Metropolis visto da Buñuel

Metropolis visto da Buñuel

Metropolis non è un film unico: sono due film uniti per il ventre, ma con necessità spirituali divergenti, assolutamente antagonistiche. Quelli che considerano il cinema in quanto valido narratore di storie, patiranno con Metropolis una profonda delusione. Ciò che lì ci viene narrato è triviale, ampolloso, pedantesco, di un vieto romanticismo. Ma se all'aneddoto preferiamo lo sfondo plastico- fotogenico del film, allora Metropolis colmerà tutte le misure, ci stupirà come il più meraviglioso libro d'immagini che sia mai sta­to composto. Presenta, dunque, due elementi antitetici, de­tentori dello stesso segno nelle zone della nostra sensibilità. Il primo, che potremmo chiamare lirico-puro, è eccellente; l'altro, l'aneddotico o umano, finisce per essere irritante. Entrambi, ora simultaneamente, ora in successione, com­pongono l'ultima creazione di Fritz Lang. Non è la prima volta che notiamo un dualismo così sconcertante nelle ope­re di Lang. Esempio: nell'ineffabile poema Destino erano state interpolate delle scene disastrose, di un raffinato cat­tivo gusto. Se a Fritz Lang tocca il ruolo di complice, è sua moglie, la sceneggiatrice Thea von Harbou, che denuncia­mo come presunta autrice di questi esperimenti eclettici, di un pericoloso sincretismo.
Il film, come la cattedrale, doveva essere anonimo. Gente di ogni ordine, artisti d'ogni grado sono intervenuti per in­nalzare questa formidabile cattedrale del cinema moderno. Tutte le industrie, tutti gli ingegneri, folle, attori, addetti alle scene; Karl Freund, l'asso degli operatori tedeschi, con una pleiade di colleghi; scultori; (...). Lo scenografo, ulti­mo vestigio che il cinema ha ereditato dal teatro, qui interviene appena. Lo si indovina nelle parti peggiori di Metropolis, in quelli che vengono enfaticamente chiamati "giardini eterni", di un barocchismo delirante, di un catti­vo gusto senza precedenti. Ormai lo scenografo sarà sosti­tuito, per sempre, dall'architetto. Il cinema sarà l'interprete fedele dei più audaci sogni dell'Architettura.
L'orologio, in Metropolis, non ha che dieci ore: quelle del lavoro; e in questo ritmo a due tempi si muove la vita della città intera. Gli uomini liberi di Metropolis tiranneggiano i servi, Nibelunghi della città, che lavorano in un eterno gior­no elettrico, nelle profondità della terra. Nel semplice in­granaggio della Repubblica, manca soltanto il cuore, il sentimento capace di conciliare degli estremi così incom­patibili. E nel finale vedremo il figlio del direttore (cuore) unire in un abbraccio fraterno suo padre (cervello) con il capo-fabbrica (braccio). Si mescolino questi ingredienti sim­bolici con una buona dose di scene terrificanti, con una re­citazione smisurata e teatrale, si agiti bene il composto ed avremo ottenuto l'argomento di Metropolis.
Eppure... che travolgente sinfonia del movimento! Come cantano le macchine in mezzo a incredibili trasparenze, ar­cotrionfate dalle scariche elettriche! Tutte le cristallerie del mondo romanticamente dissolte in riflessi riuscirono ad an­nidarsi nel canone moderno dello schermo. Ogni acerrimo guizzo degli acciai, la ritmica successione di ruote, di pi­stoni, di forme meccaniche increate, sono un'ode mirabi­le, una poesia nuovissima per i nostri occhi. La Fisica e la Chimica si trasformano miracolosamente in Ritmica. Non un momento di stasi. Perfino le insegne, che salgono e scen­dono girovaghe, poi dissolte in luci o svanite in ombre, si uniscono al movimento generale: anch'esse si fanno im­magine.
A nostro giudizio, il difetto del film sta nel fatto che il re­gista non ha seguito l'idea realizzata da Ejzenstejn nel suo Potemkin: vale a dire che non ci ha presentato quell'attore unico, eppure pieno di novità, di possibilità, che è la folla. L'argomento di Metropolis vi si prestava. Ci siamo sorbi­ti, invece, una serie di personaggi devastati da passioni ar­bitrarie e volgari, carichi di un simbolismo a cui non corrispondevano neppur lontanamente. Con ciò non si vuol dire che in Metropolis non ci siano folle; ma sembra, però, che rispondano a una necessità decorativa, di balletto gi­gantesco; esse vogliono ammaliarci con le loro stupende ed equilibrate evoluzioni piuttosto che farci capire la loro ani­ma, la loro precisa ubbidienza a stimoli più umani, più oggettivi. Malgrado ciò ci sono dei momenti - Babele, rivoluzione operaia, inseguimento finale dell'androide - in cui si realizzano perfettamente le due opposte istanze. Otto Hunte ci annichilisce con la sua colossale visione del­la città del 2.000. Sarà magari sbagliata, e perfino arretra­ta rispetto alle ultime teorie sulla città del futuro, ma, da un punto di vista fotogenico, è innegabile la sua forza emo­tiva, la sua inedita e sorprendente bellezza, che si avvale di una tecnica così perfetta da potersi sottoporre ad un esa­me prolungato senza che neppure per un istante se ne rie­sca a scoprire il modello plastico.

(Luis Buñuel, in "La Gaceta Literaria", n. 9 del 1 maggio 1927. Trad. italiana in "Scritti letterari e cinematografici", Marsilio, Venezia 1984. Citato in "Fritz Lang", di Autori Vari, Edizioni Carte Segrete, 1990)

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