Gioventù bruciata anno 1977

Gioventù bruciata anno 1977

Se la Little Italy di New York spadroneggia sullo schermo lo si deve a Scorsene e a tutto un movimento di 'oriundi': registi (Coppola, De Palma), attori (De Niro, Pacino, Stallone), scrittori (Puzo), produttori (De Laurentiis); ma l'elenco non è affatto completo. Nella camera di Tony Manero, che è il personaggio raffigurato da John Travolta, non per niente spiccano i poster di Al Pacino e di Rocky.
La febbre del sabato sera
, però, non vuol essere la favola dell’eroe che emerge sul suo ambiente, come il pugile che arriva alla soglia del titolo mondiale; bensì il quadro di un ambiente – la balera di Brooklyn – che è valvola di sfogo alle frustrazioni settimanali di una gioventù emarginata. Tony, come molti ragazzi dell’età sua, e delle sue origini, lavora da commesso, e in famiglia è afflitto da una madre troppo devota e da un padre disoccupato. Mamma e nonna lo hanno sempre considerato la pecora nera, dato che il fratello maggiore è sacerdote. […] Povero ma bello, in pista è il re. Un re con la sua piccola corte, e la cui corona non è tanto qualche trofeo, quanto il rispetto degli amici e l’adorazione delle ragazze, che si sdilinquiscono ai suoi passi, alle sue figure e piroette, alla carica sessuale del suo ballo. Nessuno sa danzare come lui, né esprimere altrettanto vitalismo, e un tale superamento dell’emarginazione quotidiana. [...] Il vero fascino, l’unica suggestione autentica, sta nei passi di danza, nella cornice opprimente in cui fioriscono ed esplodono, nel ritratto di un giovane che trova in questa sua passione naturale la forma per respingere, senza dubbio inconsciamente, i contenuti etici della vita che lo attornia.
In questo senso La febbre del sabato sera può essere assunto come testimonianza del nostro tempo, certamente più artificiale e spettacolare rispetto a quella che fornì Gioventù bruciata, ma forse non meno eloquente. E le sequenze all’Odissea 2001 (la denominazione, d’altronde, è significativa) fanno già parte, di diritto, di una futura antologia storica del musical.

(Ugo Casiraghi, “L'Unità”, 26 marzo 1978)




Ci sono due attraversamenti del ponte (the Verrazano Bridge), in questo film, che contano molto, perché segnano due svolte fondamentali nella storia della Febbre del sabato sera, e nella storia del suo protagonista: il passaggio di Tony Manero (Travolta) dall’innocenza del rock’n’roll (qui nella forma della disco-music) all’esperienza della maturità trova il suo correlativo cinematografico in un preciso viaggio fisico, al centro del quale c’è l’immagine simbolica più forte di tutto il film, the Verrazano Bridge.
Il ponte è lì continuamente, dall’inizio alla fine, ma prima che Tony possa vederlo come un mezzo di transizione verso il futuro ( e non più come sicurezza di tutti i suoi vecchi valori), deve cambiare tutte le sue idee e il suo atteggiamento nei riguardi della famiglia, della morale, del lavoro, dei suoi amici, e infine anche nei riguardi della morte. E la bella sceneggiatura di Norman Wexler (tratta da un articolo sulla disco di Nik Cohn) convoglia tutti questi cambiamenti attraverso i passaggi obbligatori delle due scene del ponte (che coinvolgono e definiscono molto chiaramente quasi tutti i protagonisti dei film). Nella prima scena Tony e la banda dei suoi amici vedono la loro situazione in termini abbastanza semplici, con una felicità ingenua e folle. Giocano a fare i grandi, i padroni della strada, sfidano il rischio mortale dei cavi tanto per far paura ad Annette, da subito il prototipo della ragazza stupida e debole (la prima, maltrattata ragazza di Tony). Solo Bobby resta in macchina, introverso e prigioniero dei suoi problemi. C'è un senso di sicurezza in tutti gli altri, di orgoglio, di esibizionismo: caratteristiche che definiscono tutta la prima parte del film […].
Nella seconda parte del film (l’ultima mezz’ora) scattano invece quei fatti che porteranno alla crisi di quei valori a cui [Tony] si è finora fermamente attaccato. […]
Il resto dei viaggio nella subway verso l’alba è l’uscita dal tunnel, l’accettazione di una realtà che comincia a vedere nelle sue contraddizioni.
E così Saturday Night Fever, che sembra un film per eccellenza sulla disco-music, diventa un film anti-disco: la storia di una crescita, dall’egoismo adolescenziale della discoteca alla maturità delle relazioni interpersonali. Una sorta di manicheismo rovesciato (un po’ alla Tony Manero). Forse il fenomeno della disco, tra l’altro ancora da capire e da raccontare, meritava un discorso un attimo più complicato e attento, senza ridurlo a questo mostro colorato, violento e notturno capace solo di inghiottire adolescenti attardati. Ma questo non toglie nulla alla geometrica forza del film, al suo muoversi da grande, efficace, affascinante macchina spettacolare.

(Giandomenico Curi, Ribelli con causa (ovvero guerra con bande), “Segnocinema”, n. 8, maggio 1983)