste a livello inconscio. […]
La struttura non-struttura del film introduce una dismisura, impedisce la chiusura organica del film e lo fa eccedere produttivamente, lo rende cioè infinitamente produttivo come una spirale aperta, mostrando come la strada perduta sia quella della connessione, del legame tra soggetti, corpi e spazi. Più che l’allusione ad una dimensione onirica, Lynch lavora sulle stratificazioni del reale, sulla consistenza ontologica dell’essere inteso come infinitamente produttivo e connesso. Ma la connessione, la complessità della struttura del reale è l’enigma da indagare, da cogliere anzitutto come percezione, attraverso il cinema, lo sguardo multifocale e mobile dell’occhio cinematografico, che permette di moltiplicare i punti di vista e di mostrare contemporaneamente diversi livelli di realtà, le loro connessioni e i loro percorsi.
(Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Recco-Genova 2004)