Robert Bresson

Robert Bresson

Robert Bresson, nato a Bromont-Lamothe, in Alvernia, nel 1907 e morto a Parigi nel 1999, ha diretto tredici film in quarant’anni (più un giovanile mediometraggio comico del 1934, perduto e ritrovato a metà anni Ottanta). L’esordio vero è negli anni Quaranta, nella Francia in guerra; Bresson ha fatto studi di filosofia, è segnato dai mesi di prigionia in un campo tedesco e nutre molteplici passioni letterarie. Ha subito chiaro che il cinema è scrittura: “Scrittura con immagini in movimento e suoni”, come scolpisce a lettere maiuscole nelle Notes sur le cinématographe, un tesoro di aforismi, idee, allusioni che comincia a comporre nel 1950 (uscirà nel 1975 presso Gallimard). La conversa di Belfort (1943) è la storia dell’incontro e della sfida tra una suora e una peccatrice nel chiuso di un convento, con dialoghi di Jean Giraudoux; Perfidia (1944) è un geometrico intrigo di vendetta femminile destinato allo scacco, ispirato a Diderot. Pur nella forma depurata, nella concentrazione degli spazi, nel vuoto scavato attorno agli oggetti e al loro significato, questi film sono appunto storia e intrigo, sono narrazione coesa; sono ancora cinema, insomma, e a Bresson il cinema non interessa. Il cinema è quello che fanno gli altri, e “la vera originalità consiste nel cercare di fare come gli altri, senza riuscirci mai”. A Bresson non interessa l’innovazione, gli interessa la rifondazione; non lo stile, ma il linguaggio. Non vuole fare cinema ma cinematografo, ovvero cinématographe. Un’ombra di snobismo, un sospetto di sofisma? La parola in francese ha un’eco che rimanda inequivocabile alle origini e a Lumière. “Il cinema attinge a un fondo comune. Il cinematografo è un viaggio d’esplorazione su un pianeta sconosciuto”.
Bresson si dispone all’esplorazione, con inesauribile energia intellettuale e la lucida percezione delle difficoltà pratiche da affrontare: finanziamenti scarsi, produttori diffidenti, affezione/disaffezione del pubblico. (“Il cinematografo, arte militare. Si prepara un film come una battaglia”). Per cominciare gli è compagno di strada un controverso e molto amato scrittore cattolico, Georges Bernanos, dal cui Diario di un curato di campagna Bresson trae nel 1950 il suo primo capolavoro, tutto sottrazione e passione (più ‘passione’ di quanta ce ne sarà nel successivo Processo a Giovanna d’Arco), una giovane tonaca nera nella Francia profonda, solitudine e dubbio, mani che scrivono esitanti o febbrili, anima e malattia e sangue e, da qualche parte, un anelito di trascendenza che il dolore tormenta ma non spegne. È un anelito, una possibilità, una scommessa, un “vento che soffia dove vuole” che Bresson ancora esplora, con il cinematografo, in Un condannato a morte è fuggito, 1956, il suo film resistenziale; e in Pickpocket, 1959, frammenti di vita di uno dei suoi balordi senza causa, frammenti che trascendono il caso e si compongono in destino (“Oh Jeanne, quale strano cammino ho dovuto percorrere per giungere fino a te”: interpellazione/snodo di tutto il cinema di Bresson, e anche la sua più audace concessione al lirismo, contratta però in qualcosa che sembra nera ironia: sono parole pronunciate dal parlatorio di un carcere da cui non si uscirà più).
Il destino, d’ora in poi, si chiuderà in modo sempre più inappellabile intorno ai personaggi di Bresson. Dopo il suicidio che conclude Mouchette, si apriranno con un suicidio Così bella così dolce (1969, esplorazione retrospettiva d’una dissoluzione coniugale) e Il diavolo, probabilmente (1977, esplorazione retrospettiva d’una dissoluzione di famiglia, società e politica); L’argent, 1983, è come si fermasse immobile su una soglia, a contemplare il mondo completamente corroso dal male che ora prende la forma d’una banconota falsa e della sua distruttiva circolazione. Sembra l’immagine al nero delle tante peripezie morali, ilari o ciniche, con cui il cinema ha inseguito biglietti di banca o di lotterie vincenti (Clair, Sturges, Scorsese…). Il cinema, appunto. Il cinématographe, giunto al suo esito più radicale, si limita a “mettere in ordine” immagini dove la natura maligna del denaro incrocia la natura maligna del caso. Fine di ogni storia. Fine della Storia.
Banconote. Mani che scivolano abili nelle tasche dei borseggiati (Pickpocket). Mani sempre più deboli che reggono una penna (il Diario). Un cucchiaio, una molla (Un condannato). Rumori, echi, silenzio (“Il cinema sonoro ha inventato il silenzio”). Nessun realismo, naturalismo, scansione narrativa, nessuna rappresentazione. Il cinema/cinematografo persegue un’altra possibilità. Gli oggetti e il dettaglio sono i suoi strumenti (“un film di oggetti e un film sull’anima, cioè cogliere questa attraverso quelli”; e con un tocco di leggerezza, se così si può dire: “è attraverso gli oggetti, più che attraverso la recitazione degli attori, che un mondo è portato a esistere. Bisognerebbe citarli nei titoli di testa”).
Il cinema di Bresson è in sé un oggetto enigmatico. È dominato fin dall’inizio da un’urgenza teorica che non deflette mai, che negli anni si affina, si ostina, si fa blocco. Richiede una disposizione intellettuale e antisentimentale (cioè, al cinema: innaturale). Non permette di accomodarsi nella dolcezza di un’immagine, mai. Ma allo stesso tempo, in mille nervature segrete, è anche capace di produrre una risonanza emotiva che non avevamo previsto, che ci coglie impreparati, e perciò tanto più profondamente scava. Concretezza, trascendenza, crudeltà, condizione umana? “Se solo mia madre mi vedesse”, chiude Un condannato a morte è fuggito. Una Note: “Non correre dietro alla poesia. S’infila da sola nelle giunture”. Le mystère Bresson.

Paola Cristalli