Voci sul 'Potëmkin'
N. Volkov
Ejzenštejn, insieme al direttore della fotografia Tissė, è riuscito a esprimere lo spirito più profondo della rivoluzione, il suo dinamismo più intimo, il suo ritmo gigantesco. Tutto prende vita nelle mani del maestro insuperabile dello schermo: il mare, la nave stessa, la scalinata di Odessa, le vele bianche, le masse umane, i vermi che strisciano nella carne. Con quale precisione sorprendente Ejzenštejn descrive la natura, le facce umane, le macchine! Egli ascolta con attenzione il respiro che sale dai fondali del mare, egli ama l’apparenza delle cose. Egli sa che la rivoluzione non è una questione personale ma di massa. E cerca una lingua che può esprimere i sentimenti delle masse.
(1925)
Léon Moussinac
L’opera più forte e più alta che il cinema abbia prodotto. Mai prima d’ora ‘un film’ (sottolineo la parola perché La corazzata Potëmkin è essenzialmente, magnificamente un film) aveva raggiunto un tale dinamismo, aveva messo in risalto una verità con altrettanto pathos. Di questo capolavoro si può dire che è la prima forma epica che il cinema abbia realizzato. Esalta i più profondi sentimenti umani e la loro assoluta grandezza morale entro un ordine rivoluzionario. Una sintesi sociale.
Dramma dominato nella sua architettura, nei suoi sviluppi, nei suoi dettagli, in ogni sua intima espressione dall’autorità del regista e servito dall’ammirevole disciplina degli attori, La corazzata Potëmkin è una flagrante dimostrazione della legge del cinema, ovvero del fatto che in un film descrittivo il sentimento della realtà è indispensabile affinché si produca l’emozione. Dimostra quanto sia falso il sistema delle vedettes, sempre usate in modo di farle diventare il centro di tutto.
Lo schermo non ha mai conosciuto nulla di più potente e fotogenicamente puro: i volti mostrano i caratteri, esprimono ciò e nulla più di ciò che deve essere espresso, nel momento in cui deve essere espresso. Volti di marinai in rivolta, di operai, di piccolo borghesi, di intellettuali, il volto commovente di una folla che vive la terribile tragedia. E volti di madri, che i soldati, macchine programmate per uccidere, certo non risparmiano.
Queste immagini si impadroniscono di voi, vi inseguono dalle scene della rivolta fin oltre la grigia città di Odessa che insorge intorno ai marinai martiri – l’assetto di combattimento sulla Potëmkin, seguito dall’immagine dello spiegamento militare zarista. La semplice grandezza della scena dei marinai, che lanciano l’appello ai loro compagni: “Fratelli! Fratelli!” e, infine, l’immagine indimenticabile dell’ombra della Potëmkin che passa davanti all’esercito schierato, i cui cannoni non hanno sparato!
La ricchezza e la precisione dei dettagli, il ritmo spesso implacabile nella sua perfezione drammatica, tutto esalta una bellezza e una verità dirette e profonde. Rivincita del cinema operaio sul cinema borghese, che finora ha saputo solo assecondare le folle e il loro gusto del mediocre, e addormentarle con le ninnananne sentimentali dei film franco-americani.
Finalmente un accento chiaro e potente. Finalmente un omaggio a ciò che c’è di più puro nello spirito e nel cuore degli uomini. Finalmente un film dalla tecnica impareggiabile, che fa dimenticare se stessa sotto la forza dell’emozione!
Si sarebbero potute eliminare un buon numero di inutili didascalie, e qualche effetto letterario che nulla aggiunge a un’opera di incomparabile unità. L’intera comunità dei cineasti s’è stretta intorno alla Corazzata Potëmkin, presentata lo scorso sabato dal Ciné-club de France.
Questo film è entrato tanto nella storia del cinema quanto nella storia rivoluzionaria.
Solo i sovietici ne hanno resa possibile la realizzazione. Chiara conferma della verità che non ci stanchiamo di ribadire: nel regime capitalista il cinema non potrà essere che un’industria, solo la Rivoluzione ne farà un’arte.
(Une date, Le cuirassé Potemkine, “l’Humanité”, 19 novembre 1926
Robert Desnos
Non protesterei più di tanto contro l’interdizione che ha colpito la mirabile Corazzata Potëmkin, proiettata l’autunno scorso in sedute private, a Parigi. So bene che la storia della rivolta di Odessa, tutta vibrante di fede, non poteva passare davanti alle folle senza risvegliare, nei cuori, vecchi entusiasmi che si vorrebbero veder morire. Il film, mirabilmente realizzato, raccontava questo episodio della rivoluzione in Crimea: la corazzata ancorata nella rada, il rancio dei marinai brulicante di vermi, la stupidità e la malvagità degli ufficiali, la parzialità del prete che si limita a dare l’assoluzione ai marinai colpevoli di rivolta e condannati a morte, la parzialità del prete che si ricorda del Vangelo solo per tentare di fermare l’ingiusto massacro degli ufficiali da parte dell’equipaggio ammutinato, le scene di repressione nelle strade di Odessa, la magnifica fuga della Potëmkin all’unico grido: “Fratelli!”, che fa cadere le consegne e spezza la disciplina, la corazzata in rivolta che scompare verso l’orizzonte trascinando nella sua scia immensa l’anima appassionata degli spettatori.
Questo film vibrava di fede e di entusiasmo. Lo schermo non rappresentava più un ostacolo. Era squarciato dai proiettili rossi dell’immaginazione. Rivelava il mondo meraviglioso nascosto dietro di lui. A un certo punto si udì battere i cuori degli uomini capaci di fede.
Noi non vedremo La corazzata Potëmkin a Parigi, non vedremo la rivolta di Odessa, scandita dalle note di una misera Marsigliese, suonata in maniera così stonata da ritrovare l’accento del ’92, dell’epoca in cui nazione e libertà erano confuse: gli inni rivoluzionari stonano senza perdere valore.
Ma la Potëmkin non è di quelle navi che si possono affondare con dei siluri. Ha levato l’ancora per sempre. Naviga. La sua scia contiene tutto. Gli elementi, le frontiere e gli uomini non possono niente contro di lei, e la sua elica immateriale è di quelle che spezzano gli scogli più aguzzi.
(Le Cuirassé Potemkine, “Le Soir”, 26 marzo 1927)
Lewis Jacobs
[...] L’essenza del montaggio di Ejzenštejn è il movimento. Il movimento in un film di Ejzenštejn ha la stessa funzione del colore in un quadro di Cézanne: diventa la base architettonica della composizione, e determina lo sviluppo delle sequenze, la costruzione delle scene, l’analisi dell’inquadratura, l’azione della vicenda, e quel piglio vigoroso che conferì a La nascita di una nazione e a Intolerance di Griffith quel loro potente dinamismo, che costituisce l’essenza vitale di ogni film, e che si ritrova in tutte le grandi opere del cinema. [...] L’incrociatore Potëmkin, il film di Ejzenštejn più conosciuto, è forse il suo più omogeneo. Questo film, come fece notare Dwight Macdonald, si compone di tre parti o movimenti maggiori, su cui dominano infiniti movimenti minori (movimento nell’interno dell’inquadratura, il ritmo dato dai tagli e la continuazione del movimento da un’inquadratura all’altra contribuiscono tutti, con il ritmo totale e il crescendo, alla fluidità del film). La prima parte ha inizio con un ritmo moderato, una scorrevole successione di inquadrature del mare, di amache che dondolano negli alloggiamenti dei marinai e delle attività mattutine dei marinai, che aumenta gradatamente fino alla protesta dei marinai per la carne del rancio piena di vermi. Il ritmo delle inquadrature, che è stato impercettibilmente accelerato, acquista forza nel conflitto che scoppia fra i marinai e gli ufficiali e raggiunge il culmine nella rivolta, con un montaggio sempre più rapido (primi piani e angolazioni) durante la battaglia per impossessarsi della nave. Da questo culmine, il movimento delle inquadrature recede a una sequenza di calma: le esequie dei marinai morti, presentate in campi lunghissimi e panoramiche, con un ritmo lento e calmo.
La seconda parte è rapida e potente. Il movimento inizia subito con gruppi di folla festosa sugli scalini del porto che acclama l’incrociatore Potëmkin, ora in mano dei marinai. Le inquadrature sono piene di movimento: parasoli rotanti, facce sorridenti, mani che si agitano a salutare, battelli che salpano incontro alla nave portando cibo, marinai sul ponte. Il ritmo è qui assai spedito e dato da una varietà di elementi che rivelano un’eccezionale inventiva. Quindi, d’improvviso, l’atmosfera festante viene rotta da un altro ritmo: i passi regolari e pesanti dei cosacchi che avanzano verso il porto. L’incontro di questi due tipi contrastanti di movimento, che sottolineano il contrasto fra le scene, crea un clima d’irresistibile tensione che giunge al suo culmine nel massacro. L’intensità, la rapidità e la carica emotiva delle inquadrature risolte nel rapido ‘staccato’ di primi piani di soldati che sparano, delle vittime urlanti e del particolare della carrozzina da bambino che rotola giù per la scalinata del porto, intercalato da squarci di gambe, di scalini e di pozze di sangue (il tutto in ironico contrasto con l’inizio dell’episodio) fanno di questa sequenza una delle più potenti di tutta la storia del cinema. Ejzenštejn opera in modo che in tutto l’episodio la tensione non si allenta un istante, ma aumenta, piuttosto, e termina l’episodio non risolvendolo, ma interrompendolo di colpo. In tal maniera l’orrore della scena non solo afferra con maggior forza gli spettatori, ma li lascia altresì ansiosi per ciò che seguirà.
Nella terza parte la tensione è creata fin dal primo momento. Si inizia con un movimento lento: l’equipaggio che attende l’attacco della flotta zarista. Qui il montaggio ha un ritmo moderato. Alla notizia che la flotta zarista si sta avvicinando, i marinai cominciano ad agire più rapidamente; la loro preparazione per la difesa si svolge con crescente intensità, resa con un montaggio più rapido e l’uso di angolazioni. All’apparire della flotta zarista, il contrasto viene intensificato al massimo. L’alternarsi rapido di inquadrature che mostrano ora i marinai del Potëmkin, ora le navi imperiali che si avvicinano, gli enormi primi piani delle macchine delle navi in moto, gli uomini che caricano i cannoni, i proiettili che vengono portati presso i pezzi, le bocche di cannone che si alzano sempre più a invadere l’inquadratura creano, in un ritmo rapidissimo, una tensione tremenda. A queste inquadrature segue non una risoluzione, ma una attesa insopportabile. Mentre le navi si accostano l’una all’altra con i cannoni pronti in posizione di sparo, il montaggio rallenta improvvisamente a un’andatura quasi strascicata, e mentre i marinai del Potëmkin attendono i primi spari dell’avversario, ogni movimento cessa del tutto. La pausa prolungata tiene senza fiato gli spettatori che si identificano con i marinai della corazzata che attendono immobili. Quando finalmente si giunge alla risoluzione, allorché la flotta zarista inalbera il segnale di pace e sfila dinanzi al Potëmkin senza sparare un colpo, l’improvvisa esagitazione dei marinai ribelli trova espressione in una sequenza di montaggio quasi furioso che libera gli spettatori dalla pressione emotiva cui erano stati sottoposti. Il rapido succedersi di queste inquadrature dà all’ultimo momento del dramma una specie di violenza. Il film è terminato; una ulteriore reazione da parte del pubblico sarebbe impossibile. Ma la nota sulla quale è terminato il film lascia nello spettatore un senso di profonda esultanza.
(The Rise of the American Film. A Critical History, Harcourt, Brace, New York 1939)
Grigorij Kozincev
Ejzenštejn mostrò che il soggetto di un film non doveva essere la ricerca dell’amore ma la lotta di un popolo per la giustizia. La misura storica del racconto non nasceva da una riflessione ma da un impulso immediato, in tutta la sua grandezza crudele. Tutto quello che egli toccava, prese vita – il mare, le macchine della nave, i gradini della scalinata di Odessa, tutto divenne gigantesco, pieno di significato, qualcosa che ci restituiva la vita intera. La gente della nostra epoca si ricorda degli oggetti più semplici: il passeggino, gli occhiali rotti, la candela nella mano di un marinaio ucciso.
Cosa contano il tempo, i confini geografici, le censure di fronte a un’arte come questa? È come se tutto il mondo avesse visto quella bandiera rossa, colorata a mano, che viene issata sull’albero più alto della nave [...]. Ejzenštejn insegnò al cinema la capacità di sconvolgere. Portò l’epos al cinema. Le dimensioni che il teatro aveva perduto ricomparvero sullo schermo. Di nuovo – e in un’altra veste – apparvero la tragedia e il pathos. Le masse, senza la mediazione dei singoli individui, diventarono protagoniste della tragedia. Nacque un nuovo cinema. Un’epoca trovava sullo schermo la sua espressione più forte [...]. La nuova arte prendeva forma da qualche parte fra la scienza e il punto più alto delle arti tradizionali basate sulla struttura del pathos: l’affresco, la sinfonia, i rituali antichi.